sabato 4 novembre 2017

Ci auguriamo che non somigli a nessuno degli anni passati - Giovanna Lo Presti

(appare qui con due mesi di ritardo, purtroppo è sempre vero)


La “Nuova Scuola”: la base per fabbricare cretini

Un elenco sufficientemente completo delle novità che attendono studenti, insegnanti e lavoratori della scuola nell’anno scolastico 2017-2018 lo ha pubblicato Il Sole 24 ore. Un meritorio articolo di Claudio Tucci ci ricorda, in ordine alfabetico, che, dall’Abilitazione all’insegnamento ai Vaccini obbligatori l’anno scolastico appena iniziato dovrebbe essere un tourbillon di cose nuove, talune inedite, altre conseguenza diretta di più di quindici anni di cosiddette “riforme”.
Ad esempio, proseguirà, con incremento dei fondi disponibili, l’“alternanza scuola-lavoro. Non piace né agli studenti né agli insegnanti? C’è qualche insegnante retrogrado che afferma che diminuire le ore di insegnamento a causa dell’alternanza va a danno di ciò che si apprende? Vaste schiere di studenti lamentano l’inconcludenza dei loro stage lavorativi? Pazienza, a tutto si cercherà di ovviare.
Allo stesso modo, nonostante le molte e ragionevoli critiche, continuerà il Bonus al merito: il giornalista ci informa che “lo scorso anno i premi sono stati un po’ troppo di manica larga: hanno ottenuto un bonus tra i 600 e i 700 euro oltre 247mila prof, il 35% dell’intero corpo docente”. Va da sé che, qualora la percentuale di insegnanti “meritevoli” fosse davvero del 35%, le scuole imploderebbero domani stesso. Ogni altra considerazione sull’insensatezza di un bonus “al merito” l’abbiamo già fatta e sono certa che i colleghi, in larga maggioranza, pensano che a scuola conti la collaborazione e non la corsa al “bonus”.
Alla voce Esami, novità per gli esami di terza media (la più rilevante è il fatto che la prova Invalsi venga scorporata dall’esame e collocata in corso d’anno), ma ancora nulla di nuovo per la Maturità, che cambierà soltanto nel 2018/2019. La discussa prova Invalsi diviene requisito per l’ammissione all’Esame di Stato ma non influisce sul voto finale.
Quest’anno continua il tormentone delle scuole aperte anche di pomeriggio: a tal fine sono stati stanziati 187 milioni, cui sono da aggiungere parte dei fondi (830 milioni) stanziati per 10 bandi per una scuola “più aperta, inclusiva e innovativa”. Che begli aggettivi!
Altri 150 milioni di euro vengono stanziati per la scuola digitale; abbiamo recentemente appreso che si cercherà anche di regolamentare, a colpi di circolari, l’uso di smartphone e di cellulari in possesso degli studenti. Rispetto a questo punto il ministro (la ministra, pardon) Fedeli si è già luminosamente espressa: Il telefonino “è uno stumento che facilita l’apprendimento”, “una straordinaria opportunità che deve essere governata”. Se proprio non vogliamo essere tranchant come Luca Pisano, psicoterapeuta ed esperto di cyberbullismo (che afferma: “la scuola tecnologica delega la funzione del pensare a un oggetto. Questa è la base per fabbricare cretini a scuola…”), qualche dubbio in più della nostra ministra noi insegnanti ce l’abbiamo. Sappiamo da anni che il cellulare è tra i nostri peggiori nemici, un’arma di distrazione potentissima, contro la quale può ben poco l’appealdell’insegnante. Personalmente considererei altri legalize it meno pericolosi della legalizzazione del telefonino a scuola: messo su un piatto della bilancia tutto quello che i “nativi digitali” sanno fare e sull’altro quello che non sanno più fare, mi pare che il risultato sia preoccupante. Spero soltanto che le boutadedi una ministra poco competente smuovano una riflessione seria sul mito delle nuove tecnologie applicate alla didattica.
Così come spero che la sperimentazione della riduzione a quattro anni del percorso di istruzione superiore sia un flopIn quattro anni non si impara quello che si impara in cinque e la tendenza a mettere tra parentesi il fattore “tempo” quando si parla di educazione ed apprendimento è quanto mai perniciosa. D’altra parte, un Paese con un tasso di disoccupazione al 40,1% nella fascia compresa tra i 15 e i 24 anni (dati di fine dicembre 2016) che urgenza ha (fatta eccezione per un netto risparmio sulla spesa per l’istruzione: si calcola che la riduzione a quattro anni porterebbe a tagliare 40.000 cattedre) di fare uscire prima dalla scuola superiore i ragazzi? Sottolineo che la riduzione delle superiori a quattro anni è un vecchio progetto, iniziato in sordina ai tempi di Gelmini e poi proseguito in modo carsico attraverso gli anni, per approdare infine alla sperimentazione Fedeli.
Chiudono le “novità” di quest’anno i vaccini obbligatori: che tristezza! La penosa e pietosa vicenda che vede l’Italia capofila dal 2014 per le strategie e le campagne vaccinali nel mondo, secondo la decisione del Global Health Security Agenda, è un esempio di protervia ed insensatezza governativa cui hanno fatto da contorno compiacenti giornalisti e sedicenti scienziati che hanno escluso il dubbio dalle loro pratiche mentali. Fare in modo che la disputa opponesse la fazione dei pro-vax ai no-vax ha determinato il fatto che si perdesse di vista il buon senso, che non si richiedessero collettivamente, come invece si doveva fare, motivazioni per il passaggio da 4 (quattro) vaccini obbligatori a 10 (dieci!). Cosa dobbiamo pensare noi cittadini? Che sino ad ieri l’Italia fosse un Paese del terzo mondo, privo di copertura vaccinale per importanti malattie epidemiche? A me pare che un incipit giusto per riflettere autonomamente su questa vicenda sia rivedere la ministra Lorenzin che, a “Porta a Porta” (2014) afferma che a Londra morirono per morbillo 270 bambini; nel 2015, a “Piazza pulita” dirà che i bambini morti a Londra sono più di duecento, che forse sono da sommare ai 270 o forse no; la ministra confonde date e dati, ma, in fondo, ha fatto soltanto il liceo classico, poverina! Magari sa tradurre Plutarco ad apertura di libro (per gli scettici vedere qui).
Però sto andando fuori tema, in quanto ci si proponeva di evidenziare le “novità” dell’anno scolastico appena iniziato. Che un ministro della Repubblica sostenga vaccinazioni di massa probabilmente inutili e forse dannose non è affatto una novità. Torniamo al lontano 1991:
Entro il 2004 sarà completamente sconfitta l’ epatite B, il pericoloso killer responsabile in Italia di novemila morti ogni anno. Da ieri la vaccinazione contro la malattia è diventata obbligatoria per tutti i neonati nel primo anno di vita e per tutti gli adolescenti nel dodicesimo anno. Lo stabilisce un disegno di legge approvato dalla commissione Sanità del Senato in sede legislativa. Finalmente, dopo anni ce l’abbiamo fatta, esplode di soddisfazione il professor Giuliano Da Villa che era stato incaricato due anni fa dal ministro della Sanità De Lorenzo di preparare il provvedimento” (Stefano Costantini, da La Repubblica.it, 10 maggio 1991).
Si scoprì poi che De Lorenzo era stato convinto dalla Glaxo SmithKline, unica azienda produttrice del vaccino, con ottimi argomenti: una tangente di 600 milioni di euro, ammessa dalla stessa casa farmaceutica.
Ma torniamo alla scuola: sul tema vaccini esprimo solidarietà a tutto il personale scolastico che dovrà occuparsi della faccenda. Il personale stesso sarà tenuto ad una autodichiarazione: immagino che, però, potremo dignitosamente difenderci dietro ad un “non ricordo”, vista l’età media altissima. Un ultra-cinquantenne non è tenuto a ricordare il trauma del vaccino, non è tenuto a fare una ricerca d’archivio nelle carte di casa e spesso non ha nemmeno la possibilità, ahimè, di interrogare i propri genitori sulla questione. Può quindi mandare al diavolo con animo sereno l’ennesima pensata ministeriale che, invece di semplificarci l’esistenza, ce la complica gratuitamente.
In conclusione, il nuovo anno scolastico ci porta poche novità, che perlopiù non sono davvero tali. In compenso, restano, granitici, i problemi “vecchi”, annosi, mai risolti: l’età media altissima degli insegnanti, le cui conseguenze non interessano nessuno, le condizioni indecorose delle nostre scuole, nonostante lo stanziamento renziano di 9 miliardi di cui non si vedono però gli effetti, il contratto vergognosamente fermo al 2009, la inqualificabile intesa pre-referendum con la quale governo e sindacati maggiormente rappresentativi (rappresentativi di chi?) hanno stabilito un aumento medio e lordo di 85 euro per gli statali, un vero insulto nei confronti di tre milioni di lavoratori. Il disagio tangibile di studenti ed insegnanti, che fa delle nostre scuole troppo spesso un luogo in cui la sofferenza sociale si esprime in modo deviato non è argomento che valga la pena affrontare e quindi viene spavaldamente ignorato dai vertici ministeriali.
Prepariamoci quindi a comprare l’almanacco nuovo e ad affrontare l’anno che verrà: come nel dialogo leopardiano ci auguriamo che non somigli a nessuno degli anni passati.
Dedico all’anno scolastico 2017/2018 tre quadretti: nel primo ricordo, a mo’ di augurio e di speranza, un pedagogista catalano libertario la cui fine crudele fece scendere in piazza, anche in Italia, migliaia e migliaia di lavoratori, nel secondo mi occupo di “fantascienza scolastica”, nel terzo dimostro che la realtà spesso supera l’immaginazione.

Quando gli operai scioperavano in favore di un pedagogista
Oggi, in tempi attraversati tanto dalla casualità della violenza quanto da una sorta di assopimento sociale che sembra paralizzare qualsiasi moto di rivolta contro il conformismo e la piega reazionaria che la nostra società sta prendendo, è difficile immaginare un’Europa scossa dall’indignazione e in rivolta a causa della condanna a morte di un pedagogista libertario. Il fatto che interi quartieri operai torinesi scendano in piazza e scioperino in massa per l’ingiustizia subita da un intellettuale spagnolo ha, ai nostri occhi, qualcosa di incredibile. La fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia, pedagogista catalano, fondatore della Escuela moderna, avvenne il 13 ottobre del 1909. Ferrer veniva accusato, peraltro ingiustamente, di essere l’ideatore delle rivolte operaie scoppiate in Spagna contro la guerra dichiarata al Marocco, che avevano trovato la loro massima espressione nella “Settimana tragica” (26 luglio-1 agosto 1909). La notizia dell’arresto e della condanna di Ferrer destò scalpore anche in Italia. A Torino, per esempio, le barriere operaie insorgono e scoppia la protesta per la condanna di Ferrer:
Sul finire dell’estate del 1909 il movimento libertario è alla testa delle forti proteste che, come nel resto d’Europa, prendono corpo anche in Italia, specie a Torino, in Toscana e nelle Marche, contro la condanna a morte in Catalogna del pedagogista libertario Francisco Ferrer y Guardia, iniziatore dell’educazione integrale razionalista, nuova teoria e pratica formativa radicale e rivoluzionaria, antiautoritaria, antistatale e anticlericale, basata sulla libertà dell’individuo e sulla laicità e autonomia del pensiero quali strumenti di emancipazione sociale delle classi subalterne. (articolo di Paolo Papini su A rivista anarchica, anno 46 n. 411, “Quella scuola laica e libertaria”).
Giovanni Pascoli distribuiva a Bologna, il giorno dopo l’esecuzione di Ferrer, volantini con una epigrafe dedicata al maestro (la si può leggere qui). Lo “scoppio di fucili” che uccide Ferrer riecheggia nelle “scuole della terra” e rimbomba “nelle officine del mondo”; “i pensatori levarono gli occhi dal libro / e i lavoratori alzarono il pugno dall’incudine…”: così scrive Pascoli nel 1909. Ma più dell’intellettuale che apprezza l’intellettuale colpisce l’indignazione di intere masse operaie. La scuola che Ferrer immaginava era una scuola all’insegna del “razionalismo umanitario
…. che consiste nell’infondere nell’infanzia il desiderio di conoscere l’origine di tutte le ingiustizie sociali, perché conoscendole, essa possa a sua volta opporvisi e combatterle. Il nostro Razionalismo Umanitario combatte le guerre fratricide interne ed esterne, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la schiavitù della donna; combatte tutti i nemici dell’armonia umana, ignoranza, vizio, cattiveria, orgoglio ed altre brutture che tengono gli uomini divisi in oppressori e oppressi. (vedi qui)
Ecco, in estrema sintesi, la descrizione della Escuela moderna di Francisco Ferrer y Guardia; una scuola attenta ai valori di libertà dell’individuo e di giustizia sociale, una scuola attenta alla Natura e volta a formare negli studenti una mentalità critica:
Si insegni storia o agricoltura, letteratura o chimica, algebra o greco, risulterà sempre che si sarebbe potuto farlo in due modi; uno che irrobustisce il giudizio, l’altro che lo atrofizza e lo falsa al suo nascere; uno che fissa per sempre all’alunno l’ordine delle nozioni che si presentano al suo esame per la prima volta; l’altro che lo disgusta per sempre. La pedagogia consiste esattamente nel conoscere, formulare e applicare nella misura del possibile il primo di questi metodi.
Queste parole venivano scritte più di un secolo fa, in un contesto sociale radicalmente diverso ed in cui era chiaro per tutti che la scuola aveva un valore emancipatorio e che l’uscita dall’ignoranza era il primo passo verso la costruzione di una umanità nuova. Ad apertura di un nuovo anno scolastico mi chiedo cosa sia rimasto di una simile tensione nei pedagogisti ministeriali, nel corpo docente, negli stessi studenti. E la risposta è scontata: ben poco. Eppure è da quella tensione che bisogna ripartire se non vogliamo che le nostre scuole somiglino a quella descritta nel racconto di “fantascienza scolastica” che viene presentato qui di seguito.

Un racconto profetico: un insegnante per 40.000 studenti
Il Trendex compare in un racconto di fantascienza scolastica scritto da Lloyd Biggle jr. negli ultimi anni Cinquanta, che il lettore italiano può leggere su un numero antologico di Urania del 1968 oppure nella interessante raccolta di racconti di fantascienza e horror scolastico curata da Vincenzo Campo per Sellerio (Il compito di latino. Nove racconti e una modesta proposta, a cura di Vincenzo Campo, Palermo, Sellerio 1999). Tenuto conto che La professoressa marziana è stato scritto circa sessant’anni fa, ci troviamo di fronte ad un caso di fantascienza scolastica ed anche profetica.
Dunque, il “Trendex” è un “indice di gradimento” degli insegnanti che, nella scuola immaginaria della metà del XXI secolo (e qua sta uno dei pochi punti di debolezza dell’immaginazione fantascientifica: la proiezione in avanti è sempre fatta cautamente, così succede che arrivi il 1984 ed il mondo presenti, almeno in apparenza, un aspetto più umano di quello immaginato da Orwell), una scuola “a distanza”, in cui le lezioni, registrate in uno studio televisivo, vengono seguite dagli studenti (che sono quarantamila per ogni insegnante, altro che “classi-pollaio”!) serve a misurare la capacità degli insegnanti:
Ogni due settimane eseguiamo un migliaio di sondaggi sugli allievi del professore. Se tutti i campioni da noi prelevati seguono, come dovrebbero fare, le lezioni assegnate, il Trendex del professore è 100. Se soltanto la metà segue, il Trendex è di cinquanta. Il Trendex di un buon insegnante è all’incirca di 50. Se il Trendex scende al di sotto di 20, il professore viene licenziato per scarso rendimento”.
La povera professoressa proveniente da Marte ed approdata sulla Terra per ragioni di salute deve quindi fare i conti con l’insegnamento a distanza e con il Trendex per evitare di essere licenziata in tronco. Scoprirà che i colleghi più seguiti dagli studenti usano mezzi assai poco ortodossi per conquistare l’attenzione degli allievi: una bella ragazza bionda che insegna Inglese mette in scena ad ogni lezione, un mezzo strip-tease (a questo aspetto del racconto è dedicata la copertina di Urania, creata dal mitico disegnatore Karel Thole: in primo piano vediamo una telecamera, sullo sfondo una lavagna e al centro una bella ragazza bionda nell’atto di completare uno strip-tease), un prestante giovanotto (Trendex 45) si esibisce in una serie di imitazioni e tiene il gesso sul naso come un giocoliere, un’altra insegnante, dotata di estro pittorico, schizza una caricatura dopo l’altra. Insomma, per alzare il Trendex gli insegnanti sono pronti a tutto, e non si preoccupano di far calare vertiginosamente la qualità del loro insegnamento. D’altra parte, della qualità dell’insegnamento non importa nulla a chi è ai vertici della “Nuova Scuola:
… un altro fattore determinante per l’adozione dei nuovi sistemi di insegnamento è il risparmio di denaro che essi comportano. Anziché avere migliaia di costosi edifici scolastici, è sufficiente un unico studio TV. Inoltre si risparmia sugli stipendi degli insegnanti, perché basta un insegnante per varie migliaia di studenti, anziché uno ogni trenta-quaranta allievi. I ragazzi intelligenti impareranno da soli, anche se l’insegnamento è insufficiente, e d’altronde la nostra civiltà non esige di più: pochi elementi ben preparati, in grado di costruire macchine efficienti”.
La signorina Boltz, l’insegnante marziana di mezza età legata all’insegnamento tradizionale, non si rassegna. Mitemente ma ostinatamente condurrà la sua battaglia per riportare gli studenti in classe e per ricostruire un rapporto educativo concreto; ne uscirà vittoriosa, grazie all’aiuto di altri che, come lei, hanno compreso i gravi limiti della “Nuova Scuola. Che è una scuola in cui non esiste il problema della disciplina, in cui non ci sono compiti da correggere, in cui le tasse scolastiche sono basse e non si assegnano compiti a casa. Peccato che la “Nuova Scuola” sia una sorta di Paese dei Balocchi da cui si esce tanto ignoranti quanto lo si era quando ci si è entrati.
Se il lettore ha colto qualche analogia tra la scuola immaginaria e la scuola italiana dei nostri giorni, vuol dire che, probabilmente, di mestiere fa l’insegnante e non è troppo contento delle condizioni in cui deve svolgere il suo lavoro. Non dimentichiamoci però che nulla è per sempre, né la “Nuova Scuola” in cui incappa la signorina Boltz né la “Buona scuola” attuale: l’importante è avere in mente un modello alternativo di scuola e battersi, collettivamente, per realizzarlo.
Chiudo con un aneddoto di “cronaca vera” che ha fatto da sigillo simbolico, per me, all’anno scolastico 2016/2017, con l’augurio rinnovato che l’anno che verrà sia illuminato dalla luce della ragionevolezza e della speranza.

Crediti formativi, porto d’armi e la lezione di don Milani
È il giorno della riunione preliminare delle commissioni dell’esame di Stato. L’età media della mia commissione, ad occhio e croce, si colloca ben oltre i cinquanta anni e quindi tutti i componenti conoscono a fondo il rito burocratico che dà inizio alla Maturità, parola sempre meno adatta ai nostri tempi puerili. Uno dei primi atti dei commissari consiste nell’esame dei fascicoli degli studenti e nel controllo dei cosiddetti “crediti formativi”, che riguardano attività extrascolastiche la cui validità viene riconosciuta dal Consiglio di classe, sulla base di indicazioni e parametri individuati dal Collegio docenti. Quindi, a voler prendere le cose sul serio, l’attribuzione del “credito formativo” vede coinvolta l’intera istituzione scolastica. Dunque, eccomi anche quest’anno a scorrere l’elenco di “attività extrascolastiche” trasformate in crediti formativi.
A un tratto mi fermo, poiché penso di aver letto male: nella casella del credito c’è scritto “porto d’armi”. Cosa c’entra il porto d’armi con il “credito formativo”? Cerco di farmelo spiegare da uno dei membri interni: a suo dire, la licenza comporta verifiche, esami, acquisizioni di conoscenze etc. Proverò poi, a casa, a controllare sul sito della Polizia di Stato, ma non mi pare che il porto d’armi comporti una crescita “formativa” degna di rilievo. E se pur fosse, se pure il porto d’armi lo si conseguisse dopo aver sostenuto esami su esami a me quel “porto d’armi” accanto al nome di un diciannovenne continuerebbe a suonare come una nota stonata. Ed aggiungerei che una scuola che si riempie la bocca di espressioni come “educazione alla pace” ed “educazione alla legalità” non dovrebbe essere così strabica da riconoscere la qualità di “credito formativo” al porto d’armi.
Quando ci si chiede come mai la scuola italiana abbia gravi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di individuare il problema centrale: la scuola, intesa come istituzione, ha perso la bussola e non è in grado di orientarsi perché non sa più dove stia la sua stella polare. Soltanto questo profondo disorientamento, che parte dai vertici ministeriali (di cui si sospetta la malafede) e degrada giù giù sino ai Consigli di classe (che invece spesso agiscono in buona fede, cosa che personalmente non ritengo un’attenuante) può spiegare alcuni esiti come quello di cui ho appena parlato.
Se vogliamo prendere un altro esempio recente, la santificazione di Don Milani, di cui il MIUR ha celebrato con gran pompa il cinquantenario della morte, è frutto dello stesso disorientamento e dello stesso strabismo. Riporto, per meglio chiarire il mio pensiero, una frase del documento con il quale il MIUR comunica ufficialmente l’iniziativa su Don Milani:
Si trattava di un modo di fare scuola che oggi si potrebbe ricondurre alla valorizzazione delle competenze intese, secondo le Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo, come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto” necessarie per “la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione.
Io penso che Don Milani, con il suo disprezzo aristocratico verso ogni forma di perbenismo piccolo-borghese e con la sua attenzione verso l’uso delle parole avrebbe avuto un conato di vomito di fronte ad una frase come questa. Eppure la nostra scuola, che invoca come genio tutelare don Milani, è mostruosamente selettiva; ed il continuo parlare di “inclusione” sembra quasi voler rivelare, attraverso il tic linguistico ossessivo, la propria cattiva coscienza.
Immagino che a don Milani questa nostra scuola non piacerebbe per nulla; egli praticava una didattica rude, rigorosa, austera (e come ha recentemente ricordato Lodolo D’Oria un tipo come Lorenzo Milani oggi sarebbe facilmente finito sotto processo per gli scappellotti che non risparmiava ai suoi studenti) ma nutrita di passione e di slancio civile, fattori che mancano del tutto alla nostra scuola asfittica.
Quando nel febbraio del 1965 i cappellani militari della Toscana in un documento definirono l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”, la risposta di don Milani fu ferma: si ha il diritto di non obbedire, l’obbedienza non è più una virtù quando è praticata senza spirito critico. Rivolto ai cappellani militari che davano la propria benedizione alle armi scrisse queste parole icastiche:
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
Tale presa di posizione pubblica costerà al priore di Barbiana un processo, che si concluderà con una famosa e farisaica sentenza: “Il reato è estinto per morte del reo“. E qui vorrei chiudere questa orbita un po’ sghemba che parte da un “credito formativo” assegnato per il possesso del porto d’armi e comprende al proprio interno il magistero di Lorenzo Milani, del quale un ministro dell’istruzione che ha esibito una laurea che non possiede non si dovrebbe appropriare.

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