lunedì 15 gennaio 2018

Critica del Turismo (a partire dalle Baleari)

ho trovato in rete queste pagine molto interessanti, se vi interessano almeno la metà di quanto hanno interessato me le leggerete e le rileggerete, sono sicuro - buona lettura




(articoli trovati su: https://totinclos.noblogs.org - Traduttori: Christian e Franci)

Da decenni l’attività turistica rappresenta la punta di diamante dell’economia baleare, riuscendo ad accrescere la sua importanza negli anni a scapito di altre attività. Con il sopraggiungere della crisi, poi, che ha colpito principalmente l’industria, il piccolo commercio e i servizi pubblici, il turismo ha occupato quasi la totalità dell’economia isolana. La maggior parte del prodotto interno lordo, e di conseguenza la maggior parte della classe lavoratrice, dipende dal massiccio arrivo di turisti (che stando alle statistiche quest’anno superano i 13 milioni).
A sei anni dall’esplosione della bolla immobiliare che alle Baleari ha imposto il turismo come indiscusso pilastro dell’economia, il bilancio non potrebbe essere più negativo. L’alto tasso di disoccupazione è diventato normalità e i posti di lavoro creati per lo più in questo settore, sono sempre più precari. In cambio i profitti dell’onnipotente industria turistica hanno battuto ogni record. Per esempio il 20 aprile1 il Diario di Maiorca pubblicava la notizia che negli anni 2011 e 2012 gli incassi registrati dagli hotel (benché una parte non venga dichiarata, finendo direttamente nei paradisi fiscali) sarebbero aumentati del 55% mentre nello stesso periodo di tempo sarebbe cresciuta solo del 5,4% la spesa per i dipendenti (che devono accettare condizioni sempre più precarie). Questo non ha fatto altro che allargare la disuguaglianza sociale e la nostra dipendenza politica ed economica da coloro che manovrano e gestiscono i flussi del turismo. In questo modo diventano molto più chiare le differenti leggi in favore del turismo che tanto l’attuale governo come quello passato hanno imposto.
In conclusione l’afflusso record di 13 milioni di turisti ci ha reso più poveri e più legati politicamente ai disegni dell’oligarchia alberghiera. Inoltre, come sappiamo, il costo in termini energetici e ambientali che paghiamo per poter accogliere una simile quantità di calzini e sandali2 non accenna a diminuire. Ora, con la legge Delgado la distruzione più aberrante sarà legalizzata. Le zone di Canyamel e Fontanelles ne sono un ottimo esempio.
Dall’altro lato, non possiamo dimenticare la banalizzazione di tutto ciò che il turismo calpesta né la sua aggressività verso le culture locali.
Di fronte a questo panorama crediamo che chi ha ancora un senso critico verso questo modello di società che c’impone la monocultura turistica patrocinata dalle élites locali e internazionali, dovrebbe metterla in discussione mettendo in discussione a sua volta il sistema politico ed economico che lo rende possibile: il capitalismo.


1 [Ndt] 2014.
2 [Ndt] Espressione ironica, riferita alle calzature dei turisti nordeuropei.


Uno stato sempre “sottosviluppato”

Dagli aiuti americani agli aiuti europei

Autore: Eliseu Casamajor
Traduttori: Christian e Franci

Gli accordi del secondo dopoguerra, siglati tra Roosevelt, Churchill e Stalin (Jalta, 1945), disegnarono quello che sarebbe stato l’ordine mondiale della Guerra Fredda. I nordamericani non vollero ripetere gli errori degli accordi presi dopo la Prima Guerra Mondiale, quando fecero pagare la ricostruzione agli sconfitti. In quel contesto, la Casa Bianca lanciò dei programmi di salvataggio che nei primi anni, attraverso le Nazioni Unite – recentemente create e controllate solidamente dagli Stati Uniti – portarono a piani di aiuto per la ricostruzione europea che arrivarono a 20.000 milioni di dollari indirizzati tanto agli Stati capitalisti quanto a quelli del blocco sovietico. Successivamente, i cambiamenti politici europei, i movimenti di truppe sovietiche e l’escalation delle tensioni territoriali, condussero ad una ridefinizione dei programmi di aiuto. Così in modo da ottenere un maggior controllo e dominio sul processo di ricostruzione materiale (ma anche istituzionale) europea, gli Stati uniti lanciarono nel 1947 il noto piano Marshall (Piano per la Ricostruzione Europea), con ulteriori 15.000 milioni di dollari. Incaricata di gestire il piano Marshall, venne nello stesso tempo creata l’OCSE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica).
Bisogna tenere presente che l’Europa della metà degli anni ’40 era un continente devastato dai bombardamenti, ma anche che le classi dominanti percepivano il serio rischio di non riuscire a controllare il malcontento sociale. Ecco perché gli aiuti americani servivano non soltanto per la ricostruzione fisica del continente, ma anche per articolare alcune dinamiche politico-economiche che portassero da un lato all’esplosione del consumo di massa e dall’altra al controllo finanziario del blocco anglosassone. Il nuovo progetto per l’Europa era quello di diventare un blocco di potere internazionale sotto il controllo degli Stati Uniti che agisse soprattutto come contenimento di fronte alla minaccia sovietica.
Si sviluppò negli stessi anni in Europa l’industria delle vacanze, sotto il controllo degli operatori turistici britannici e tedeschi, strettamente connessi alle principali strutture del capitale finanziario, dei gruppi commerciali e delle telecomunicazioni. Inoltre nel caso della Germania, alcuni gruppi turistici sorsero direttamente dalla spoliazione nazista ai danni degli ebrei; mentre nel Regno Unito il capitale proveniente dall’oro e dai diamanti del Sudafrica dell’apartheid venne reinvestito nell’industria turistica.
Nel frattempo la Spagna franchista non navigava in buone acque avendo dovuto far fronte ad un lungo dopoguerra e non avendo ricevuto aiuti diretti per la ricostruzione, nonostante avesse mantenuto buone relazioni con gli americani. Inoltre le potenze occidentali imposero un timido embargo alla Stato spagnolo come simbolo democratico della condanna della dittatura in modo da salvare le apparenze. Tuttavia, agli inizi degli anni ’50 la politica economica di Franco si adattò progressivamente alle direttive del capitalismo internazionale e venne reintegrata nell’orbita dell’Europa occidentale. Pur non godendo degli aiuti del signor Marshall, come ironizzava il film di Garcìa Berlanga1, la Spagna riceveva altre forme di sostegno. Nel 1953 furono siglati i Patti di Madrid per la cooperazione economica e la difesa tra Stato spagnolo e Stati Uniti. Come risultato di quegli accordi arrivarono negli anni ’50 1300 milioni di dollari di aiuti. Frutto delle medesime politiche risultarono buona parte delle installazioni militari costruite dall’esercito americano, per esempio la base del Puig Major2. Anche El Dic de l’Oest3 fu una piattaforma fondamentale della flotta americana del Mediterraneo.
Inoltre gli aiuti americani avevano una componente tecnica ed ideologica chiara, con la quale imporre le direttive del capitalismo nordamericano di cui il Piano di Stabilizzazione del 1959 è un chiaro riflesso. Un anno prima, la Spagna fascista aveva fatto il suo ingresso nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale. Durante gli anni ’60 arrivarono ulteriori 416 milioni di dollari di prestiti che furono destinati per lo più alla costruzione di nuove infrastrutture.
Nel 1963, due anni dopo la sua visita a Maiorca, Paul Craig, tecnico della Banca mondiale, concesse un prestito di 238 milioni di pesetas per la costruzione della super-strada di collegamento all’aeroporto Son Sant Joan e Palma di Maiorca.
Gli aiuti americani avevano una componente tecnica ed ideologica chiara, con la quale imporre le direttive del capitalismo nordamericano di cui il Piano di Stabilizzazione del 1959 è un chiaro riflesso
Mentre il capitalismo europeo spingeva, allargava anche i suoi confini. Così, Franz Joseph Strauss, filonazista e Ministro delle Finanze tedesco, per permettere ai capitali accumulati nella Germania occidentale di ricercare nuovi investimenti approvò la legge di sostegno allo sviluppo che prevedeva sgravi fiscali per gli investimenti immobiliari nei “paesi sottosviluppati”, e la Spagna era considerata tra questi. L’approvazione di questa legge, denominata legge Strauss, coincise con il boom dell’edilizia della fine degli anni ’60.
Contemporaneamente, le élite fasciste preparavano il terreno per incorporare la Spagna nel progetto comunitario europeo. Nel 1970 viene siglato l’Accordo Economico Preferenziale tra la CEE e lo Stato spagnolo e una volta sepolto il dittatore Franco, lo spirito della Transizione4 assume come obiettivo prioritario la completa integrazione dello Stato spagnolo all’interno dell’“Europa del capitale”. L’autentico consenso era in realtà il desiderio “comune” delle classi politico-economiche dominanti. Per dissipare ogni dubbio sul vincolo concreto con gli Stati Uniti, l’integrazione alla CEE andava legata all’ingresso nella NATO.
Lo Stato spagnolo entra a far parte della Comunità Economica Europea (1985) nel pieno della ristrutturazione capitalista degli anni ’80 provocando così un ulteriore modellamento dell’economia spagnola. Da allora inizia un lungo processo di “distruzione creativa” finanziato con denaro europeo con aiuti che in totale arrivano a circa 90 mila milioni di euro. Sotto il parametro della modernizzazione di un paese considerato arretrato, si comincia un duplice processo distruttivo di molteplici attività (per esempio l’agricoltura, i cantieri navali, etc.), dando spazio allo stesso tempo ad un “piano di sviluppo” che neppure Franco avrebbe sognato.
La costruzione massiccia di infrastrutture (sovvenzionate) ha portato la Spagna in cima all’Unione Europea in quanto ad superstrade, aeroporti, treni ad alta velocità, ecc. Al termine del XX secolo, l’economia spagnola avrebbe dovuto avere un ruolo di rilievo nei piani finanziari immobiliari mondiali e per questo si rendeva necessario l’adattamento del territorio attraverso un dispiegamento incredibile di infrastrutture. Lo stretto vincolo che intercorre poi tra la speculazione finanziaria ed immobiliare e quella del settore turistico hanno indotto nuovi interventi in quelli che erano considerati i principali “punti di sottosviluppo”, ovvero le zone litorali e insulari, che poi è dove la bolla immobiliare si è sviluppata maggiormente.
Gli aeroporti sono stati i principali progetti finanziati dall’Unione Europea, come quello di Palma di Maiorca: 70 milioni di euro per portare a termine il suo ampliamento; terminato nel 1997, precisamente quando veniva liberalizzato lo spazio aereo europeo ed iniziavano ad operare le compagnie low cost
Gli aiuti provenienti dall’Unione Europea si sono concentrati in alcuni ambiti e delineano degli intrecci difficili da sbrogliare (per esempio FEGOA nell’agricoltura, FEP nella pesca, FSE nel lavoro, FEDER nello sviluppo regionale). Dal trattato di Maastricht (1992) le isole Baleari hanno ricevuto 520 milioni di euro provenienti dai Fondi per la Coesione. La maggior parte di questo denaro è stato fondamentale per adattare il territorio Baleare alle nuove logiche economiche. Così, gli aeroporti sono stati i principali progetti finanziati dall’Unione Europea, come quello di Palma di Maiorca: 70 milioni di euro per portare a termine il suo ampliamento; terminato nel 1997, precisamente quando veniva liberalizzato lo spazio aereo europeo ed iniziavano ad operare le compagnie low cost. Senza questi aggiustamenti territoriali e normativi il boom sarebbe stato impensabile giacché l’aeroporto da solo ha triplicato la capacità ricettiva della isola. Ancora, i desalinizzatori necessari a coprire le esigenze idriche dell’industria turistica hanno assorbito finanziamenti per 71 milioni di euro.
Inoltre, gli aiuti all’economia delle Baleari non sono stati solo quelli destinati al territorio spagnolo, ma sono stati aumentati anche grazie all’internazionalizzazione dell’economia stessa. Così, le “multinazionali Baleari” hanno ricevuto anche degli aiuti che lo Stato concede attraverso dispositivi connessi con le intromissioni del capitale spagnolo nel “Sud Globale” (come il Fondo d’Aiuto Ufficiale ai paesi sottosviluppati). La scusa della crisi ha permesso di cambiare in modo definitivo gli aiuti al Sud, adottando una politica orientata all’internazionalizzazione del capitale spagnolo, come ben dimostra la creazione del Fondo per l’Internazionalizzazione dell’impresa nel 2011.
Ecco quindi che la storia recente del capitalismo delle Baleari appare come un progetto reso possibile solo dal drenaggio costante di denaro pubblico verso i profitti del grande capitale. José manuel Naredo sostiene che qualificando queste dinamiche come neoliberali si occultano le significative porzioni di intervento statale e suggerisce di parlare di neocaciquismo5.


1 [Ndt] Il riferimento è a Bienvenido Mr. Marshall, pellicola cinematografica di successo internazionale di Luis García Berlanga. Il film, d’ispirazione neorealista, è del 1953.
2 [Ndt] Il Puig Major è la montagna più alta di Mallorca, la cui vetta è stata tagliata per installare un radar dell’esercito americano, ed è ora inaccessibile poiché convertita in base militare americana.
3 [Ndt] El Dic de L’Oest è un porto di Palma di Mallorca.
4 [Ndt] Si definisce Transizione (o Transizione alla democrazia) il periodo storico, in Spagna, di passaggio dal regime franchista al regime democratico su modello occidentale. Genericamente collocabile dal 1975 al 1979, ha come riferimenti storici e formali fondamentali: la morte di Francisco Franco il 20 novembre 1975, la proclamazione di Juan Carlos I di Borbone Re di Spagna il 22 novembre 1975, la formulazione della nuova Costituzione il 29 dicembre 1978, le prime elezioni dopo il franchismo, 1 marzo 1979.
5 [Ndt] Caciquismo, da cacique, termine indicante il capo di una comunità, ha assunto nel tempo il significato di grande proprietario terriero in grado di dominare la vita politica, economica e sociale di una comunità, con particolare riferimento alle regioni contadine. Fenomeno particolarmente legato al sud dello Stato spagnolo e laddove era più forte il latifondismo, ha avuto nuovo sviluppo nell’epoca franchista mantenendo ancora oggi una sua dimensione, con caratteristiche tipicamente clientelari.




L’ideologia del turismo

Lottare contro il turismo significa anche combattere i valori della classe media, base del capitalismo moderno.

I LOVE CAPITALISMO
(…)
perché tutti vogliamo essere pacifici borghesi,
schiavi del mutuo
fedeli alla religione dell’individualismo proprietario,
perché nessuno vuole essere altro,
nessuno vuole lottare contro sé stesso
perché
il giorno in cui vorremo lottare contro noi stessi,
quel giorno
la classe media
brucerà.
Antonio Orihuela
Autore: Antoni Pallicer Mateu
Traduttori: Christian e Franci
L’emergere del turismo così come oggi lo conosciamo è legato all’espansione e al consolidamento delle cosiddette classi medie. Solo dopo il dopoguerra e l’introduzione del welfare l’industria del turismo ha iniziato la sua rapida espansione. Perciò, è proprio in quei paesi che per primi hanno introdotto questo nuovo ordine sociale ed economico (Svezia, Regno Unito, la Repubblica federale di Germania ecc.) che si inaugurano i primi grandi blocchi alberghieri.
Come hanno indicato gli studi di Ivan Murray e Joan Buades, l’espansione del settore turistico ha un primo impulso a causa della tutela economica e politica degli Stati Uniti sulla vecchia Europa. Ad esempio, nello Stato spagnolo queste linee guida (Piano di Stabilizzazione Economica) sono quelle che incoraggiano Franco a fare della Spagna uno dei principali recettori di questa industria emergente. Così, già negli anni ’60 i turisti che visitano le coste della Spagna fascista sono nell’ordine dei milioni. Per contro, in quegli stessi anni, e il paradosso é brutale, ha inizio la grande migrazione degli spagnoli verso i paesi europei da cui proviene la maggior parte dei turisti (secondo i dati ufficiali dell’Istituto Spagnolo dell’Emigrazione (EIE) tra il 1959 e il 1973 sono emigrate verso il continente europeo 1.066.440 persone); Nello stesso decennio, si produce quell’immenso esodo rurale verso le città e le nuove zone turistiche della costa mediterranea (tra il 1961 e il 1965 quasi 2 milioni di persone abbandonano i loro villaggi1).
Non è un caso che l’espansione turistica e il consolidamento della società dei consumi viaggino parallelamente all’abbandono delle aree rurali e alla conversione di buona parte della classe operaia in classe media. Oggi si fa un gran parlare del declino di questo gruppo sociale a causa della crisi. Ciò di cui non si parla molto, tuttavia, sono le idee e i valori adottati da questa classe, che costituiscono la base su cui risiede la modernità capitalista e, per estensione, una delle sue prime industrie di oggi, il turismo.
Non è un caso che l’espansione turistica e il consolidamento della società dei consumi viaggino parallelamente all’abbandono delle aree rurali e alla conversione di buona parte della classe operaia in classe media
L’ideologia della classe media attuale è grosso modo erede di quella della piccola borghesia degli inizi della rivoluzione industriale (diritto di proprietà, sicurezza, devozione al progresso, conservatorismo, rifiuto del collettivismo, etc.). Ma é solo dopo il trauma della seconda guerra mondiale che svilupperà i suoi tratti più rappresentativi, dato che da questa contesa apocalittica emerse un nuovo ordine mondiale, dominato dagli Stati Uniti da una parte e dall’Unione Sovietica dall’altra. Il blocco occidentale (da cui sorge il turismo di massa) adottò in generale politiche di stampo keynesiano e facciata social-democratico, considerate dalle élite locali come la miglior via per rilanciare l’economia e la miglior formula per disinnescare la minaccia di una rivoluzione proletaria. Sono gli anni del benessere della classe operaia e dei suoi miglioramenti sociali tra cui le ferie pagate. Ma questa prosperità2 va di pari passo con un insieme di valori e idee che rendono questi benefici utili nuovamente agli interessi di espansione del capitalismo. Grazie all’industria mediatica, in epoca di grande espansione soprattutto attraverso la televisione, la propaganda diffonderà costantemente i supposti benefici legati alla società dei consumi e la relativa ideologia da adottare. Così, con una classe operaia convertita in euforica classe media e con con il nuovo ruolo sociale che avranno le vacanze, era tutto pronto per offrire al capitalismo il succulento piatto del turismo.
È chiaramente molto difficile lottare contro la necessità di fuga, di viaggio, che ha costruito il sistema, perché ne siamo contagiati tutti quanti
Inoltre, altri meccanismi di carattere sociale hanno influito per rendere l’esperienza turistica una necessità. In una società prevalentemente urbana, con mentalità individualista, dove la vita gira intorno ad un lavoro alienante (catena di montaggio, uffici, settore dei servizi, ecc), dove la noia si associa al disorientamento sul senso delle esistenze, stressate dal dover possedere e godere sempre di più, e in cui subiamo costantemente il bombardamento dell’industria dei sogni futili, ossia l’industria dell’ozio e del consumo, la ricerca di evasione e fuga dalla realtà diventa una necessità. E quale miglior rifugio da questa realtà ostile che una manciata di giorni di scappatoia scelti tra la moltitudine di offerte che il settore del turismo crea? Così, oggigiorno, chi cerca una via di fuga dalla società può scegliere tra un soggiorno in un albergo sulla spiaggia del tradizionale Mediterraneo o di destinazioni più esotiche, come le sabbie del mare dei Caraibi o del Mar Cinese. Dall’altro lato, il capitalismo ha anche creato una vasta offerta per rispondere a qualsiasi gusto ed interesse nell’ambito turistico: gastronomico, culturale, festaiolo, avventuroso, antropologico, rilassante, rurale, naturale, residenziale, sportivo, sessuale, eccetera.
Contro questa necessità vitale d’evasione costruita dal sistema è evidentemente molto difficile lottare perché ne siamo contagiati tutti quanti. Ciononostante, diventa sempre più urgente opporsi al turismo. Ma, giacché non si può obbligare ad eludere la necessità d’evasione, come fare per cominciare a insinuare il cuneo della critica?

Primariamente, diffondendo tra la gente le conseguenze nefaste che il turismo ha sull’ambiente e sulle comunità che lo ricevono. Questo giornale e il precedente hanno proprio l’obiettivo di cominciare a riflettere seriamente su questa tematica. Cominciando ad affrontare la questione vedremo che il cosiddetto “diritto al turismo” è un lusso3, perché solo un quarto della popolazione mondiale può godere di questo privilegio, e questo proprio quando i processi migratori (molti conseguenti alle guerre, alla spoliazione, ai cambiamenti climatici) stanno aumentando; allo stesso modo vedremo la sua assoluta insostenibilità e impossibile generalizzazione al resto dell’umanità.
Che fare dunque per contrastare la necessità di evasione, del consumo di sensazioni che il turismo vende?
Per cominciare, combattere la mentalità individualista e l’ideologia4che è stata inculcata alle cosiddette classi medie. Contro l’individualismo proprietario1 riprendere l’alternativa della comunità, della vita in comune (fratellanza, solidarietà, mutuo appoggio, autonomia); la cooperazione in opposizione alla competitività; l’autogestione contro il consumismo di ogni tipo; la cultura contro i paraocchi dell’ignoranza; la persona in opposizione alla massa; la responsabilità contro la mentalità ingenua; la vita rurale contro la vita metropolitana; la solidarietà internazionale contro il provincialismo piccolo borghese; la cultura propria contro la cultura di massa globalizzata; la lotta contro la passività.
Infine come diceva il poeta:
il giorno che vorremo lottare contro noi stessi,
quel giorno
la classe media
brucerà.


1 Capel, H. (1967). Los estudios acerca de las migraciones interiores en España. Revista de Geografía, I, 1, pp. 79-101.
2 La quale, se accostata ad una mentalità diversa, avrebbe potuto utilizzare i progressi sociali come una base per rafforzare la lotta contro il capitalismo.
3 Non dimentichiamo che é grazie al petrolio che la gente può andare e venire rapidamente da un luogo all’altro.
4 Biagini, C. (2012). La ideologia del adosadoEkintza Zuzena, número 39.


L’industria mondiale del turismo divora il pianeta

Espropriazione e saccheggio da parte di una “signora” di buona reputazione.

Autore: Eliseu Casamajor
Traduttori: Christian e Franci
Quando si parla dell’industria del turismo spesso si tende, da un lato, a ridurla ad una serie di attività con una forte base territoriale, come ad esempio gli alloggi turistici, e dall’altro ad identificarla, sociologicamente, con la presenza di guiris1. Lungi dall’essere riducibile a questa visione parziale e costruita dalle diverse espressioni del potere – soprattutto mass media e mondo accademico -, la questione del turismo è qualcosa di molto più complesso, questo settore industriale infatti va dai grandi tour operators2 ai venditori ambulanti e altri lavori informali che proliferano nelle zone turistiche.
Nei tempi del capitalismo neoliberista, il turismo ha avuto un importante ruolo nelle logiche finanziarie del casinò globale. Di fatto, molte istituzioni finanziarie e relativi prodotti sono nati all’interno del business del turismo, come la famosa American Express e i traveller’s check che offrivano meccanismi di pagamento “sicuri” per i turisti in viaggio, mentre garantivano enormi poteri alle agenzie incaricate della loro emissione. Così, una delle basi del turismo è quella di controllare il movimento di capitali, al fine di impedirne la dispersione e garantirne il trasferimento ai centri di comando del capitale turistico. In questo modo si è consolidato uno degli elementi centrali del business turistico, ovvero che allo spazio di produzione turistica, in altre parole alle destinazioni, rimanesse la parte più piccola della torta della rendita generata, cosicché la maggior parte dei flussi di capitale generati dal turismo ritornassero nuovamente ai poteri centrali e alle loro piattaforme finanziarie, i paradisi fiscali. In molti casi, solo il 15% o il 20% della spesa dei turisti rimane nelle località turistiche.
In molti casi, solo il 15% o il 20% della spesa dei turisti rimane nelle località turistiche
Un altro aspetto essenziale del settore turistico è il ruolo giocato nell’ampliamento degli spazi di profitto. La colonizzazione di aree periferiche da parte di questa industria ha prodotto l’ulteriore mercificazione di comunità, spazi e risorse che spesso non erano ancora state totalmente assorbite dalle logiche del capitale. Il capitale turistico si appropria di spazi, come è accaduto, ad esempio, con le spiagge delle Baleari e dei Caraibi, o delle risorse naturali, come l’acqua, molte delle quali erano considerate, fino ad allora, bene comune. Il processo di appropriazione da parte del capitale turistico causa gravi fratture sociali e conflitti con le comunità rurali, spossessate ed espulse. In risposta alle mobilitazioni sociali, le élite delle periferie turistiche hanno rafforzato i meccanismi repressivi, aiutate dall’apparato statale e da mercenari privati al soldo degli imprenditori.
Il processo di appropriazione da parte del capitale turistico causa gravi fratture sociali e conflitti con le comunità rurali, spossessate ed espulse
Inoltre, l’investimento iniziale nel settore turistico, se confrontato con altre attività industriali, come per esempio la petrolchimica, è relativamente basso. Così, se l’investimento è infruttuoso, il rischio non è comunque elevato; se invece gli affari procedono, attraverso il turismo si possono aprire e ampliare le frontiere del processo di colonizzazione e di mercificazione. Ed ecco che i vari elementi dell’industria turistica, oltre alle catene alberghiere, penetrano in profondità nelle nuove periferie del mondo. Un caso esemplare è rappresentato dalla penetrazione di Sampol Ingeniería y Obras SA nella Repubblica Dominicana con l’incarico della fornitura elettrica alla catena alberghiera Riu. Da questo Sampol ha ottenuto l’incarico dell’elettrificazione del metro di Santo Domingo.
La penetrazione turistica svolge poi un ruolo fondamentale come base politica, per stabilire contatti e “comprarsi” le volontà delle élites locali. Un fatto rilevante è che le principali catene alberghiere di Maiorca hanno incontrato nelle dittature del Nord Africa, dei Caraibi e delle aree del sud-est asiatico, le zone predilette per installare le loro “fabbriche turistiche”.
Un aspetto da considerare è che l’affluire del capitale turistico è generalmente ben accolto poi non solo dalle élites ma anche dalle classi popolari. Ecco perché si dice che l’industria del turismo è una delle vie di accumulazione che gode di miglior reputazione. Una reputazione che dev’essere smontata, specialmente nei movimenti antagonisti, che spesso considerano ancora il turismo un male secondario.

Frattura metabolica3 e colonizzazione dei territori

Nella misura in cui spazi e comunità si strutturano intorno alla monocoltura turistica, si rompono le fondamenta sociali che prima le sostenevano. Il progressivo ingresso di valuta posiziona queste aree in una situazione differente rispetto ad altre zone che non sono toccate dalla bacchetta magica del turismo. Così vengono abbandonati i lavori agricoli e gradualmente cresce la dipendenza dall’esterno. Una dipendenza che è duplice: in primo luogo rispetto ai turisti che portano i soldi e, dall’altro, rispetto alle risorse che sostengono questo metabolismo sociale.
Uno degli aspetti più estremi della produzione turistica è rappresentata dai “ghetti turistici”: zone separate dalle aree abitate dalla popolazione locale e divise da mura
Le trasformazioni più estreme provocate dal turismo si sono date negli spazi insulari, dove, con il caso paradigmatico delle Baleari, la maggior parte delle risorse proviene dall’esterno. Essendo qui fondamentale il trasporto motorizzato, e quindi il petrolio, ecco che l’industria del turismo diventa una delle più dipendenti dall’oro nero. Da qui l’interesse della lobby del turismo nel bloccare qualsiasi accordo internazionale che possa diminuire le emissioni di gas che provocano l’effetto-serra, in particolare quelle che provengono dall’areonautica. Il turismo globale richiede 326 milioni di TEP4, con l’emissione di 1399 milioni di tonnellate di CO2, equivalente alle emissioni congiunte di Spagna e Germania.
Tuttavia, l’espressione territoriale del business turistico è tra quelle che generano più problemi, richiedendo una potente trasformazione territoriale.
In termini globali, l’industria del turismo occupa circa 514 948 km2, vale a dire un’area superiore a quella della Spagna. Pertanto, è necessaria una forte integrazione tra il capitale e lo Stato per adeguare il quadro normativo e permettere investimenti in infrastrutture funzionali ad essa. Ecco perché gli investimenti pubblici si indirizzano verso aeroporti e superstrade, piuttosto che verso scuole e ospedali.
Uno degli aspetti più estremi della produzione turistica è rappresentata dai “ghetti turistici”: zone separate dalle aree abitate dalla popolazione locale e divise da mura. Si disegna così una città duale, dove i residenti delle zone periferiche esterne penetrano nelle zone turistiche, controllate da ampi dispositivi polizieschi, solamente per lavorare. Dall’altro lato del muro abitano gli stessi lavoratori che vengono sfruttati negli hotel, repressi dalla polizia e abbandonati dallo Stato. Eppure, la propaganda continua con il ritornello del “un turista è un amico”.
Ancora oggi, nel laboratorio delle Baleari, avviato dalla dittatura fascista, Bauzà5 e i suoi “ragazzi”, con la scusa della crisi, mettono in moto nuove forme di dominio turisitico-immobiliare. Una versione castigliano-Baleare della dottrina dello shock di Pinochet.


1 [Ndt] Termine dispregiativo usato nello Stato spagnolo per definire i turisti
2 [Ndt] Come la nota TUI.
3 [Ndt] Riferimento all’espressione di Marx, frattura metabolica, che rimanda alla scissione ed alienazione dell’essere umano dal suo ambiente, alla rottura del suo rapporto con la natura.
4 [Ndt] Tonnellate equivalenti di petrolio; il Tep rappresenta la quantità di energia rilasciata dalla combustione di una tonnellata di petrolio grezzo e vale circa 42 GJ (gigajoule).
5 [Ndt] José Ramón Bauzá Díaz, politico spagnolo e uomo di punta del Partido Popular delle isole Baleari; presidente della regione Baleare dal 2011 al 2015.




Smontando Airbnb

Appunti critici sul caso di Barcellona.

Autore: Albert Arias Sans
Traduttori: Christian e Franci
La cosiddetta economia collaborativa1, emersa bruscamente negli ultimi anni, si presenta come un nuovo paradigma economico basato sulla rivalorizzazione di beni in disuso e sul rendere più semplice la connessione tra i potenziali utenti in giro per il mondo. Una proposta che, secondo i suoi sostenitori, elimina gli intermediari, promuove il riciclo e l’ottimizzazione delle risorse e crea comunità di consumo al margine dei modelli del mercato tradizionale. Il settore degli alloggi turistici è uno degli ambiti di maggiore sviluppo di questa nuovo trend che, tuttavia, prende forma in modi differenti: dall’offrire gratuitamente un divano, allo scambio simultaneo di appartamenti per un dato periodo, fino all’affitto temporaneo di un bene immobile.
Qui proviamo ad analizzare criticamente l’affitto a breve termine di appartamenti e abitazioni sotto questo nuovo “paradigma” attraverso il caso di Barcellona, avvertendo che dietro la retorica dell’emancipazione, della redistribuzione e dell’autenticità2 si nascondono pratiche di rendita privata che possono avere costi sociali molto elevati. Per farlo ci concentreremo su uno dei modelli di impresa più in voga nell’economia collaborativa: Airbnb. Creata nel 2008, questa piattaforma on line mette in contatto i proprietari dei beni immobili – i cosiddetti host – con i clienti – i cosiddetti ospiti -, trattenendo per sé una commissione che varia rispetto al valore della transazione, la quale è mediata dall’impresa stessa. Un’azienda con sede europea a Dublino e con poco più di cinquecento lavoratori, ma che, nonostante ciò, ha un valore di mercato superiore alla maggior parte delle catene alberghiere mondiali.
Secondo Airbnb, Barcellona è la quarta destinazione mondiale per numero di offerte nel suo portale. I dati confermano la sua importanza3: 6800 offerte di appartamenti e 4800 offerte di stanze in affitto al maggio del 2014. Circa 30.000 posti letto stimati, che corrispondono approssimativamente alla metà dei posti totali tra hotel, pensioni e alberghi (68.000, secondo dati ufficiali del Comune). Non stiamo parlando dunque di un fenomeno marginale di quattro entusiasti che condividono aneddoti da viaggiatori, ma di migliaia di alloggi disseminati in edifici residenziali. Un’offerta abbastanza significativa in termini assoluti sulla quale proponiamo un’analisi critica esaminando i tre argomenti che, secondo l’impresa, costituirebbero la sua particolarità: la distribuzione spaziale, l’eccezionalità e la capacità redistributiva.
La ricerca dimostra che, al contrario del mantra dell’impresa, l’offerta non è distribuita tra i quartieri della città ma è altamente concentrata nei quartieri centrali e precisamente dove vi é la più alta presenza di hotel
Vediamo in primo luogo la distribuzione spaziale dell’offerta. La ricerca dimostra che, al contrario del mantra dell’impresa, l’offerta non è distribuita tra i quartieri della città ma è altamente concentrata nei quartieri centrali e precisamente dove vi é la più alta presenza di hotel. Alcuni dati lo dimostrano: il 96% dell’offerta è circoscritto alla metà dei quartieri. Il 60% dell’offerta totale si colloca nei distretti della Ciutat Viella e Eixample, i più turistici, mentre il resto lo troviamo soprattutto in quartieri storici e di classe media – Gracìa, Sants, Poble Sec, Pobleneu -, proprio laddove cresce la presenza di movimenti sociali che denunciano l’incipiente impatto provocato dagli appartamenti turistici. Da questo punto di vista, non si vede come l’offerta possa portare benefici alle periferie.
In secondo luogo, per quel che riguarda l’eccezionalità del tipo di alloggio, occorre distinguere nuovamente tra i casi in cui un proprietario affitta stanze dell’appartamento in cui vive, e la locazione di appartamenti interi. Sebbene la prima tipologia è senza dubbio la più eccezionale, attualmente non possiede una regolamentazione e non può essere valutata in termini legali. Tuttavia, l’affitto di appartamenti interi per un periodo inferiore a un mese è regolato a Barcellona dalla formula dell’abitazione a uso turistico (Habitatges d’Us Turistic, HUT) della legislazione catalana. A Barcellona esistono un totale di 9606 HUT, sia in edifici interamente destinati a quest’uso sia sparpagliati in edifici residenziali. Il numero di HUT è cresciuto di quattro volte dal 2012 fino a che la concessione di nuove licenze non è stata sospesa4, in attesa dei cambiamenti legislativi verso l’adattamento alla Direttiva Europea per i Servizi e l’approvazione di un Piano Urbanistico Regolatore. Sebbene non si conosca la cifra esatta, si stima che approssimativamente il 60% degli annunci di appartamenti (4000 circa) non abbiano licenza. Ma c’è di più. La metà degli annunci irregolari li troviamo a Ciutat Vella, un distretto che nel 2010 ha esplicitamente proibito nuove licenze di HUT a causa del loro elevato impatto. Così, scopriamo che, con la scusa dell’eccezionalità, Airbnb è il cavallo di Troia della deregolamentazione urbanistica e dell’ipersfruttamento turistico.
Cifre a parte, dovremmo prima domandarci se l’abitare può entrare a far parte di questa logica “collaborativa” che rimane potenzialmente speculativa e con un costo sociale molto alto
L’ultima questione è in relazione ai supposti benefici dati dalla redistribuzione dei profitti generati dall’immissione nel mercato di immobili o parti di immobili vuoti o sottoutilizzati per essere consumati per un breve periodo.
Se guardiamo alla concentrazione della proprietà dell’offerta, i risultati sono evidenti. Il 2,5% dei locatari (molte sono imprese camuffate in profili personali) controlla il 30% dell’offerta di appartamenti. Il 60% degli annunci provengono da proprietari con più di un appartamento inserito nella piattaforma. Inoltre l’elemento insistente che attraverso questo modello di consumo diretto i visitatori aiuterebbero a redistribuire ricchezza svanisce quando ci si rende conto che la presenza nei quartieri periferici è minima. Cifre a parte, dovremmo prima domandarci se l’abitare, a differenza della condivisione di un’automobile o di un parcheggio, può entrare a far parte di questa logica “collaborativa” che rimane potenzialmente speculativa e con un costo sociale molto alto se pensiamo che il costo di un affitto temporaneo può essere tre o quattro volte più elevato di un affitto convenzionale di lungo periodo.
Airbnb è il cavallo di Troia della deregolamentazione urbanistica e dell’ipersfruttamento turistico
Infine, affrontando così anche la questione delle stanze condivise, sarebbe necessario porre l’attenzione sul fatto che la redistribuzione della ricchezza prodotta dal turismo passa per le possibilità di estrazione di rendita (anche se si tratta dell’affitto di una porzione di appartamento) e mai per la tassazione delle attività economiche e del lavoro. Ogni volta che qualcuno parla dell’utilizzo degli immobili come forma di produzione di ricchezza si eludono alcuni elementi: la condizione di proprietari, la disponibilità ad affrontare le spese e i rischi di un investimento immobiliare o la disponibilità di una casa abbastanza grande da accogliere ospiti. Bisognerebbe anche analizzare da dove deriva il discorso dell’economia collaborativa che, dietro le ambiguità del “nuovo paradigma”, annulla ogni responsabilità fiscale e fa sfumare pericolosamente il valore del lavoro in un mix di rendita, lavoro di cura e monetarizzazione degli affetti. Se pretendiamo un miglioramento delle nostre condizioni lavorative e una responsabilizzazione del settore turistico tradizionale nel pagare i contributi, perché dimenticarcene in questi nuovi scenari?


1 [ndt] L’economia collaborativa, o sharing economy (in Italia anche consumo collaborativo), rappresenta un insieme di modelli economici basati sulla condivisione di beni, servizi, conoscenze. Si propone, tra gli altri, gli obiettivi di ridurre l’impatto sociale del consumismo, sia con motivazioni ecologiche, sia esperienziali, sia di mero risparmio economico. Può essere improntato alla gratuità, alla condivisione o alla semplice copertura delle spese vive oppure a costi più bassi rispetto al mercato “normale”. Trova le sue espressioni concrete in diversi campi, come il trasporto (car sharingbike sharingBlablacar ma anche Uber), il viaggio, l’ospitalità e ciò che vi è connesso (coachsurfingAirbnbTripadvisor), le conoscenze (le banche del tempo), il lavoro (coworking), la ristorazione (social eating e home restaurant: queste ultime, forse meno conosciute, non sono altro che la cucina e il consumo di pasti a casa propria, a pagamento, con degli sconosciuti che vengono incontrati tramite le solite piattaforme on line; la differenza è solo nella saltuarietà del social eating, laddove l’home restaurant è un vero proprio ristorante a casa propria). Nella sua codificazione, di solito le varie tipologie di sharing economy vengono suddivise in due categorie: business to consumer (b2c) e consumer to consumer (c2c), per distinguere laddove vi è profitto e dove no.
2 [ndt] Soprattutto rispetto al “viaggio” e al turismo, alle pretese caratteristiche di “altro consumo” succitate si aggiunge l’argomento della maggiore autenticità contro una progressiva artificializzazione del mondo: il bed and breakfast (anche nella versione air) contro l’hotel, lo slow food e il kilometro zero contro il cibo spazzatura, un maggior rapporto con la natura o con l’ambiente autoctono contro l’uniformazione e museificazione dei contesti urbani di tutto il mondo. Va da sé che queste siano le basi anche del cosiddetto turismo esperienziale, basato appunto sul concetto di “vivere un esperienza”.
3 I dati riportati in questo articolo sono il risultato della ricerca svolta congiuntamente con Alan Quaglieri, che si pubblicò nel 2015. Arias-Sans, A., Quaglieri, A. “Unravelling Airbnb. The case of Barcelona” in Richards, G., Russo, AP. (eds.) Reinventing the local in tourism. Travel communities and peer-produced place experiences. London: Channelview
4 L’articolo è dell’estate 2015.


Due secoli di turismo a Maiorca

Dai viaggiatori romantici alla disumanizzazione dei maiorchini.

Autore: Pere J. Garcia
Traduttori: Christian e Franci
La storia del turismo a Maiorca è storia lunga e complessa che si è sviluppata lungo gli ultimi due secoli e che ha trasformato radicalmente i costumi, le tradizioni e i modi di vivere e relazionarsi dell’ambiente maiorchino. Sono enormi i cambiamenti che si sono prodotti dall’arrivo dei primi viaggiatori all’inizio del XIX secolo fino ad arrivare all’odierna situazione di massificazione e disposizione piena e assoluta di tutta l’isola al fenomeno turistico.
Gli inizi del turismo nell’isola di Maiorca, nel secolo XIX, sono strettamente legati alla costruzione e all’operare del primo vascello a vapore costruito nel 1837 per favorire la corrispondenza postale tra Palma e Barcellona. Questa prima forma di turismo era ancora in un’ottica antropologica. I pochi visitatori non venivano solamente per vedere l’isola, ma anche per visitare i maiorchini, per studiare i loro costumi, i modi di vivere e di relazionarsi. Da queste esperienze numerosi studiosi, antropologi, viaggiatori hanno raccolto le loro sensazioni e vissuti realizzando diversi libri di viaggi. Si tratta dei cosiddetti “viaggiatori romantici”, gente con una discreta disponibilità economica, che poteva permettersi le considerevoli spese che quei viaggi rappresentavano a quei tempi.
Da qui si sviluppa un seguito di scienziati, letterati e artisti spinti a Maiorca da un turismo antropologico e scientifico. Così a partire da questa data, troviamo personaggi come l’artista Joan Bautista Laurens, di Montpellier, che nel 1839 ritrae l’isola in una serie di litografie e compila il libro Souvenirs d’un voyage d’art a l’ile de Majorque. Altri esempi di viaggiatori “romantici” possiamo rintracciarli nel 1865 quando arrivano a Palma due importanti scienziati tedeschi, il chimico Robert Wilhelm Bunsen e il medico naturalista e direttore del Museo Zoologico e del Museo di Storia Naturale di Amburgo, Herman Alexander Pagenstecher. Tra gli altri, possiamo ricordare anche l’illustratore e letterato francese Gaston Vuillier, a Maiorca nel 1888, che pubblicò una serie di incisioni sull’isola nella rivista Le Tour du Monde. Ma viaggiatori di questo tipo non se ne vedono più fino all’inizio del secolo XX. Nomi importanti come Ruben Dario, Santiago Rusiñol, J. Virenque e molti altri lasceranno per iscritto o incideranno le loro esperienze turistiche nella Maiorca di quei tempi sempre da un punto di vista antropologico, cercando di mostrare al mondo com’era la vita, i costumi, i vestiti e le città di quella piccola isola nel mezzo del Mediterraneo.
I pochi visitatori non venivano solamente per vedere l’isola, ma anche per visitare i maiorchini, per studiare i loro costumi, i modi di vivere e di relazionarsi
Ma all’inizio del XX secolo il modello turistico comincia a cambiare. Nascono i primi hotel, stabilimenti di lusso dedicati a turisti ricchi che venivano a Maiorca in cerca di pace e tranquillità, in un’isola ancora non massificata. Nei primi anni ’30 del XX secolo si avvia la costruzione di doversi alberghi, di piccole dimensioni, non solamente a Palma, ma in molte altre zone costiere. Nello stesso tempo le primissime piccole linee aeree turistiche compaiono con la compagnia Aero-Taxi Maiorca, creata nel 1934. Già nel 1935 viene inaugurata la prima linea regolare tra Maiorca e Madrid. Nel 1939 Iberia e Lufthansa svilupperanno nuove linee regolari. Questa crescita e creazione di nuovi voli si spiega con l’arrivo sempre più grande di turisti.
Un incremento che prosegue negli anni ad alti e bassi e subìsce una forte crisi durante la guerra civile e nel dopoguerra.
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Il colpo di grazia a questo turismo che possiamo definire più o meno d’élite e minoritario arriva con la costruzione delle grandi infrastrutture come l’aeroporto di Son Sant Joan. Nasceva il turismo di massa. L’aeroporto è inaugurato ufficialmente nel 1960 e da allora il transito cresce esponenzialmente: ogni anno, a partire dal 1962, si celebra l’arrivo del milionesimo turista, accolto dall’autorità e festeggiato. Ma già nel 1965 si superano i 2 milioni di passeggeri in arrivo a Maiorca attraverso l’aeroporto. Nel 1980 arrivavano Maiorca più di 7 milioni di turisti. Nel 1995 i passeggeri (turisti e locali) superavano i 15 milioni. Negli ultimi anni si è superata la cifra di 22 milioni di passeggeri.
Il colpo di grazia a questo turismo che possiamo definire più o meno d’élite e minoritario arriva con la costruzione delle grandi infrastrutture come l’aeroporto di Son Sant Joan
L’incremento senza freni di visitatori ha reso necessarie tutta una serie di infrastrutture d’accoglienza per fargli posto, soprattutto tenendo in considerazione la concentrazione nei mesi estivi. Ecco perché a partire dagli anni ’60 Maiorca subisce un processo di urbanizzazione e creazione di servizi senza precedenti: nuovi villaggi fioriscono in ogni dove, ma soprattutto nelle zone costiere; nuovi depuratori si mettono in moto per sopperire al problema del consumo smisurato d’acqua; grandi discariche per difendersi degli enormi quantitativi di spazzatura; nuove cave nelle montagne per garantire la costruzione di sempre più strade, sempre più chalet e sempre più servizi di ogni tipo, tutti destinati a quei milioni di turisti che invadevano Maiorca ogni anno. Addirittura negli anni ’60, per riferirsi a questa cementificazione senza misura e senza alcuna pianificazione (con relativa distruzione totale delle coste e del territorio) si diffonde in Francia il termine dispregiativo di balearizzazione.
Ma non sono solo il territorio e l’ambiente a subire le conseguenze del turismo di massa. A partire dagli anni ’60 l’economia subisce un processo di terziarizzazione, con il passaggio da un’economia agricola e industriale ad un’economia di servizi ed edile (nel 1969 l’edilizia e il settore servizi rappresentavano il 55% del totale, ma già nel 1981 questi due settori erano arrivati al 77%). Ne è conseguita la precarizzazione delle attività lavorative. Soprattutto da quando, durante la cosiddetta transizione democratica, si diffonde il contratto fisso discontinuo, con il quale i padroni potevano assumere e licenziare i lavoratori a piacere quando ne avevano bisogno: nei mesi estivi. La strada verso la concentrazione della stagione turistica era aperta. Ogni anno che passava si riducevano ancora di più i tempi di apertura degli hotel, con l’immediata conseguenza di centinaia di persone che perdevano lavoro per entrare a far parte delle liste di disoccupazione. Come si può supporre, gli affari e la ricchezza non erano mai suddivisi, ma la grande maggioranza è rimasta concentrata nelle mani delle grandi catene alberghiere, che a poco a poco (e molte volte con la scusa della crisi economica) sono riusciti a divorare i piccoli stabilimenti monofamiliari, e degli operatori turistici stranieri, che hanno sempre avuto il potere decisionale sul turismo che arrivava nell’isola. Così, per esempio, gli anni che vanno dal 1974 al 1981, approfittando della crisi internazionale, a Maiorca chiudono 257 piccoli hotel. Il settore si “rinnova” rimanendo nelle mani delle grandi catene alberghiere e dei tour operators.
Tuttavia, negli ultimi trent’anni il turismo non ha mai smesso di evolversi. Da anni la sua forma predominante è quella del turismo di breve durata in località come Magaluf o s’Arenal, zone create solo ed esclusivamente per soddisfare l’ozio economico e la necessità di spiaggia di quei turisti con poco interesse per la cultura e l’etnografia locali.
Maiorca non è più l’isola che venivano a “conoscere” i viaggiatori romantici del secolo XIX , né la località estiva tranquilla e familiare degli anni 60
E con il mutare del modello turistico sono cambiate anche le relazioni sociali dei maiorchini, il loro sguardo sul mondo e molti dei loro valori sono andati perduti. Concludendo, il modello turistico che subiamo oggigiorno, forgiato lungo gli ultimi due secoli ma soprattutto a partire dagli anni ’60 con il boom turistico, ha portato ad uno scenario dove noi stessi maiorchini ci siamo sottomessi e siamo caduti in una dipendenza totale dal turismo, ad una disumanizzazione che raggiunge i limiti estremi quando si sentono alcuni rallegrarsi delle guerre del sud del Mediterraneo, giacché quelle morti ci garantiscono un ulteriore incremento del turismo dalle nostre parti, benché non vi sia alcun beneficio per la gran maggioranza della popolazione.

Il turismo residenziale

Ovvero quando l’alternativa turistica agli alberghi porta ancora più distruzione e speculazione.

Autore: Antoni Pallicer Mateu
Traduttore: Christian
Il turismo residenziale in questi ultimi anni ha portato quasi alla totale urbanizzazione delle nostre coste e dell’entroterra marchiando il territorio di grigio, verde e blu col cemento, i prati all’inglese e le piscine.

Un turismo discreto, che non si muove col pullman, che non riempie le spiagge o le discoteche, ma gli appartamenti residenziali1 o i molti chalet che sono stati costruiti appositamente. Di fatto, questo settore si sta consolidando come alternativa turistica all’albergo convenzionale, tanto che l’estate scorsa è entrato in concorrenza diretta con i padroni alberghieri che hanno fatto pressione sul governo delle Baleari per l’approvazione di una Legge sul Turismo Residenziale che proteggesse i loro interessi. Per dimostrare la forza del settore e la sua opposizione alla reazione della lobby alberghiera, il presidente dell’Associazione per il Turismo Residenziale, Joan Estarrellas, il 10 agosto 2013 affermava a mallorcadiario.com che “ci sono circa un milione di appartamenti a Maiorca che rappresentano una fonte di ingresso data da questa attività. Calcoliamo circa € 1100 di guadagno al mese per ogni appartamento. Si vuole davvero rinunciare a queste entrate?” Ecco un bell’esempio sul concetto di economia e società che questa gente desidera.
Inoltre, in conseguenza alla crisi, questa tipologia di turismo sta diventando attraente per molti. Così, famiglie che, durante lo sfrenato boom economico precedente alla crisi, si erano costruite un villino in campagna o nelle zone costiere con l’intenzione di goderselo, ora non riescono più a mantenerlo o a terminare il mutuo, e hanno iniziato ad affittarlo a turisti. Nei mesi estivi si arriva persino ad affittare la prima, e unica, residenza alla ricerca di ingressi extra che per arrivare alla fine del mese. La dinamica è ben comprensibile, sarebbe normale e accettabile in una situazione di turismo a bassa intensità, ma nell’attuale condizione di brutale massificazione turistica a cui siamo arrivati è un esempio evidente della nostra dipendenza dal turismo (dei ricchi del Nord). Stando così le cose, coloro che vogliono vivere o costruire una società giusta e in armonia con l’ambiente naturale non possono tollerare questa “alternativa” economica di svendita e affitto del proprio territorio: un’economia incentrata su un turismo che ci condanna a lavori precari connessi solamente a questo settore, sulla disuguaglianza economica, sul dominio politico dell’industria turistica, sulla distruzione e banalizzazione del nostro territorio.


1 [Ndt] Ci si riferisce agli appartamenti normalmente adibiti ad abitazione di residenza durante tutto l’anno.


La marginalizzazione delle campagne

Autore: Miquel Villalonga Maimó
Traduttori: Christian e Franci
Non si può negare che lo sviluppo dell’economia turistica in società contadine provochi rapidamente la marginalizzazione dell’attività agricola, Maiorca ne è un buon esempio. La condanna al disuso che colpisce l’attività contadina influisce direttamente sulla cultura, l’economia e il tessuto sociale della popolazione: si è passati da una società rurale che, fuori da ogni mito, destinava molte energie all’autosussistenza, ad un modello capitalista, urbano e consumista, con tutte le disuguaglianze e lo spreco di risorse che comporta. All’inizio l’aumento dei profitti per una parte della popolazione crea il miraggio di una falsa abbondanza che nasconde il lato devastatore di questo processo.
Tuttavia, nonostante il ripetitivo discorso istituzionale che propaganda l’ottimismo per il settore turistico, a livello popolare (in alcuni contesti) si comincia a percepire la sensazione di camminare verso un precipizio, e che la massimizzazione dei benefici e l’occultamento dei costi derivanti dall’attività turistica non può durare. La “monocultura” turistica porta a dei livelli di insostenibilità brutali ed è sempre più evidente che la disuguaglianza sociale è uno dei pilastri dell’attività del terziario. Per questo diventa imprescindibile affrontare il problema del ruolo che può giocare l’agricoltura nella costruzione di una società più giusta e sostenibile che non dipenda dall’approdo di milioni di turisti.

Gli effetti del turismo nelle campagne

Sebbene la complessità delle conseguenze del turismo sull’agricoltura non sia affrontabile nell’ambito di un solo breve articolo, possiamo comunque guardare a tre fattori, imprescindibili dell’attività agraria, che hanno un ruolo chiave per comprendere le rapide e in molti casi irreversibili conseguenze che il turismo sta causando all’agricoltura: la popolazione, la terra e l’acqua.
La speculazione urbanistica ha portato il prezzo della terra a dei livelli completamente irraggiungibili per le attività agricole
In primo luogo, il passaggio della popolazione attiva dall’agricoltura all’industria turistica fin dagli anni ‘60, ha depotenziato il settore primario, quello agricolo, in modo preoccupante, provocando anche una frattura generazionale difficile da superare se teniamo conto che la trasmissione dei saperi popolari da una generazione all’altra è fondamentale per lo sviluppo della piccola produzione contadina. Parallelamente, l’ingresso nel mercato globale ha fatto sì che solo le grandi colture intensive potessero affrontare la concorrenza, approfittando al massimo di un nuovo fattore: la manodopera immigrata.
In secondo luogo la speculazione urbanistica ha portato il prezzo della terra a dei livelli completamente irraggiungibili per le attività agricole. La colonizzazione immobiliare del territorio è stata totale, e possiamo distinguere tre fasi chiare in questa ondata costruttrice: la prima, negli anni ‘60, produsse l’urbanizzazione intensiva delle prime linee costiere. La seconda inizia negli anni ‘80 con una timida protezione degli ambienti naturali che sono sopravvissuti alla prima. Infine un terzo momento di questa colonizzazione si può individuare negli anni ‘90 e colpisce direttamente le campagne e l’entroterra; quest’ultima tappa è quella che più ha cambiato la fisionomia rurale, giacché ha comportato la costruzione di un’infinità di villette, agriturismi e seconde case.
In terzo luogo, l’uso ludico dell’acqua proprio dell’economia turistica, indirizzato soprattutto ai campi da golf, alle piscine, alle irrigazioni dei giardini ornamentali e dei prati all’inglese, porta i livelli di consumo molto al di sopra delle risorse naturali dell’isola. Oltretutto, molti metodi tradizionali d’approvvigionamento dell’acqua che provenivano dalla cultura agraria sono stati cancellati senza pensarci due volte: pozzi d’assorbimento distrutti da superstrade, abbandono dell’orticultura a secco, spreco dell’acqua piovana etc. Una netta contraddizione emerge tra il proliferare delle piscine e il degrado del Pla de Sant Jordi, la zona a coltivo umido probabilmente più importante dell’isola che ora si trova totalmente limitata dalla crescita urbana periferica alla città: depositi d’idrocarburi, l’aereoporto di Son Sant Joan, grandi magazzini.

La necessità di un nuovo paradigma rurale

La situazione in cui si trovano le campagne dopo più di mezzo secolo di “monocoltura turistica” e agricoltura industriale, relegate nel ruolo meramente paesaggistico e romantico o come fonte di profitto di pochi padroni rende più che necessario un cambio di paradigma, che già sta cominciando. Il conflitto esistente tra due forme generali di intendere l’agricoltura si situa al centro della discussione. Da un lato abbiamo il modello di agro-industria neoliberale, per cui ogni territorio dovrebbe specializzarsi nelle attività che gli portano maggiori profitti ed integrarsi nell’economia globale; dall’altro lato abbiamo il modello della sovranità alimentare, di un’agricoltura pensata per il consumo locale con una base cooperativa e articolata attraverso le piccole produzioni.
Il modello neoliberale, insinuatosi tra i contadini attraverso i progressi tecnologici, nasconde un’ideologia molto concreta che riempie le tasche dei soliti. La logica di questo modello è che la priorità dell’agricoltura deve essere modellare la produzione in base alle esigenze di mercato. Da qui l’utilizzo intensivo della terra, l’uso di prodotti chimici e di semi transgenici, grandi macchinari, ecc. Indirizzare la produzione verso ciò che può essere esportato porta alla vendita di prodotti al di sotto dei costi di produzione, distruggendo le economie locali.
L’ingresso dell’agricoltura nel mercato globale favorisce solamente gli impresari più grandi e influenti a livello politico. A Mallorca, per esempio, abbiamo impresari di origine franchista come Antoni Fontanet – specializzato nella speculazione dei cereali – o altri di facciata più democratica, come i fratelli Company, che, avendo grande influenza nelle istituzioni, sviluppano un’agricoltura completamente basata sulle sovvenzioni statali. Infatti gli aiuti allo sviluppo rurale sono concessi da tre imprese pubblico/private, FOGAIBA, IBABSA, I SEMILLA. Non a caso, molti contadini identificano con l’entrata nell’Unione Europea del 1986 l’inizio della fine delle piccole colture locali. In conclusione il modello agricolo capitalista ci ha portati all’occupazione dei campi per parte di grandi imprese, a un nuovo tipo di dispotismo nell’ambito agrario e all’abbandono delle piccole produzioni.
Non a caso, molti contadini identificano con l’entrata nell’Unione Europea del 1986 l’inizio della fine delle piccole colture locali.
Per fortuna ci arrivano alcune buone notizie in direzione opposta. Il consolidamento del movimento agro-ecologico prosegue. Cooperative come, “Això és vida”, “Ecoxarxa” “Coanegra”, l’organizzazione APAEMA, e molte altre iniziative dimostrano che la spinta di questi movimenti è forte. Le loro proposte sono chiare: produzione ecologica, economia locale e relazioni orizzontali. Tuttavia, anche il prodotto ecologico, paradossalmente, è ormai inglobato nel mercato capitalista, e per questo il suo commercio è nelle mire di impresari opportunisti che lungi dal puntare a un cambiamento sociale, cercano solamente il beneficio economico o passarsi le giornate nelle loro moderne masserie. Un esempio significativo, a Mallorca, si può trovare nella villa “es Fangar”, situata tra le città di Felanitx e di Manacor: 500 metri quadrati di produzione ecologica di proprietà del grande magnate tedesco Eisenmann, proprietario, allo stesso tempo, della sezione di sviluppo robotico della Mercedes Benz.
È fittizio parlare di sovranità alimentare se si ricevono 10 milioni di turisti ogni anno
Evidentemente diventano necessarie alcune considerazioni e lo sviluppo di un dibattito, iniziando col riconoscere che l’ecologismo di per sé non è sufficiente a combattere le disuguaglianze del capitalismo. Per formare un movimento agro-ecologico rivoluzionario, oltre alla sostenibilità ecologica delle coltivazioni dobbiamo anche riflettere su come costruire economie locali coerenti che vadano al di là dei piccoli gruppi di consumo. Inoltre dovremmo cominciare a discutere di come affrontare la “monocoltura turistica” partendo dal mondo rurale giacché nelle campagne non è possibile né collaborarvi né girarsi dall’altra parte, ed è fittizio parlare di sovranità alimentare se si ricevono 10 milioni di turisti ogni anno e infine occorre pensare a come riuscire a rendere fattibili i nostri progetti di trasformazione negli ambienti rurali.

La mercificazione e banalizzazione delle campagne maiorchine tramite l’agro-turismo

Mercato esclusivo, all’ombra di un carrubo e al lato di una piscina.

Autore: Antoni Pallicer Mateu
Traduttori: Christian e Franci
Chiunque abbia un minimo di senso può rendersi conto della varietà di danni che produce il turismo sulle nostre coste. Percorrendole si ha un quadro abbastanza completo: spiagge disseminate di grandi blocchi alberghieri di fronte al mare, i quali sono spazi urbani che d’estate celebrano la grande orgia del consumo e che d’inverno mostrano la loro oscura realtà. In più, che milioni di turisti mangino e caghino ogni anno sulla nostra isola comporta portare l’isola stessa ai limiti dell’insostenibilità, come già annuncia la campagna del GOB “Maiorca verso il collasso”1.
Come accade nelle zone costiere, anche le campagne si sono trasformate in uno spazio riservato al consumo e alla speculazione
Però la cattiva fama che il turismo balneare ha negli ambienti di sinistra contrasta con l’accettazione del turismo rurale.
Tra l’uno e l’altro le differenze sono ovvie, però il risultato, come cercheremo di spiegare, è lo stesso.
Primariamente bisogna riconoscere che lo sviluppo di questo tipo di turismo fu frutto di un’ingenua speranza o del tentativo di generare un’alternativa. L’idea di ristrutturare case fuori città che la cui prospettiva era quella di cadere a pezzi, di rivitalizzare spazio rurali minacciati dalla desolazione, di dare una spinta economica all’agricoltura, di convertire il volgare ed incosciente turismo da “sole e spiaggia” in piccoli gruppi di persone che presumibilmente sarebbero interessate a conoscere la vera essenza dell’isola, era una buona scommessa per chi ha a cuore Maiorca. Però la realtà nascosta tra i cespugli e gli olivi selvatici dei boschi maiorchini è un’altra.
Intanto, le case dei contadini, o di antichi padroni, oggi sono circondate da giardini dello stile delle riviste patinate, con prati all’inglese come ornamento, con piscine2 da spot pubblicitari e con i servizi e le comodità proprie degli alberghi convenzionali.
E, visto che Maiorca è in cima alla lista delle mete turistiche di lusso – per coloro che possono permetterselo -, la cosa prende velocità e si converte in un lucroso affare. Di fatto, se il turismo balneare ha trasformato la costa in uno spazio riservato al consumo e alla speculazione, controllati dalle grandi imprese, ora questa dinamica si produce similmente anche nelle campagne.
D’altro canto, l’emergere di questo nuovo business condanna ancora di più l’attività agricola dell’isola. Ed ecco che la principale azione economica della vecchia fattoria che si è convertita in agriturismo non è più la produzione strettamente agricola ma lo sfruttamento degli spazi destinati ai clienti dato che i guadagni ricavabili sono superiori. In questo modo il lavoro del contadino non è più coltivare la terra ma gestirla: l’agricoltore diventa un giardiniere, un gestore del paesaggio, della merce che deve essere commercializzata e consumata. Allo stesso tempo questo tipo di business turistico è amministrato da poche compagnie (molte delle quali straniere) che controllano tutti i flussi della clientela e che, in realtà, sono coloro che governano e decidono le regole del gioco, imponendo al contadino o al piccolo proprietario del terreno le loro condizioni e necessità. Bisogna aggiungere che la trasformazione del mondo rurale in una reclame turistica comporta anche la sua banalizzazione.Per esempio, i mandorli o le pecore non sono più lì perché devono produrre frutti o agnelli, ma perché la loro presenza costituisce un ornamento in più nella decorazione del paesaggio in vendita. Ugualmente, masserie storiche che hanno dato il nome ad una determinata zona si sono convertiti in autentici hotel con un’estetica che nulla a che vedere con il luogo, con offerta di ristoranti di lusso che non hanno nemmeno i prodotti ecologici del piccolo orto che coltivano.
l’agriturismo non può rappresentare un’alternativa reale per il mondo rurale che ha bisogno di produttori e non di gestori del paesaggio
Quindi, se intendiamo lo spazio agricolo come un territorio che produce alimenti di cui ha bisogno la società, e l’agricoltura come l’attività primaria e suprema dell’umanità, l’agriturismo non può rappresentare un’alternativa reale per il mondo rurale e neanche lontanamente una sua rivitalizzazione, perché la sua funzione è quella descritta, funzione che provoca la morte dell’attività contadina così come si è conosciuta storicamente. Conseguentemente, l’agro-turismo deve anch’esso entrare nello sguardo critico di chi vuol combattere la conversione di Maiorca in una colonia esclusiva delle classi medie e alte europee.


1 [Ndt] GOB è un’organizzazione ecologista fondata a Maiorca negli anni ’70 che si dedica a lotte territoriali sull’isola attraverso la produzione di materiale informativo, l’organizzazione di campagne, azioni di riforestazione, ecc., nei limiti imposti dalla legge. La campagna “Maiorca verso il collasso” era una campagna di denuncia della condizione ambientale dell’isola .
2 Maiorca ha già 20.000 piscine (Ivan Murray, 2010). Benché sia circondata dal mare!



Né mezzi termini né mezze misure

Non c’è alternativa riformista, perché tutto marcia insieme

Autore: Antoni Palicer Mateu
Traduttori: Christian e Franci
Da quando il turismo ha segnato la nostra isola nella sua mappa affaristica non si è mai avuto un movimento o anche solo una voce che si sia opposta. Le differenti mobilitazioni per fermare progetti specifici, come superstrade, porti, campi da golf o nuove progetti edilizi, hanno sempre cercato di offrire un’alternativa più o meno fattibile e accettabile per il sistema. Non si sono mai sviluppate visioni complessive che oltre a mettere in discussione il singolo progetto criticassero le sue connessioni con l’industria turistica. Si tratterebbe in effetti di un proposito audace e radicale che ben pochi approverebbero, perché molti direbbero, senza pensarci due volte, “e quindi, di cosa mangeremmo?”, come ben ripete Antoni Gomila in Acorar1, Altri, la minoranza critica che comunque accetta buona parte di questo modello, deve pensare che sia impossibile criticare l’industria turistica di per sé e che l’alternativa sia la ricerca di un turismo “sostenibile”, che non è molto diverso da scommettere su un sistema sostenibile.
La favola che ci è sempre stata raccontata sul turismo come fonte di profitto e progresso per tutti quanti e biglietto d’entrata nelle cosiddette società avanzate è la grande menzogna a cui tutti a destra e sinistra abbiamo creduto. Se i maiorchini prima del turismo mangiavano solamente le briciole, c’erano evidentemente delle ragioni. La gente non è povera per qualche causa naturale, ma perché i grandi notabili, locali hanno sempre salvaguardato il loro ordine, la loro Maiorca, anche a costo di spargere sangue, come nel golpe del 1936 e nella successiva dittatura. C’è anche stata una politica volta a disprezzare e respingere la società rurale condannando la sua economia di sussistenza e la sua cultura e costumi arcaici, quando in realtà molti saperi che ha generato, come l’utilizzo delle risorse disponibili ed ogni conoscenza sulla gestione sostenibile agricola e forestale, rimangono fondamentali tutt’oggi. Questa strategia2, unitamente alla straordinario sviluppo della tecnologia, ha portato alla società del consumo e al turismo come principale motore economico ha portato ai grandi dogmi dell’attuale società: il consumo e il turismo come motore economico dell’isola, i quali ci hanno aiutato a rinnegare il nostro passato più prossimo e a ricevere a braccia aperte tutto ciò che odora di denaro.
Avendo questo in mente e riconoscendo la realtà attuale maiorchina, infettata di corruzione, cacicchismo3, disuguaglianze sociali, con una classe dirigente che da tempo ha messo in vendita il nostro territorio, prendere posizione chiaramente contro questo modello è il miglior modo di lasciare un’eredità dignitosa alle generazioni future.
A partire da questi dati , per lottare contro l’industria turistica – considerando anche la sua estensione – bisogna lottare contro le cause e le condizioni che l’hanno favorita e generata, laddove a grandi linee possiamo indicare genericamente il sistema capitalista, e più concretamente l’industria dell’ozio e del consumo, la terziarizzazione dell’economia e lo sviluppo del trasporto aereo. Alla società che comincia ad aprire gli occhi su questa spoliazione non possiamo indicare altra alternativa che non sia una rivoluzione sociale integrale che sconvolga l’attuale condizione e ci incammini verso una società giusta, in armonia con l’ambiente, dove la sovranità sia veramente esercitata dal popolo in modo assembleare e federale, dal basso verso l’alto e dai margini verso il centro; dove il senso della vita possa andare oltre un lavoro con scopi tanto banali e infantili come possedere molti oggetti, accumulare potere e ricchezze o per imprese disastrose per l’umanità,; dove il viaggio possa essere motivato dall’impazienza di conoscere altre culture e paesaggi, nella reciprocità, che si potrà raggiungere solamente quando il mondo navigherà in un mare di uguaglianza e fratellanza tra i differenti popoli che lo abitano.
Giunti a questo livello di dipendenza dal turismo e di conseguenza dai tour operator, dagli hotel, dai promotori immobiliari e dagli altri speculatori, l’opzione è dir no al turismo e al capitalismo
Però, dato che la menzionata rivoluzione sociale, in questa fase, rappresenta più una fantasia che una realtà, dobbiamo cominciare a costruire un’alternativa a partir da adesso, passo a passo e obiettivo dopo obiettivo. Quindi se vogliamo che nel futuro il turismo smetta di essere una delle industrie più redditizie e con più possibilità nel mondo, la prima cosa che dobbiamo fare come individui é non partecipare limitando i nostri viaggi in aereo. Per come la vediamo noi, il turismo non è un diritto e non è sostenibile una sua dimensione universale, per ragioni banali: 6 miliardi di persone possono forse fare tutti il turista? Dunque, concentrandoci su quello che succede a casa nostra, la lotta per uscire dal gioco turistico deve diventare intollerabile per coloro che stanno costruendo e ristrutturando gli edifici proprio con quelle finalità. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica delle Baleari attualmente ci sono 71.225 case vuote (giornale Ultima Hora 18/04/2013) e nel 2011, apparivano registrate 85.717 seconde case, alle quali va aggiunto l’immenso parco immobiliare destinato al turismo residenziale che conta circa un milione di appartamenti, secondo il presidente dell’Associazione per il Turismo Residenziale Joan Estarellas (10/08/2013 Mallorcadiario.com). La cosa è semplice, se aumentano le offerte aumentano le domande, se diminuiscono le offerte ci sono più possibilità di ridurre il numero di visite. Questa lotta però dovrà contare sulla collaborazione dei politici che si considerano di sinistra, ovvero coloro che possono imporre moratorie o ordini di demolizione. Ciò nonostante questi per la prima volta in democrazia dovranno dimostrare il coraggio di sfidare i poteri, cosa che potrà succedere solamente con un grande movimento popolare, forte, organizzato su scadenze proprie, che eserciti la sua forza e pressione nelle strade. Allo stesso tempo, se vogliamo che arrivino meno turisti dovremo organizzare grandi campagne di propaganda per i potenziali visitatori, tanto qui come nel loro paese.
D’altro canto, per uscire dalla dipendenza economica dal turismo nella quale ci hanno incastrato, dobbiamo necessariamente creare un’alternativa concorde con il nostro obbiettivo di arrivare a una società sovrana, egualitaria e sostenibile. Perciò dovremo costruire un’economia cooperativa e collettivista incentrata sull’autoconsumo e che abbia come principali settori l’agricoltura ecologica e l’industria e l’artigianato locali. Impresa difficile che si sta già cominciando a seminare con differenti iniziative come le cooperative di produzione e consumo ecologico o mediante progetti come Ecoxarxa4.
Iniziative lodevoli, di cui è però giusto rilevare la debolezza e che sono perlo più interpretate dalla popolazione (ovvero dalla minoranza che le conosce) come un’altra faccia della società consumista sullo stile dell’ozio alternativo (musica, concerti, bar), una percezione che potrà essere superata solo quando questi progetti rappresenteranno veramente una controeconomia e si troveranno in sintonia con una imprescindibile lotta politica basata sull’azione diretta contro le attuali caste locali e globali, che in un mondo tanto interconnesso come l’attuale, sono quelle che muovono il destino di tutti noi. A questo punto, la prima cosa che manca è la gente: persone con la testa sulle spalle che si organizzino, che abbiano costanza e riescano a creare un movimento forte e strutturato, di ampie prospettive e di lunga durata, che possa anche convincere gran parte della popolazione e della gente in visita del suicidio collettivo verso il quale ci sta incamminando il capitalismo.


1 [Ndt] Nella sua opera teatrale sull’identità collettiva dei maiorchini.
2 Nell’articolo Uno stato sempre sottosviluppato, Eliseu Casamajor mostra come le differenti élites hanno determinato le condizioni per trasformare Maiorca in una destinazione perfetta per ogni tipo di turismo.
3 [Ndt] Caciquismo, da cacique, termine indicante il capo di una comunità, ha assunto nel tempo il significato di grande proprietario terriero in grado di dominare la vita politica, economica e sociale di una comunità, con particolare riferimento alle regioni contadine. Fenomeno particolarmente legato al sud dello Stato spagnolo e laddove era più forte il latifondismo, ha avuto nuovo sviluppo nell’epoca franchista mantenendo ancora oggi una sua dimensione, con caratteristiche tipicamente clientelari.
4 [Ndt] L’Ecoxarxa di Mallorca è una piattaforma nata dopo il 15M basata sull’esempio di altre località catalane. Lo scopo era promuovere un’economia collaborativa attraverso una moneta sociale e la creazione di reti d’appoggio per l’auto-impiego.



Cos’è la gentrificazione e perché il turismo ne ha bisogno?

Quando il neoliberismo si appropria dei quartieri e delle nuove aree esclusive.

Autore: Sònia Vives Miró
Traduttori: Christian e Franci
Il concetto di gentrificazione si riferisce ad un processo di trasformazione urbana che si da, da un lato tramite la rivalutazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare esistente, dall’altro con la sostituzione della popolazione residente con una popolazione più benestante.
Si tratta quindi di un processo in cui la questione di classe è al centro della strategia urbana.
Il termine gentrificazione deriva dall’inglese gentry, alta borghesia o nobiltà, ma quando si utilizza quest’espressione si vuole intendere un processo in cui un segmento di popolazione è sostituita non dall’alta borghesia, ma da uno strato sociale semplicemente superiore, di solito professionisti bianchi della classe media. Malgrado ciò, il termine gentrificazione rimane quello più comunemente utilizzato per riferirsi a questi processi, anche se sono usati, più di rado, i termini “imborghesimento” ed “elitizzazione” come suoi.
Il termine venne usato per la prima volta da Ruth Glass nel 1964, nei suoi studi sul ritorno della gentry nel centro storico di Islington (Londra), fenomeno che ha rappresentato la trasformazione delle dinamiche residenziali tradizionali del quartiere (Glass, 1964). A partire dagli anni ’70, geografi marxisti hanno ripreso il concetto per descrivere il processo di sostituzione delle classi operaie in alcune aree degradate e abbandonate della città, con settori sociali medio alti: un processo che è stato legato alle politiche pubbliche di riqualificazione urbana (Smith, 1979; Harvey, 1977).
Il termine gentrificazione rimane quello più comunemente utilizzato per riferirsi a questi processi, anche se sono usati, più di rado, i termini “imborghesimento” ed “elitizzazione” come suoi sinonimi
Dalla fine degli anni ’60 in poi, nella letteratura specifica si fa riferimento a tre ondate di sviluppo della gentrificazione. La prima colpisce, nel dopoguerra, le città dei paesi a capitalismo avanzato, tra il 1968 e il 1973, prima della crisi fordista. Si è trattato di casi specifici e sporadici di gentrificazione, incoraggiati dalle autorità locali attraverso investimenti nei centri urbani per contrastare il declino economico del mercato privato e rinvigorire quello immobiliare (Lees, Slater e Wyly, 2008). Questo processo ha avuto luogo nei quartieri delle grandi città del nord-est degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e dell’Australia, come il Greenwich Village a New York; Glebe a Sydney; Islingston a Londra; Society Hill a Philadelphia.
La seconda ondata di questo processo prende forma tra il 1978 e il 1988. Qui non si tratta più di casi isolati ma risulta evidente un processo di ristrutturazione urbana sempre più grande e più integrato. Non si tratta di investimenti della borghesia in un quartiere degradato, ma questa strategia diventa l’opzione residenziale delle classi medie (Smith, 1996). La gentrificazione si consolida come un processo di cambiamento urbano e si espande geograficamente. Nello stesso periodo prendono piede le politiche neoliberali e queste rappresentano un cambiamento del ruolo delle città nelle logiche di accumulazione. Alcuni dei casi più significativi in quest’epoca sono i quartieri di Soho, Tompkins Square Park e Lower East Side a New York.
Dall’inizio degli anni 1990 la gentrificazione è diventata una strategia urbana praticata a livello globale
Dall’inizio degli anni 1990, con la sua terza ondata, la gentrificazione è diventata una strategia urbana praticata a livello globale. Anche se in quest’epoca continuano processi con le medesime condizioni delle ondate precedenti – come il caso Gerreria a Ciutat1, per esempio – l’elemento innovativo è una ristrutturazione del processo in sé stesso attraverso nuove forme spaziali (costruzione di nuovi quartieri residenziali o aree commerciali, nuove alleanze tra imprenditori privati e le amministrazioni locali, ecc). Pertanto, il termine non è più utilizzato solo per processi che si verificano nelle zone centrali delle città, ma anche nelle zone di recente costruzione e precedentemente disabitate come le aree risultanti dalla riconversione industriale o dalla conversione di ex uffici in case. A questo proposito, si avvia uno dei dibattiti più contemporanei, ovvero se sia corretto utilizzare il termine gentrificazione quando il processo a cui ci si riferisce non comporta l’espulsione del corpo sociale. Così quest’ultima dinamica ha iniziato a essere definita coll’espressione “new build gentrification”, concetto che viene esteso alle aree in disuso delle metropoli (zone industriali o portuali abbandonate) come il London Riverside (Davison, 2005). Nei primi anni novanta si è anche parlato di “supergentrification”, un’evoluzione del fenomeno tesa ad indicare gli spazi urbani già oggetto di gentrification nei decenni precedenti, che tornano a ricevere investimenti ad alta intensità per essere impiegati da dirigenti finanziari che hanno fatto fortuna: i “super-ricchi”.Un esempio è Brooklyn Heights (Lees, 2003).
Ma qual è il rapporto tra turismo e gentrificazione? Perché il turismo ha bisogno della gentrificazione, ed essa del turismo? Perché la gentrificazione è una delle strategie di marketing dell’urbanismo neoliberale per attrarre investimenti stranieri e turistici. Senza gentrificazione non c’è mercato urbano, senza mercato urbano non vi è ascesa della città nelle gerarchie urbane globali, senza una buona posizione in questa gerarchia, non c’è attrazione di flussi di capitale e turistici.
Per capire questo fenomeno occorre vedere il senso della gentrificazione nell’urbanistica neoliberista. Nello scenario globale post-fordista, le città sono diventate spazi centrali nella progettazione di strategie politico/ideologiche, hanno acquisito un nuovo ruolo economico e raggiunto una nuova forma di governo. Le metropoli, quindi, cercano di assurgere a questo nuovo ruolo attraverso la cosiddetta urbanistica neoliberista, una riformulazione dell’urbanismo che, con una produzione di spazio urbano coerente ai processi di ristrutturazione economica globale, si propone di raggiungere il successo nel contesto di una rete urbana globale gerarchizzata e marcata dalla competitività (Smith, 2002).
Questo nuovo ruolo economico è legato alla necessità di un nuovo tipo di governance urbana, propria del urbanismo neoliberale, che si è sviluppata mediante l’applicazione di criteri politici di efficacia ed efficienza che classificano le città attraverso criteri di competitività economica (Ceballos Gonzalez, 2007). Le città vengono gestite sempre più come aziende e manager ed operatori privati sono incorporati nei processi decisionali. Ovvero, “i governi locali si comportano sempre di più come promotori urbani” (González Ceballos, 2007:10).
Con il consolidamento di questi ruoli abbiamo ormai delle città “imprenditrici” (Harvey, 1989). In questo senso, “le nuove funzioni di queste città diventano la promozione e il marketing, attirare investimenti, il miglioramento della competitività e l’impulso alla creazione di nuove imprese all’interno della stessa località” (González Ceballos, 2000:4). Davanti a questo scenario urbano impostosi a livello globale, i governi locali hanno dovuto trovare i modi per inserirsi nelle logiche di sistema e far si che la città seguisse la corsia vincente. L’adozione di simili politiche urbane risponde al movimento di capitale descritto, ovvero, all’adeguamento delle pratiche di amministrazione dei governi locali che facilitino l’estrazione di plusvalore. E’ quanto accaduto a Palma di Maiorca a partire dagli anni ’90, con il progetto Urban come punta di partenza del processo di gentrificazione della Gerreria2.
Pertanto, nel caso delle città turistiche, ad esempio Palma le strategie di gentrificazione consentono la riconversione dello spazio urbano in zone di consumo e d’ozio attraenti per il turismo
Infine, nell’analizzare processi urbani di trasformazione politico-spaziale risulta essenziale capire che, nonostante i processi generali, ogni città trova e sviluppa la sua via d’integrazione nelle trasformazioni sociali e le forme della competitività si costruiscono intorno ad elementi particolari e differenti in ogni situazione e luogo. Pertanto, nel caso delle città turistiche, ad esempio Palma le strategie di gentrificazione consentono la riconversione dello spazio urbano in zone di consumo e d’ozio attraenti per il turismo, senza le quali non sarebbe possibile alcuna ascesa nella gerarchia globale, e quindi, lo stesso turismo non sarebbe in sé trainante di alcun processo.


1 [Ndt] Con Ciutat si intende la città di Palma di Maiorca, la cui storia è piuttosto articolata: fondata dai Romani col nome di Palma, subì il passaggio di Vandali e Bizantini fino al dominio arabo nel 902. Gli Arabi la ribattezzarono Medina Mayurqa, nome che in seguito passò ad indicare l’intera isola. Nel 1229 venne invasa dagli Aragonesi – prendendo nel XIII secolo il nome di Ciutat de Mallorca – e, nel tempo, rimase sotto il dominio spagnolo dopo l’unificazione delle corone di Castiglia e d’Aragona. Nel XVIII secolo la città divenne la capitale della provincia delle Baleari, recuperando il toponimo romano Palma. Cambiando nome ulteriori volte, dal 2008 la città è ufficialmente denominata Palma. Molti abitanti locali però insistono a chiamarla Ciutat.
2 [Ndt] Gerreria è un quartiere del centro di Palma ed uno dei primi ad aver subito un violento processo di gentrificazione.


Riferimenti bibliografici:
DAVIDSON, M. I LEES L. (2005). “New-build gentrification and London’s riverside renaissance” a Environment and Planning A, Vol.37, Num.7, p.1165-1190.
GLASS, R. (1964). “Introduction: aspects of change”, a Center for Urban Studies (ed.) London: aspects of change, Londres, MacGibbon & Kee, p. xiii-xlii.
GONZALEZ CEBALLOS, S. (2000). “Los espacios de ocio en la ciudad emprenedora” a 6th World Leisure Conference Proceedings.
GONZÁLEZ CEBALLOS, S. (2007). “Trepando por la jerarquía urbana: nuevas formas de gobernanza neoliberal en Europa” a Vivas, P.; Ribera, R. i González, F. (coords.): Ciudades en la sociedad de la información. UOC Papers, Num.5, p.6-12
HARVEY, D. (1977). Urbanismo y desigualdad social, México, Siglo XXI S.A.
HARVEY, D. (1989). “From managerialism to entrepreneurialism: the transformation of urban governance in late capitalism”. Geografiska Annaler Series B,. 71b (1), pp. 3-17.
LEES, L. (2003). Super-gentrification: The Case of Brooklyn Heights, New York City. Urban Stud November 2003 vol. 40no. 12 2487-2509
LEES, L.; SLATER, T. I WYLY. E. (2008). Gentrification . Routledge, Londres.
SMITH, N. (1979). “Toward a theory of gentrification: a back to the city movement by capital, not by people”, Journal of the American Planning Association, 1979, vol. 45
SMITH, N. (1996). The new urban frontier. Gentrification and the revanchist city. Routledge, Londres.
SMITH, N. (2002). “New Urbanism: Gentrification as Global Urban Strategy” a Antipode, Vol.4, Núm 3, p.427-450.



Tra il falso e il possibile

A proposito dell’uccisione di Venezia e di chi non vi si rassegna.

Bronse Coverte
Ultimamente, su non pochi media nazionali ed esteri, si è tornati a parlare della «morte di Venezia», causata dal turismo di massa. La questione è, in realtà, tutt’altro che nuova anche se, a parere di chi scrive, negli ultimi quindici anni ha effettivamente assunto dei connotati di irreversibilità su cui vale la pena interrogarsi. Per fare ciò è però necessario sgomberare il campo da alcune falsità prodotte dalla narrazione dominante che, volta a eliminare il possibile sviluppo di una critica radicale al fenomeno, presenta in sostanza il turismo come una calamità naturale subita da una popolazione autoctona compattamente refrattaria.
La macchina turistica di Venezia è un modello economico integrato, all’interno del quale chiunque contribuisce alla sua riproduzione. L’indotto creato da questo tipo di economia è, negli ultimi anni, diventato da maggioritario a totalizzante, avendo fagocitato ogni altro tipo di attività lavorativa ed essendosi diffuso in maniera capillare nel corpo sociale. Divenuta l’unica fonte di ricchezza possibile, i veneziani stessi (con le dovute ma sempre minoritarie eccezioni) sono divenuti un ingranaggio primario di questa macchina, mettendo a reddito le loro proprietà in funzione esclusiva delle esigenze dei visitatori. Ne sono un esempio concreto il gran numero di B&B, decuplicati in quindici anni dopo le liberalizzazioni, ma anche i tanti negozi di quartiere trasformati in rivendite di souvenir, a scapito di chi potrebbe ancora vivere la città come tale e non come un gigantesco parco giochi.
L’indotto turistico è passato negli ultimi anni ad essere da maggioritario a totalizzante
Le radici di questo processo vanno ricercate nel secondo dopoguerra, con la terziarizzazione dell’economia dovuta alla progressiva dismissione delle industrie in città, avviate nei primi anni del secolo e sviluppate durante il fascismo. Questo ha portato ad una ri-organizzazione metropolitana del territorio, con operai e classi meno abbienti trasferite nell’entroterra e la città governata come un «centro storico» da cui estrarre valore in ogni angolo. In questo senso risulta fuorviante anche riferirsi alla categoria della gentrificazione, l’espulsione dei poveri a vantaggio degli investimenti dei grossi capitali è qualcosa che, nella maggior parte di Venezia, è già avvenuto. La fase attuale vede piuttosto una guerra, silenziosa e strisciante, condotta verso ogni forma di vita non conformata alla monocultura del turismo, combattuta ai ferri corti casa per casa e strada per strada.
Gli aspetti sociali di questa situazione hanno, nel quotidiano, molteplici conseguenze. Risulta sempre più arduo trovare contratti di affitto che durino più di un anno e, ancora più difficile, trovare un proprietario che permetta di stabilire la propria residenza ufficiale. Ne consegue che una consistente fetta degli abitanti di Venezia non vi sia formalmente residente, non potendo quindi contare sui diritti basilari come l’accesso alla sanità e all’istruzione nel comune dove, di fatto, si vive. Alla luce di ciò andrebbe letto anche il dato, spettacolare e per questo sempre riportato, sullo spopolamento della città, scesa l’anno scorso sotto la soglia dei 55000 residenti, appunto, «ufficiali». Un numero che non comprende quello degli studenti fuori sede, della manodopera immigrata o di chi, per scelta o per necessità, si è trasferito senza un contratto regolare. Categorie, queste, tutt’altro che marginali o esigue, di cui va compresa la differenza di posizionamento quando parliamo di resistenze al turismo.
Nel corso dell’ultimo anno, a nome di associazioni di cittadini o di gruppi creati appositamente, sono state organizzate alcune proteste volte a sensibilizzare sul problema dello spopolamento e del turismo di massa1 2. Tralasciando la natura di questi soggetti, per lo più politicanti o commercianti esasperati dal «degrado» del visitatore mordi e fuggi, queste manifestazioni hanno avuto un carattere reazionario nel momento in cui, fregiandosi di una «venezianità» intesa come diritto di nascita, non hanno fatto altro che chiedere all’amministrazione una migliore gestione dei flussi. Proposte che verranno probabilmente accolte in un futuro prossimo: nella prospettiva di zonizzazione e maggiore controllo dello spazio urbano non sorprenderebbe ritrovarsi con un biglietto da pagare per visitare Piazza San Marco o con la chiusura cadenzata degli accessi alla città, sbarrando le porte al visitatore giornaliero che non consuma abbastanza. Un modo di esternare il malcontento facilmente recuperabile proprio perchè, nuotando con la corrente, incontra le nuove esigenze di gestione di chi governa, per cui un controllo più pervasivo dello spazio pubblico è sempre funzionale a una sua più pervasiva monetizzazione.
In questo quadro profondamente compromesso risulta difficile, all’oggi, immaginare una critica, e una lotta, al turismo che non si fermi alla forma, ma ne riesca ad attaccare il contenuto. Esattamente come ogni critica al capitalismo, senza una messa in discussione radicale del proprio modo di vivere, è destinata a rimanere lettera morta.
Il problema del turismo, come ogni critica al capitalismo, senza una messa in discussione radicale del proprio modo di vivere, è destinata a rimanere lettera morta
Frammenti di questa prospettiva possono essere raccolti nelle lotte nate attorno a questioni specifiche, lì dove si è dato come inevitabile anche un salto sul piano etico. E’ il caso delle occupazioni di spazi universitari destinati a diventare alberghi, delle occupazioni di case (politicamente organizzate come no) e delle opposizioni a progetti di speculazione nocivi per il territorio. Queste lotte, nate negli ultimi anni sotto il segno dell’esasperazione alla monocultura turistica, contengono in potenza i germi della distruzione di quest’ultima più per le loro potenzialità inespresse che per i risultati effettivamente conseguiti. Al di là degli intenti di chi le ha promosse, le energie messe in circolo in questi contesti sono riuscite a mettere sul piatto possibilità inedite, percorribili anche al di fuori dei classici percorsi militanti. Occupare una casa per abitare in una città dove ogni appartamento è un bed and breakfast. Combattere una grande opera, o un piano urbanistico, organizzandosi per vivere al di là di questa. Liberare uno stabile vuoto per non farlo diventare un albergo, ma anche per far sì che diventi subito qualcosa di completamente altro. Incazzarsi per la nuova privatizzazione di un giardino, per mettere in discussione ogni proprietà di ciò che si vorrebbe comune. Non chiedere più nulla al potere di turno ma battersi per riconquistare gli spazi dove non è più nemmeno possibile camminare.
Ricomporre questi frammenti, questi possibili inespressi, è il da farsi di chi vorrà vivere e lottare a Venezia nei prossimi tempi. Non sarà, per forza di cose, un affare di tutti nè si potrà fare a meno di pestare i piedi a qualcuno. Ma di sicuro ne vale la pena.





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