domenica 30 agosto 2015

Le donne curde non si arrendono


Da diversi giorni la popolazione di Silvan in provincia di Diyarbakir in Turchia si sta difendendo contro la polizia con le donne che costituiscono unità di autodifesa per combattere per le strade.
Per alcuni giorni i residenti dei quartieri del distretto di Silvan della provincia a maggioranza curda di Diyarbakir stanno resistendo ai tentativi della polizia di occupare i quartieri. Gli scontri sono durati finché la polizia ha evacuato i piani superiori di un certo numero di abitazioni in via Çelikler e ha posizionato cecchini sui tetti delle case. Un giovane è rimasto gravemente ferito negli scontri e i negozianti del posto hanno abbassato le saracinesche in segno di protesta.
In città le donne hanno costituito le loro unità di autodifesa. La vista delle tende appese per bloccare la vista dei cecchini in città ricorda i giorni di guerra nella città curda di Kobanê, nel Rojava, dove espedienti simili erano stati utilizzati.
Le donne anziane del quartiere hanno sostenuto la resistenza, sia portando cibo e cantando canzoni con i giovani appostati ad ogni angolo o camminando per le strade con i bastoni tra le mani. Residenti di tutte le età si sono uniti per scavare fossati in diversi quartieri.

“Nonostante tutti questi attacchi contro di noi, stiamo ancora dicendo pace”, afferma una donna unitasi alla resistenza nel quartiere Tekel. “Siamo scese in strada per fermare la polizia dal compiere esecuzioni e impedire che venga sparso altro sangue”.
“La polizia ci ha rivolto un gesto come per dire,”Vi tagliamo la testa”, ha affermato un’altra donna.”Se questi giovani non stessero agli angoli delle strade, la polizia non ci consentirebbe di sederci fuori di casa. Ci ucciderrbbero tutte. Non importa in quanti verranno per ucciderci, noi continueremo a dire pace”.


Le donne curde nelle rivolte del Kurdistan settentrionale

Le donne in prima linea nella resistenza nella città curda di Silvan hanno annunciato di non voler più riconoscere l’autorità dello Stato Turco e di essere pronte a combattere fino a quando la città non sarà liberata.

A partire dalla città di Silopi, diverse città in tutto il Kurdistan settentrionale (ovvero la regione interna alla Turchia) hanno proclamato l’autogoverno di fronte agli attacchi della polizia. Dopo le città di Cizre, Nusaybin, Yüksekova e Varto, anche Silvan, distretto della provincia di Diyarbakır, ha dichiarato l’autogoverno.

Nei quartieri di Tekel, Mescid e Konak, la gente di Silvan si è impegnata negli sforzi per scavare trincee, sotto la guida della gioventù del quartiere. Le giovani donne della città hanno assunto un ruolo chiave nello sforzo di tenere la polizia fuori dei quartieri, affrontando i turni di di guardia alle trincee e difendendo le zone amministrate.

La gioventù ha compreso come dopo le elezioni l’AKP abbia iniziato ad usare tutte le forze disponibili in mano allo Stato al fine di avviare un attacco contro il popolo curdo, includendo un divieto di accesso indiscriminato per mesi al carcere dove è imprigionato il leader del PKK Abdullah Öcalan. Ora è giunto il momento in cui le città si sono sollevate. Arin Amed, che vive nel quartiere Tekel, è una delle donne che ha osservato la nascita della resistenza popolare a Silvan.

“Silvan non è solo. Come giovani donne, stiamo andando a difendere le aree in cui viviamo fino alla fine. Noi non rinunciamo a questa resistenza fino a quando Silvan non sarà libero”, ha detto Arin. “In questo momento, tutti i giovani di Silvan sono in rivolta”, ha detto Arin, che sottolinea come i curdi non abbiano più bisogno di riconoscere alcuna delle istituzioni dello Stato turco. “Per tre giorni, siamo stati di guardia nei nostri quartieri, e nessuno sta entrando al loro interno.”

Arin ha voluto aggiungere come fino ad ora le giovani donne a Silvan fossero vissute sotto il dominio della mentalità patriarcale.

“Le combattenti YPJ a Kobanê, che hanno combattuto contro la più dura delle mentalità patriarcali, sono diventate un esempio per tutto il mondo. Per quanto ci riguarda, vogliamo prepararci alla vittoria con la forza e il morale che abbiamo ottenuto da queste donne”, ha detto Arin. “A questo punto, la gente ha bisogno di vedere la propria forza e di portare la guerra popolare rivoluzionaria alla vittoria.”

“Il nostro popolo è passato attraverso un sacco di dolore e pagato un prezzo alto, ma la vittoria contro questa crudeltà è vicina. Una volta che saremo diventati un ‘noi’, nessuna forza ci potrà fermare”, ha concluso.

tradotto da InfoAut, link originale da Kurdish Question qui

Tre quartieri di Istanbul hanno dichiarato l’autogoverno
Il partito governante in Turchia dell’Akp a seguito della sconfitta elettorale ha avviato una violenta guerra nel Kurdistan del nord. Come risposta la popolazione in tutta la regione ha dichiarato l’autogoverno. Quartieri e città hanno dichiarato che si difenderanno contro gli attacchi dello stato. Adesso tre quartieri a Istanbul si sono uniti a loro: Gazi, Gülsuyu e Kanarya.
Uno dei quartieri che ha dichiarato l’autogoverno è Gazi. Nel 1995 17 persone sono morte nella repressione di polizia delle iniziative di quartiere. Da allora Gazi è stato un quartiere chiave per i rivoluzionari di Turchia e del Kurdistan. La scorsa settimana l’iniziativa della popolo di Gazi ha dichiarato l’autogoverno nel quartiere.
“La classe lavoratrice è stata oppressa, colonizzata e massacrata. Ma hanno vissuto fianco a fianco per anni anche con differenti lingue, religioni e culture. É giunto il momento per questa gente di dire “basta alla crudeltà”, alla tortura e ai massacri, ha dichiarato un oratore dell’iniziativa del quartiere.
Gülsuyu, come Gazi, è un quartiere dominato dalla classe lavoratrice, dai musulmani aleviti e dai rivoluzionari. L’iniziativa popolare del quartiere Gülsuyu a Maltepe si è unita alle dichiarazioni di autogoverno. Nel comunicato il gruppo ha denunciato gli attacchi della polizia ai politici curdi. Essi hanno inoltre denunciato l’isolamento in carcere del leader Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan e il bombardamento delle zone della guerriglia curda.
Il quartiere di Kanarya è situato nel distretto della città di Küçükçekmece denominato “Kurdistan d’Istanbul” per la sua numerosa popolazione curda. Kanarya è stato luogo di resistenza. Come risultato, le operazioni di polizia erano frequenti.
La gente di Kanarya ha deciso di unirsi a Gazi e Gülsuyu nel dichiarare l’autogoverno. Le persone del quartiere ogni notte controllano le strade contro gli attacchi della polizia.


Ekin Wan è la nostra resistenza nuda

Avevamo accennato nel post precedente alle torture inflitte ad una combattente kurda da parte delle forze turche.
Malgrado l’immagine del suo corpo straziato sia ormai di pubblico dominio, noi ci rifiutiamo di pubblicarla e preferiamo ricordarla tra le sue montagne e attraverso la voce delle migliaia di donne che, nel Kurdistan turco, stanno insorgendo di fronte all’orrenda doppia profanazione del suo corpo – prima da parte della Turchia e, poi, dal voyeurismo della rete.



“Ekin Wan è la nostra resistenza nuda”. Questo uno degli slogan con cui le donne di Nusaybin (provincia di Mardin) sono scese in strada per esprimere la rabbia contro l’esposizione del corpo nudo e martoriato della guerrigliera Kevser Eltürk (nome di battaglia Ekin Wan) delle YJA Star, uccisa in uno scontro dalle forze di sicurezza turche nel distretto di Varto (provincia di Muş). Dopo averla uccisa, l’hanno completamente spogliata e trascinata per strada legata ad una corda, per poi abbandonarla nella piazza del paese.
Una fotografia del suo corpo nudo e martoriato ha iniziato a circolare sui social media durante il fine settimana, in origine condivisa probabilmente dalla polizia di Varto.
Una delle donne che ha lavato per il funerale il corpo di Ekin straziato, ne ha descritti i segni di tortura, tra cui una profonda ecchimosi sul collo e le gambe e la pelle lacerate. Aveva anche lividi lasciati da una corda stretta intorno al suo collo e usata probabilmente per trascinarla.
In risposta a questa disumana vicenda, i/le guerriglieri/e hanno preso il controllo della città di Varto mentre “la gente armata di guardia in trincea ha detto che questa azione era una rappresaglia per l’uccisione di una guerrigliera, uccisa pochi giorni fa a Varto da un team operativo speciale, il cui corpo nudo è stato messo in mostra dalla stampa”.
Le Giovani donne rivoluzionarie (YDGK-H) hanno rinnovato il loro appello a tutte le donne affinché si uniscano agli sforzi di autodifesa e alla lotta rivoluzionaria in Kurdistan, per vendicare l’uccisione e la profanazione del corpo di Ekin.
“Per anni, non ci siamo vergognate dei nostri corpi. Per anni questo stato ha cercato di spaventarci con stupri, molestie e uccisioni. Questo è il modo in cui cercano di mettere a tacere le donne, prendono le loro case e le distruggono. Di fronte a tutto ciò, continueremo a scavare le nostre trincee e a difenderci contro lo stato coloniale”.
Le militanti di Nuova donna democratica (YDK) in un comunicato scrivono: “Non siamo spaventate. Perché dai villaggi che ha evacuato e dalle donne che ha ucciso in stato di arresto, sappiamo che questo stato è un assassino. Perché dalle donne a cui ha tagliato il seno sotto tortura, dalle donne a cui ha cercato di spezzare la volontà con lo stupro, dalle donne abbandonate alle torture sessuali in stato di arresto e in prigione, sappiamo che questo stato è uno stupratore. Lo sappiamo dalle vostre sporche guerre ingiuste, che se non ci hanno fatto vergognare dei nostri corpi, ci hanno fatte vergognare della nostra umanità. Lo sappiamo da Shengal, da Kobanê. Vediamo molto bene che questa vostra misoginia viene dalle donne che lottano sulle barricate, nelle carceri e sulle montagne. E così noi non abbiamo paura di voi e non ci vergogniamo dei nostri corpi”.
Intanto a Silvan – città della provincia di Diyarbakır, nel Kurdistan turco, che ha dichiarato l’autogoverno dopo Silopi, Cizre, Nusaybin, Yüksekova e Varto – le giovani donne curde sono in prima linea nella resistenza della città e hanno assunto un ruolo-chiave nel tenere la polizia fuori dai quartieri, stando di guardia in trincea e difendendo l’area.
Arîn Amed, che vive nel quartiere Tekel, ha detto:
“Silvan non è sola. Come giovani donne, difenderemo fino alla fine le zone in cui viviamo. Noi non rinunceremo a questa resistenza finché Silvan non sarà libera. In questo momento, tutti i giovani e le giovani di Silvan sono in rivolta”.
Ha poi aggiunto che fino ad ora le giovani di Silvan hanno vissuto sotto il dominio della mentalità patriarcale, ma che “Le combattenti delle YPJ a Kobanê, che hanno combattuto duramente contro la mentalità patriarcale, sono diventate un esempio per tutto il mondo. Noi vogliamo prepararci alla vittoria con la forza e il morale che queste donne ci hanno trasmesso. A questo punto la gente ha bisogno di vedere la propria forza per portare la guerra popolare rivoluzionaria alla vittoria.
Il nostro popolo ha attraversato molto dolore e ha pagato un prezzo alto, ma la vittoria contro questa crudeltà è vicina. Una volta che diventiamo un ‘NOI’, nessuna forza può fermarci”.
Non solo la Turchia soddisfa tutte le esigenze dei militanti di ISIS – come ha testimoniato un emiro catturato dalle YPG a Kobanê lo scorso 25 giugno –  ma il binomio AKP-ISIS, con la sua mentalità maschile dominante, concretizza oggi il volto più feroce del femminicidio, come hanno dichiarato le organizzazioni di donne curde residenti in Europaa proposito della profanazione del corpo di Ekin, aggiungendo che come le YPJ stanno abbattendo il regno barbaro delle bande ISIS, le donne curde rovesceranno la mentalità selvaggia dell’AKP.
La mentalità stupratoria, che si è manifestata contro tutte le donne sulla persona di Ekin Wan, ha iniziato una guerra basata sul femminicidio per abbattere la legittima difesa che le donne kurde hanno intrapreso in un modo che le rende una speranza per le donne in tutto il mondo.
Le donne hanno anche sottolineato che l’AKP e la sua mentalità maschile dominante non potevano accettare la rivoluzione in Rojava, che è in realtà la rivoluzione delle donne, e che la tortura effettuata sul corpo di Ekin non è una coincidenza ma la dimostrazione di questa mentalità.
“Ekin Wan, guerrigliera delle YJA STAR, è il simbolo di autodifesa e rappresenta la resistenza delle donne libere”. Sono in particolare i corpi delle donne ad essere attaccati e presi di mira in tutte le guerre, hanno ricordato le donne curde rammentando quando, negli anni ’90, in Kurdistan le forze di sicurezza turche violentavano, torturavano ed  esponevano nudi i corpi delle donne dopo la loro esecuzione.
Le donne curde in Europa hanno concluso la loro dichiarazione invitando tutte le donne a partecipare con forza a tutte le azioni contro la guerra sporca dell’AKP.



Martin Luther King sostiene il reddito minimo garantito

ricordo di Oliver Sacks



Torino: donna migrante blocca la strada dopo il trasferimento al Cie del marito


Mentre in questi giorni le lotte dei migranti ai confini dell'Europa e le reazioni dei governi europei occupano le cronache dei media, da Torino arriva notizia di una piccola storia di resistenza e opposizione alle forme di oppressione che compongono il cosiddetto sistema dell'"accoglienza" di cui si fa un gran parlare in queste ore.
Dal tardo pomeriggio, infatti, una donna egiziana, assieme ai suoi quattro figli, sta bloccando una delle grosse arterie torinesi, corso Massimo d'Azeglio, dopo che il marito, trovato senza documenti in regola, è stato trasferito al Cie di corso Brunelleschi. La donna si è seduta in mezzo alla carreggiata assieme ai figli e si rifiuta di allontanarsi o spostarsi, nonostante l'arrivo sul posto delle forze dell'ordine, chiedendo il rilascio immediato dell'uomo.
Ma la vicenda che ha portato al fermo del marito e al suo trasferimento al Cie è in questo caso anche emblematica delle quotidiane difficoltà e privazioni dei più basilari diritti e tutele che discendono dall'essere nella condizione di migrante. La donna egiziana, stando a quanto riportato dalle cronache locali, si era infatti rivolta ieri a una stazione dei carabinieri per denunciare un tentativo di stupro nei confronti della figlia maggiore. Di qui i controlli dei militari che hanno portato all'identificazione del marito.
Insomma, alla difficoltà di dover denunciare un fatto di violenza in questo caso si aggiunge anche la paura di ritorsioni e privazioni della libertà nei confronti della propria famiglia, come nel caso dell'uomo ora trasferito nell'incubo del sistema dei Cie. Una vicenda che fa rabbia e che svela i risvolti di un sistema che attribuisce più valore a un pezzo di carta che alla tutela della dignità e della vita umana, che ricaccia nel silenzio soprusi e violenza col ricatto della libertà. Non è d'altronde difficile immaginare che situazioni di questo tipo si creino quotidianamente, non solo in casi come questi ma anche nell'accesso a servizi essenziali come per esempio quelli di assistenza medica.
In attesa di aggiornamenti sulla situazione, esprimiamo piena solidarietà per il coraggioso gesto della donna e per la sua determinazione, che hanno avuto la forza di svelare un pezzo di questo sistema e dei suoi soprusi.
da qui

povero Jamychael, assassinato un giorno dopo l'altro


Ancora una volta, c'è un afroamericano al centro delle cronache giudiziarie statunitensi. Si tratta questa volta di Jamychael Mitchell, 24 anni. Detenuto da 4 mesi e malato di schizofrenia, ha rifiutato cibo e medicine fino a che non è morto di fame. Era in cella per aver rubato una lattina di bibita e due snack, per un valore totale di 5 dollari. 
La morte è avvenuta il 19 agosto scorso, ma il Guardian ne dà notizia solo oggi. E' stata aperta una inchiesta, ma verrà chiusa nel giro di qualche giorno senza risultati. E anche questo episodio tira in ballo le responsabilità della Polizia: perchè nessuno è intervenuto? I detenuti mangiano in una sala comune, le medicine vengono date singolarmente e il paziente deve ingoiarle davanti al medico. Quindi vedevano che non stava mangiando e non stava prendendo le medicine. Perchè non ne è stato disposto il ricovero in infermeria? Inoltre il non mangiare crea una debolezza sempre più evidente: come mai nessuno se ne è accorto? I poliziotti andavano in giro con una benda sugli occhi? Oppure, come sempre, il problema è il fortissimo razzismo che pervade la Polizia statunitense?

E' stata disposta l'autopsia, ma le autorità ritengono per ora che sia deceduto per cause naturali. I familiari pensano invece che sia morto di fame, dopo aver rifiutato cibo e medicine. La zia, l'infermiera Roxanne Adams, ha raccontato che il ragazzo era ridotto pelle e ossa al momento del decesso. Mitchell era stato arrestato a Portsmouth il 22 aprile, lo stesso giorno in cui un altro ragazzo afroamericano, William Chapman, è stato ucciso dalla polizia davanti ad un supermercato Walmart della stessa città.
Mitchell soffriva di schizofrenia e viveva con la madre Sonia. "Non aveva mai fatto male a nessuno, fumava in continuazione e faceva ridere la gente", ha raccontato la zia. Il ragazzo, che aveva precedenti per altri piccoli furti, è stato arrestato per aver rubato una bevanda gassata e due snack. Date le sue condizioni mentali, il giudice aveva ordinato il suo ricovero in un vicino istituto psichiatrico. Ma l'istituto non ha mai trovato un posto libero per lui e il ragazzo è morto in cella il 19 agosto. Ad aggravare il suo stato anche il fatto, denunciato dalla zia, che non prendeva più i farmaci prescritti per la sue condizioni mentali.

sabato 29 agosto 2015

L'esercito più morale del mondo dimostra la sua forza (morale?) contro i bambini con un braccio ingessato

Golia dichiara: "Quei soldati sono miei amici, troppo facile criticare se non ti trovi davanti a un bambino col braccio ingessato".




l'efficiente esercito più morale del mondo, con un coraggio mai visto, e con supremo sprezzo del pericolo, arresta Vittorio Fera, volontario dell'ISM (International Solidarity Movement), per una colpa gravissima: "Vittorio stava filmando il violento attacco delle forze israeliane a un ragazzo palestinese, che veniva aggredito e soffocato da un soldato", dicono all'ISM.

Intervista sulla scuola ad Andrea Degiorgi


QUI si può ascoltare l'intervista.
Andrea ne sa più di un ministro, questo è sicuro, e poi qualsiasi ministro, per chiarezza e onestà intellettuale, perderebbe per K.O. da un confronto con Andrea.
ascoltate per convincervene.

Mattia Fantinati for President

Che fare. Tra nuove schiavitù e sfruttamento intellettuale – Luciano Canfora

Per sce­gliere come agire con­viene par­tire dalla cono­scenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:

a) Sta tor­nando, anche nel cuore di società ric­che, la schia­vitù; secondo una stima della Cgil in tale con­di­zione si tro­vano (ma le stime sono rife­rite a ciò che è visi­bile, non al som­merso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extra­co­mu­ni­tari; il “pro­fitto” se ne giova enormemente.

b) Stret­ta­mente con­nesso è il potere incon­tra­stato dei grandi e meno grandi cen­tri mafiosi equa­mente dif­fusi nel pia­neta. (Con la vit­to­ria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diven­tato un epi­cen­tro mafioso). Le ban­che rici­clano indi­stur­bate il “denaro sporco”, di cui droga, pro­sti­tu­zione, capo­ra­lato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capi­tale finan­zia­rio e mala­vita si è com­piuto. Nella totale pas­si­vità e com­pli­cità dei poteri politici.

c) Il cosid­detto feno­meno migra­to­rio ha carat­tere strut­tu­rale ed epo­cale. Ogni tro­vata mirante a inter­rom­perlo (respin­gi­menti, inter­venti nei luo­ghi di par­tenza) è risi­bile. E’ come voler svuo­tare il mare col mestolo. L’Occidente – fab­bri­canti di armi sem­pre pronti a com­muo­versi, inter­venti impe­riali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disa­stri, una cui con­se­guenza è tale migra­zione di popoli.

d) La muta­zione della Cina in paese iper­ca­pi­ta­li­stico a carat­tere nazio­nal­so­cia­li­sta ha chiuso il ciclo nove­cen­te­sco del “socialismo”.

e) La fine del movi­mento comu­ni­sta ha com­por­tato anche il declino delle socialdemocrazie.

f) Il mec­ca­ni­smo elet­to­rale plu­ri­par­ti­tico (carat­te­ri­stica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò gra­zie a dina­mi­che liber­ti­cide irre­ver­si­bili: delega dei poteri deci­sio­nali a strut­ture tec­ni­che non elet­tive, e per di più mas­sic­cia intro­du­zione di sistemi elet­to­rali di tipo mag­gio­ri­ta­rio. Il de pro­fun­dis è stato il for­male misco­no­sci­mento della volontà espressa dal refe­ren­dum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qua­lun­que legit­ti­ma­zione elet­to­rale quale l’Eurogruppo.

g) Il sog­getto sociale tra­di­zio­nale dei par­titi di sini­stra è, nume­ri­ca­mente, in via di estin­zione. Mi rife­ri­sco all’operaio di fab­brica, o meglio a quella parte che veniva un tempo defi­nita “ope­rai coscienti”. Sono suben­trati per un verso la nuova schia­vitù, per l’altro un gigan­te­sco ceto medio con­dan­nato ad un cre­scente impo­ve­ri­mento, in alcuni paesi appe­san­tito dalle rigi­dità della moneta unica.

h) Una for­ma­zione poli­tica di sini­stra dovrebbe dun­que deci­dere se: (1) sce­gliere di rap­pre­sen­tare i nuovi dise­re­dati, ovvero (2) pun­tare, con qua­lun­que alleato, ad andare al governo a qua­lun­que costo per fare una qua­lun­que poli­tica. Da tempo, la ex-sinistra (in Ita­lia, Fran­cia, Ger­ma­nia, ora anche Gre­cia) ha scelto tale seconda opzione.

i) La sola bat­ta­glia pos­si­bile in que­sta situa­zione è di carat­tere cul­tu­rale, il più pos­si­bile di massa. Descri­vere scien­ti­fi­ca­mente il “capi­tale” del XXI secolo e sma­sche­rare la cosid­detta “demo­cra­zia occi­den­tale”; dif­fon­dere la con­sa­pe­vo­lezza della sua vera natura. I luo­ghi di inter­vento non sono molti. La grande stampa fun­ziona sulla base di una costante cen­sura del pen­siero cri­tico nei con­fronti dell’Occidente. Ma c’è un grande ter­reno di lotta cul­tu­rale, che è la scuola. E’ lì che si può indi­riz­zare una lotta tenace in favore del pen­siero critico.

j) Verrà sol­le­vata la que­stione: ma qual è la classe sociale di cui la sini­stra dovrebbe rap­pre­sen­tare gli inte­ressi? Lo sfrut­ta­mento non è affatto scom­parso, ma è ormai soprat­tutto sfrut­ta­mento del lavoro intel­let­tuale che costi­tui­sce la parte essen­ziale del ciclo pro­dut­tivo. E per­sino ai qua­dri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfrut­tati e che chi li sfrutta è mera­mente parassitario.

k) Nell’epoca del domi­nio mon­diale del capi­tale finan­zia­rio, “il nemico” è quasi invisibile.

Cronaca Nera - Dino Frisullo

(dedicata ad Ali, che non aveva mai visto un gabbiano e neppure il mare)


Ali veniva, poniamo, da Zako.
Portava in tasca un pane di sesamo
comprato in fretta con gli ultimi spiccioli
nel porto a Patrasso
pane caldo profumo di casa
speranza di vita
prima di calarsi nel buio del ventre del camion.
Ali aveva già visto l'Italia, poniamo.
Aveva l'odore dolciastro del porto di Bari
l'Italia
gli piacque il castello svevo dalle mura merlate
le luci gialle della città vecchia
gli scaldarono il cuore
ma il primo italiano che vide
vestiva una divisa
e fu anche l'ultimo.
Respingeteli, disse.
Ali non capì le parole ma lesse lo sguardo
le ginocchia gli tremarono
poi si voltò contro il muro
perchè un uomo non piange.
Ali veniva da Zako, poniamo,
e sapeva già usare il kalashnikov
ma di raffiche ne aveva abbastanza
e di agenti turchi irakeni americani arabi
e di kurdi che ammazzano kurdi
e di paura masticata amara con la fame
e dell'eco delle bombe
Qendàqur come Halàbje
bombardieri turchi come gli aerei irakeni
gli stessi occhi sbarrati contro il cielo che uccide.
Ali, poniamo, aveva una ragazza
rimasta sola
la famiglia fuggita in Germania,
con lei aveva sognato l'Europa
con lei aveva cercato gli agenti turchi e turkmeni e kurdi, maledizione, anche kurdi
per contrattare il passaggio della prima frontiera,
batteva forte il loro cuore al valico di Halìl
divise verdeoliva
mazzi di banconote stinte
di tasca in tasca nel buio
e poi liberi
corrono veloci i minibus da Cizre verso Mardin
ogni mezz'ora un posto di blocco
divise verdeoliva banconote via libera
colonna di autobus veloce
viaggiando solo di notte
tre notti trenta posti di blocco
zona di guerra
da Màrdin ad Adàna
poi veloci fino a Istanbul
e quella notte ad Aksaray
nel più lurido degli alberghi
fra scarafaggi e zanzare e russare di ubriachi
per la prima volta avevano fatto l'amore
e per l'ultima volta.
Sul comodino un vaso di fiori stecchiti
lei ne sfilò uno
glielo regalò con un sorriso
come fosse una rosa di maggio.
Fu all'alba che vennero a prenderli
taxi scassati
gabbiani a stormi contro il cielo grigio del Bosforo
(Ali non aveva mai visto un gabbiano
e neppure il mare)
poi tutti a piedi verso un'altra frontiera
in fila indiana nel fango in silenzio
fino alle ginocchia nell'acqua del Méric
ha la pistola il mafioso
"più in fretta" sussurra,
di là c'è la Grecia l'Europa
è calda la mano di Leyla
si chiamava Leyla, poniamo
era calda la mano di Leyla
prima che scoppiasse sott'acqua la mina
prima che i greci cominciassero a sparare
prima dell'inferno...
Un uomo non piange
ma il cuore di Ali restò a galleggiare
fra i gorghi di melma del Méric
mentre si nascondeva nel canneto
perchè i greci non scherzano
e se ti consegnano ai turchi è la fine
i maledetti verdeoliva che hanno intascato i tuoi soldi
ti fanno sputare sangue
nelle celle di frontiera.
Così in Grecia l'uomo si fa gatto
si fa topo ragno gazzella
nascondendosi di giorno negli anfratti
marciando di notte fino a Salonicco
e poi un passaggio da Salonicco a Patrasso
giovani turisti abbronzati, poniamo,
Ali ha la febbre batte i denti fa pena
rannicchiato sul sedile della Rover
è bella la ragazza straniera
ma la sua Leyla era più bella
più profondi del mare i suoi occhi.
La Rover frena quasi sul molo
c'è un traghetto che sta per partire
di là c'è l'Europa davvero
con gli ultimi soldi paga il biglietto per Bari
Ali il mare non l'aveva mai visto
fa paura di notte il mare
ti chiedi quanto sarà profondo
(erano più profondi i suoi occhi)
ma un uomo non ha mai paura
e il cielo dal mare non è poi diverso
dal cielo dei monti di Zako nelle notti chiare.
Fa più paura la polizia di frontiera
"ez kurd im"
"ma che vuoi, che lingua parli,
rispediteli a Patrasso
ne abbiamo abbastanza di curdi qui in Puglia
non bastavano i cinquecento dell'ultima nave,
chiudeteli nella cabina
che non scendano a terra
sennò chiedono asilo..."
E' triste il cielo dal mare
come il cielo dei monti di Zako nelle notti scure.
E' duro esser kurdi su un molo
sperduti fra il cielo ed il mare
erano in dieci, poniamo,
che quella notte a Patrasso contrattarono in fretta
seicento dollari a testa disse il camionista
non uno di meno
seimila dollari quei dieci corpi
quasi il valore di un carico intero
e il suo amico Huseyn pagò anche per lui
prima di coricarsi abbracciati nel buio
stretto il pane di sesamo in tasca
stretto in mano un fiore secco
in dieci stretti fra le balle di cotone
che ti penetra in gola
negli occhi nel naso
ti toglie il respiro...
E' cronaca nera
MORTI SOFFOCATI SEI CLANDESTINI IN UN TIR
è politica
MILLE CLANDESTINI RESPINTI NEL PORTO DI BARI
è diplomazia
ACCORDO CON LA GRECIA SUI RIMPATRI
è ipocrisia
ROMA CHIEDE COLLABORAZIONE AD ANKARA
è propaganda
INASPRITE LE PENE CONTRO I TRAFFICANTI
è nausea è rabbia è dolore
Sotto le stelle di Zako
mille Ali sognano l'Europa
in Europa sogneranno il ritorno
e nella nebbia di Amburgo, poniamo,
nella gelida nebbia senza stelle
Huseyn bussa a una porta
ha da consegnare una cattiva notizia
un pane di sesamo secco
e un fiore stecchito...

Dino Frisullo, ottobre 2000

da qui o  da qui


Un dubbio sugli zingari e la morte - Ascanio Celestini

Gli zingari! I tremendi Casamonica!  Ce li ho davanti tutti i giorni, li vedo da quando sono nato, stanno nelle stesse strade della borgata nella quale vivo da sempre. I più ricchi girano con macchine eclatanti, i più poveri rovistano nei cassonetti. Una volta morì una zingarella giovane e riempirono una strada di petali di fiori. Siamo andati a vedere la carrozza coi cavalli bianchi. Ci siamo andati in bicicletta, con la Graziella.
C’è da dire che la mia famiglia non va in chiesa. Dio ci interessa quanto noi interessiamo a lui. Cioè poco o niente, ma va bene così. Per Lui la morte è un inizio, per noi soltanto una fine. Punti di vista, punti di vita. Eppure quella strada infiorata aprì un buco nella testa di tanti ragazzini come me, come ero io tanto tempo fa.
Gli zingari ricchi sono trucidi e panzoni, capelloni e strillanti, ma non mi fanno schifo come lo fanno a tanti commentatori sui giornali, nella rete o nelle televisioni. Quelli che si indignano per la loro mafiosità, per la loro panza antiestetica, per i loro soldi che pare che puzzano più di quelli che la panza ce l’hanno ben levigata, ma rubano tanto di più e tanto meglio.
Quei zozzoni zingari non hanno la bomba atomica come gli americani o i cinesi. Non sono padroni del gas come i Russi. Non si inventano genocidi come i nazisti o gli Hutu. La maggior parte delle volte lavorano, spesso  rubacchiano, certe altre si fanno le villette con le colonne di travertino e i leoni di marmo sul cancello. Sono fatti così. Non conoscono Philip Starck e forse pure Ikea gli sembra un po’ poverella nello stile.
Hanno fatto un casìno a Don Bosco, poche centinaia di metri da casa mia.L’hanno fatto con un elicottero e una carrozza che, pare, abbia portato al camposanto pure Totò. E tanti si sono schifati perché è gente che ruba e spaccia, gente che se ne frega delle regole e trasforma un funerale in una manifestazione di piazza.

Devo dirlo? Lo dico: io sono contro di loro. Io rispetto tutte le regole e pago le tasse. Io e tutta la mia famiglia.
Produco energia elettrica che regalo al gestore che me la rivende senza ridarmi i soldi del mio lavoro. Sono legale anche con gli illegali. Mi faccio derubare a rate dallo Stato. Ma questo non è l’oggetto del discorso.
L’oggetto è un altro: perché nessuno si è chiesto perché lo fanno? Perché prendono la morte e la rovesciano in un fatto scandaloso? Nessuno si è chiesto cosa è ancora la morte per noi. Cosa è la morte di mio padre o di mio figlio. Del mio e del vostro. Tutti si sono igienicamente lavati le mani e allontanati da quel casìno.
Forse è l’estate sgomenta nella quale accadono un po’ di cose nascoste sotto il tappeto (leggi che leggeremo tra qualche anno, ma saranno applicate subito) e tante altre senza importanza. Ma qualcuno si è interrogato sul significato della morte?  Qualcuno ha guardato oltre le panze e i capelli di quei ciccioni per chiedersi cosa è la morte per noi senza panza e capelli?

Anche per me è stata una manifestazione trucida, ma dopo il primo sentimento contrastato mi sono ricordato che dietro alla manifestazione colorita ci stava la morte. La morte di un fesso, un criminale, un padre di famiglia, un assassino, un brav’uomo, un pezzente, un riccone paperone, un nulla, un tutto.
E proprio di tutto abbiamo parlato davanti a quel sarcofago scortato dalla musica del Padrino di Coppola. Lo abbiamo fatto senza sapere cosa è il lutto per quelle persone ciccione. Facciamo sempre così. Pensiamo a quello che sta nel nostro cervello credendo che sia il meglio, ma ce ne freghiamo del cervello e della cultura degli altri. Quelli rubano e allora sono cattivi. Noi avveleniamo la nostra vita sul pianeta, ma lo facciamo mentre andiamo in palestra. I nostri glutei sono solidi come scolpiti da Canova, loro si mangiano il grasso fritto e sono trogloditi.
Ci sentiamo forti perché le altre culture ci sembrano stupide. E quando le vediamo sfilare in quel modo storpio e riccastro ci sentiamo ancora più forti.Tutti si schierano contro di loro, la quasi-destra e la quasi-sinistra, il partito-contro-tutti e il partito-con-tutti. E parliamo, parliamo, e scriviamo e scriviamo. Discorriamo di tutto, tranne che della morte.
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venerdì 28 agosto 2015

Europeana – Patrik Ourednik

una corsa nel un secolo in 150 pagine, fissando alcuni fatti grandi e famosi e tanti “piccoli” e importanti lo stesso.
storia che diventa letteratura, una lettura davvero interessante e diversa, per chi ama la storia e la letteratura, dopo piaceranno di più entrambe - franz




…Tanto per cominciare, c'è tutto. Il Novecento, intendo. Gli eventi chiave, cenni di storia sociale e scientifica, le parole d'ordine, gli anni imprescindibili, i nomi che non si possono non citare. Ma questo tutto è narrato mediante un flusso di parole compatto che non ha nulla a che spartire con la saggistica classica. Gli spazi tra paragrafo e paragrafo sembrano i respiri di un monologo teatrale. Non esistono capitoli. Gli unici titoletti si trovano a margine, ma non assolvono al compito che la saggistica tradizionale assegna loro, quello cioè di indicare di cosa si sta parlando in quel brano. Al contrario, per quanto riprendano degli effettivi tag di testo, hanno piuttosto una funzione evocativa e graffiante. Quasi a sottolineare come due parole estrapolate dal contesto possano significare altro, anzi: qualsiasi (altra) cosa. E il sarcasmo sornione dell'autore non si ferma qua, dal momento che l'indice si genera in automatico listando i titoletti a margine con tanto di pagina di riferimento. Qualche esempio? I soldati si sparavano a palombella, I cavalli erano morti, Dio esiste, Ristabilire l'istanza trascendentale, Lo sguardo torvo…

Questa “breve storia del XX secolo” (come recita il sottotitolo) è raccontata da Ouředník attraverso il filtro straniante di un osservatore “esterno” che vede gli avvenimenti, li descrive, ma sembra non riconoscerli: il suo sguardo è infatti attratto più dalla combinazione di luoghi comune e aneddoti che dall’importanza storica degli avvenimenti stessi. È come se in un batter d’occhio la complessa storia politica, economica, sociale e culturale del XX secolo fosse stata trasportata sulle pagine della cronaca di un giornale di terz’ordine. E improvvisamente la nostra memoria entra in un corto circuito senza uscita: riconosciamo gli episodi narrati, ci stupiamo della loro tragica stupidità, e paradossalmente solo allora ne percepiamo fino in fondo la mostruosità. Attraverso questo specchio deformato guerra, positivismo, corruzione dei costumi, scoperta dei contraccettivi e del reggiseno, sette religiose, mode, psicoanalisi, eugenetica, genocidi, camere a gas, scientology, la bambola Barbie, nazismo, comunismo, e i mille altri slogan del XX secolo che ancora risuonano nelle nostre orecchie, sono resi ancora più folli dall’apparenza “storica” del romanzo (ulteriormente accentuata dai titoletti a margine dei paragrafi, che avvicinano anche tipograficamente il libro a un manuale liceale, se non addirittura a una cronaca medievale)…

Ciò che mi interessa nella scrittura – in quella degli altri come nella mia – è quello che di solito viene definito «la verità di un’epoca». Il termine è senz’altro estremamente vago perché in ogni epoca esistono e coesistono verità diverse, verità molteplici. Il gioco consiste allora nel tentativo di raccogliere, di abbracciare questa moltitudine, questa pluralità di cose. Un autore dispone di diversi mezzi, il più consueto dei quali è il confronto dei destini, delle vite umane nell’ottica della microstoria.
Per quanto mi riguarda, tento, almeno in alcuni dei miei libri, di applicare un principio un po’ diverso, a partire dalla premessa che è possibile prendere come sinonimo della «verità di un’epoca» la lingua di quell’epoca, il che significa appropriarsi di un certo numero di tic di linguaggio, di stereotipi e di luoghi comuni per fare in modo che agiscano e che si confrontino alla stessa stregua dei personaggi di un racconto tradizionale”. (P. Ourednik)
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Noe, esautorato dal comando il capitano Ultimo. Coordinava indagini su mafia, politica e coop - Pino Corrias

La comunicazione del generale Del Sette all’ufficiale che arrestò Riina e coordinava le inchieste del Noe: niente più funzioni di polizia giudiziaria. Salta il 4 agosto dopo l'intercettazione Adinolfi (Gdf)-Renzi pubblicata il 10 luglio

Astutamente nascosta nelle pieghe più calde dell’estate una lettera del Comando generale dei carabinieri datata 4 agosto spazza via il colonnello Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo, dalla guida operativa dei suoi duecento uomini del Noe, addestrati a perseguire reati ambientali, ma anche straordinari segugi capaci di scovare tangenti, abusi, traffici di denari e di influenza. Uomini che stanno nel cuore delle più clamorose inchieste di questi ultimi anni sull’eterna sciagura italiana, la corruzione.
La lettera che liquida Ultimo è perentoria. La firma il generale Tullio Del Sette, il numero uno dell’Arma. Stabilisce che da metà agosto il colonnello De Caprio non svolgerà più funzioni di polizia giudiziaria, manterrà il grado di vicecomandante del Noe, ma senza compiti operativi. Motivo? Non specificato, normale avvicendamento. Anzi: “Cambiamento strategico nell’organizzazione dei reparti”. Cioè? Frazionare quello che fino ad ora era unificato: il comando delle operazioni.
Curiosa l’urgenza. Curioso il metodo. Curioso il momento, vista la quantità di scandali e corruzioni che il persino presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito “il germe distruttivo della società civile”.
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Scontata la reazione di De Caprio che in data 18 agosto, prende commiato dai suoi reparti con una lettera avvelenata contro i “servi sciocchi” che abusando “delle attribuzioni conferite” prevaricano “e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere”. Lettera destinata non a chiudere il caso, ma a spalancarlo in pubblico.
Eventualità non nuova nella storia dell’ex capitano Ultimo, quasi mai in sintonia con le alte gerarchie dell’Arma che non lo hanno mai amato. Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale. Di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto. Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori. Per non dire di quando provarono a metterlo al caldo tra i banchi della Scuola ufficiali, a privarlo della scorta – anno 2009 – riassegnatagli dopo la rivolta dei suoi uomini che si erano raddoppiati i turni per proteggerlo.
Ripescato dal ministero dell’Ambiente, messo a capo del Noe, Sergio De Caprio ha trasformato i Nuclei operativi ecologici a sua immagine, macinando indagini, rivelazioni. Oltre a molti e sorprendenti arresti, da quelli di Finmeccanica ai più recenti per gli appalti de L’Aquila.
L’elenco è lungo come un film. Si comincia dai conti di Francesco Belsito, quello degli investimenti della Lega Nord in Tanzania e dei diamanti, il tesoriere del Carroccio che a forza di dissipare milioni di euro come spiccioli, ha liquidato l’intero cerchio magico di Umberto Bossi. Poi Finmeccanica. Con il clamoroso arresto di Giuseppe Orsi, l’amministratore delegato del gruppo e di Bruno Spagnolini di Agusta, indagati per una tangente di 51 milioni di euro pagata a politici indiani per una commessa di 12 elicotteri. E ancora. L’arresto di Luigi Bisignani indagato per i suoi traffici di informazioni segrete e appalti per la P4, coinvolti gli gnomi della finanza e della politica, spioni, e quel capolavoro di Alfonso Papa, deputato Pdl, che aveva un debole per i Rolex rubati.
Poi le ore di confessioni di Ettore Gotti Tedeschi il potente banchiere dello Ior, interrogato sulle operazioni più riservate della banca vaticana dietro le quali i magistrati ipotizzavano il reato di riciclaggio. Le indagini sul tesoro di Massimo Ciancimino seguito fino in Romania; quelle su una banda di narcotrafficanti a Pescara, e persino quelle recentissime su Roberto Maroni, il presidente di Regione Lombardia, accusato di abuso di ufficio per aver fatto assumere due sue collaboratrici grazie a un concorso appositamente truccato. Per finire con le inchieste sulla Cpl Concordia, la ricca cooperativa rossa che incassava appalti in mezza Italia, distribuiva consulenze, teneva in conto spese il sindaco pd di Ischia, Giosi Ferrandino, e per sovrappiù comprava vino e libri da un amico speciale, l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Inchieste in cui compaiono anche due sensibilissime intercettazioni, tutte pubblicate in esclusiva dal Fatto lo scorso 10 luglio.
La prima – 11 gennaio 2014 – è quella tra Renzi e il generale della Gdf Adinolfi, nella quali l’allora soltanto leader del Pd svelava l’intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta per spodestarlo da Palazzo Chigi. La seconda – 5 febbraio 2014 – è quella relativa a un pranzo tra lo stesso Adinolfi, Nardella (allora vicesindaco di Firenze), Maurizio Casasco (presidente dei medici sportivi) eVincenzo Fortunato (il superburocrate già capo di gabinetto del ministero dell’economia) in cui si faceva riferimento a ricatti attorno al presidente Napolitano per i presunti “altarini” del figlio Giulio. Tutto vanificato ora per il “cambiamento strategico nell’organizzazione dei reparti”. Motivazione d’alta sintassi burocratica che a stento coprirà gli applausi della variopinta folla degli indagati (di destra, di centro, di sinistra) e la loro gratitudine per questa inaspettata via d’uscita che riapre le loro carriere, mentre chiude quella di Sergio De Caprio.
Eventualità non del tutto scontata, visto il malumore che in queste ore serpeggia dentro l’Arma, e vista la reazione (furente e non del tutto silenziosa) dell’interessato che trapela dalla lettera inviata ai suoi uomini, una dichiarazione di guerra, travestita da addio.
Da il Fatto Quotidiano del 21 agosto 2015
da qui

Rabbia senza fine - Saverio Tommasi

Un cazzo di camion di merda sotto un sole diventato stronzo per aver picchiato bastardo, lamiere senz’aria, portelloni schifosi sigillati vaffanculo.
Il cazzo di camion parcheggiato sulla destra di una strada stramaledetta e puttana dove tutti passano e loro ci sono rimasti, lì chiusi in quaranta, morti soffocati sperando di lasciare la merda e lo schifo nel loro Paese e trovando la morte e lo schifo in un altro Paese.
Il cazzo di camion era parcheggiato in una piazzola dove ci si ferma a pisciare, cagare e scambio di coppia, e loro sono morti senza scambiarsi le coppie ma cagandosi addosso come succede quando uno muore, con il conducente che è scappato perché durante il viaggio non ha sentito più i rumori della gente che moriva, le parolacce di chi soffocava in una camera a gas senza zyklon b, perché non è Auschwitz anche se Auschwitz è intorno a noi.
Quello che vedete nella foto è un camion normale e non è colpa sua, anche se io me la rifaccio con lui, stronzo e bastardo di un camion. Ma lo dico al camion per non farmi querelare da quelli che ho in mente quando mi rivolgo al camion, ma voi pensate che invece lo dico proprio a loro e li vedo uno per uno e il camion non c’entra nulla. Quello che fa lo show all’Europarlamento. Quello che il suo nome ha il nome di una legge sull’immigrazione. Quelli che su facebook «li caricano apposta già morti nelle navi per impietosire i buonisti». Quelli che «ma dove li mettiamo tutti?».
Io non lo so dove cazzo li mettiamo, tutti, ma quella è la seconda domanda. Stronzisti maledetti. La prima è evitare il vostro Auschwitz, ora.

martedì 25 agosto 2015

In memoria - Giuseppe Ungaretti (ricordo di Gianni)


Locvizza il 30 settembre 1916

Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.



leggendo questa notizia (la pena di morte alla roulette inferta da uno dei tanti ubriachi che anziché coricarsi o ammazzarsi prendono la macchina e poi "tragica fatalità", dicono) mi è venuta in mente questa poesia.

Gianni me lo ricordo da bambino, i nostri genitori erano entrambi poliziotti, lo vedevo sempre a passeggio col padre, a ritmo sostenuto.
qui un bel ricordo del "suo" regista.