giovedì 30 novembre 2017

Il ritorno di Belluscone - Alessandro Leogrande


(L’ultimo editoriale di Alessandro Leogrande)

Quando nel 2014, dopo anni di gestazione, uscì BellusconeUna storia siciliana di Franco Maresco, un film sommamente inattuale su quella che potremmo definire la rottura antropologica berlusconiana avvenuta in Sicilia e in Italia, una rottura antropologica che attraversa – anche se in modi diversi – il sottoproletariato della Vucciria o delle feste di borgate in cui impazzano i neomelodici tanto quanto la borghesia di viale della Libertà, in molti dissero che si trattava di un film sul passato. Poco più che un esercizio di archeologia, dal momento che Berlusconi era già politicamente finito nel 2011, fuori dal Senato dal 2013, e niente più che un rudere nell’Italia del renzismo trionfante. “Chi si direbbe oggi berlusconiano?”, chiedevano i critici di Maresco e – su altro versante – buona parte dei nostri politici, saliti sul carro del nuovo vincitore o rimasti al cospetto dei suoi bordi.
E invece Maresco aveva ragione e loro torto, perché, in un paese come l’Italia, può capire davvero le sue mutazioni politiche, anche da una posizione radicalmente impolitica, solo chi ne fa antropologia. Chi la riduce a cronaca, a una successione di fatti slegati e messi insieme, nel solito eterno presente che gravita all’interno dei palazzi romani, non riesce più a interpretarla.
Maresco aveva ragione. È stato impossibile non pensarlo, ad esempio, ascoltando una trasmissione di Radio24 sul dopo-voto delle regionali siciliane vinte dal centrodestra raccolto intorno a Musumeci, una trasmissione a microfono aperto in cui molti ascoltatori, nello spazio di pochi minuti, hanno chiamato o scritto in onda per dire: “Io ho votato a Berlusconi. Ho votato a Belluscone”. Musumeci, e le alchimie post-elettorali, erano un semplice dettaglio.
Il voto siciliano (così come quello del microcosmo di Ostia) ha il merito di rivelare in anticipo, e in maniera ancora più estremizzata, ciò che accadrà alle prossime elezioni politiche. Tuttavia, prima di parlare del ritorno di Berlusconi, o del semplice fatto che il carattere berlusconiano non si era mai estinto, bensì si è solo trasformato, occorre fare alcune premesse.
Questa legislatura, quelle delle larghe intese, dell’ingresso del Movimento cinque stelle nelle istituzioni, dell’ascesa e caduta di Renzi, non ha fatto altro che aggravare il distacco tra una società incarognita e ingrigita e la debolezza della politica. Il primo dato da considerare è che la metà degli elettori non va a votare, mentre per l’altra metà che va a votare il primo partito è il Movimento cinque stelle, votato ancora oggi innanzitutto perché è percepito come il partito anti-casta. Quando sarà percepito come usurato anche il M5s, quel voto di protesta prenderà direttamente la strada dell’estrema destra (come avvenuto a Ostia) perché percepita come unica forza anti-sistema – e ancora più anti-sistema, proprio perché apertamente xenofoba e razzista.
L’altra premessa riguarda l’irrilevanza a cui si è ormai condannato il Partito democratico. O meglio, l’entourage renziano. Renzi ha perso il referendum del 4 dicembre 2016 per almeno tre motivi. I primi due di carattere sociologico: il suo linguaggio è stato percepito come distante anni luce in tutte le regioni del Sud Italia, e altrettanto distante dall’elettorato giovanile. Il terzo di natura politica: si è dimostrato incapace di andare al di là della semplicistica idea dell’autosufficienza della propria cerchia ristretta o di un partito sempre più ridimensionato, da controllare da cima a fondo. Quando ha capito che avrebbe dovuto stringere altre alleanze, era ormai troppo tardi: la possibilità di un progetto politico più ampio era già evaporata. Così si sono create le condizioni per il ritorno di Berlusconi. O quanto meno, perché le due forze in grado di contendersi la vittoria siano la destra e i Cinque stelle.
Ma anche qui, sulla scorta del risultato siciliano, occorre fare almeno altre due precisazioni.
La prima riguarda la natura di questo berlusconismo senescente. Berlusconi probabilmente riuscirà a vincere le elezioni esattamente come nel 1994, nel 2001 e nel 2008, mettendo cioè insieme pezzi di centro e di destra talmente diversi tra loro da rendere poi difficile l’elaborazione di una comune azione di governo. Sentire parlare di Salvini al Ministero dell’interno, fa tremare i polsi per le conseguenze che può avere sulla gestione del pacchetto immigrazione, del Mediterraneo, dei centri per i rifugiati, ma in fondo Berlusconi non sta facendo altro che riproporre un meccanismo noto: tenere la presidenza del consiglio per Forza Italia e dare il ministero dell’interno alla Lega.
A essere cambiato non è lo schema, ma la natura del leghismo e del berlusconismo rispetto a vent’anni fa. È come se entrambi avessero perso gli elementi propulsivi di cui comunque si erano nutriti (la rivoluzione televisiva e la politica-spettacolo da una parte; l’autonomismo locale dall’altra) per trincerarsi nell’alveo più conservatore, chiuso, rancoroso del proprio progetto politico: la destra che insegue il sempiterno ventre molle del paese da una parte; il lepenismo anti-stranieri dall’altro. In questo, il berlusconismo che ritorna privo di sogni, ma carico di paure da agitare, riesce a essere ancora una volta specchio fedele del volto più profondo del paese. Il punto è che anche quel volto è cambiato, ed è molto più incarognito, impaurito, chiuso in se stesso più di due decenni fa.
Tuttavia, anche qualora il centrodestra vincesse, con il nuovo sistema elettorale sarà costretto a ulteriori alleanze. E a tali alleanze sarebbero costretti anche gli altri contendenti (Cinque stelle o Centrosinistra), qualora a vincere fossero loro.
Ciò ci dice che la legislatura sarà subito posta davanti a un aut aut: o un nuovo scioglimento, o la creazione di ancora più deboli e sfilacciate larghe intese che non faranno altro che allargare lo iato. Insomma, quello che si delinea – in modo ancora più radicale rispetto all’ultimo decennio – è un crollo del sistema, davanti al quale è sempre più difficile intravedere possibili argini.
Fuori dalla cronaca politica, il crollo era pienamente pronosticabile se solo si fosse spostata l’analisi sul piano culturale. Siamo ormai arrivati al giro di boa dell’estinzione delle culture politiche e post-politiche che avevano fatto la prima e la seconda repubblica. Questo vuoto è stato in parte riempito (con esiti nefasti) dal berlusconismo, in parte da una vera e propria marmellata della comunicazione politica quotidiana da cui è stata bandita ogni forma di pensiero a lungo raggio. Ciò non è accaduto solo in Italia, ovviamente. Ma basta fare un giro in Europa, per accorgersi di come in Italia sia più grave che altrove. Facciamo un esempio: è davvero ipotizzabile che ci possa essere nei prossimi mesi un serio dibattito su cosa l’Italia debba fare o non fare nel Mediterraneo o in Libia? No, non ci sarà niente del genere.
E allora non è poi così irrealistico pensare che la maschera di Berlusconi torni ancora una volta a coprire il vuoto. Ora è facile ipotizzarlo. Era più difficile guardare nelle viscere dell’Italia tre anni fa, quando Franco Maresco l’ha fatto in totale solitudine.
da qui

Gaza, Tel-Aviv, Gaza

mercoledì 29 novembre 2017

My Extraordinary Homeland - MC Gaza - Valerio Nicolosi


conchiglia di morte

Amnesty International ha chiesto a Nigeria, Regno Unito e Olanda di aprire indagini sul ruolo avuto dal gigante petrolifero anglo-olandese Shell in una serie di orribili crimini commessi dal governo militare nigeriano nella regione petrolifera dell’Ogoniland negli anni Novanta.

La richiesta è stata fatta da Amnesty International in occasione del lancio di un suo rapporto che esamina migliaia di pagine di documenti interni della Shell, dichiarazioni di testimoni e denunce presentate, all’epoca dei fatti, dalla stessa organizzazione per i diritti umani.

La campagna del governo militare nigeriano per ridurre al silenzio le proteste degli ogoni contro l’inquinamento prodotto dalla Shell causò gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, molte delle quali costituiscono anche precise fattispecie di reato penale.

“Le prove che abbiamo esaminato mostrano che la Shell incoraggiò ripetutamente i militari nigeriani ad affrontare le proteste locali, pur sapendo l’orrore che questo avrebbe procurato: uccisioni illegali, stupri, torture e villaggi dati alle fiamme”, ha dichiarato Audrey Gaughran, direttrice del programma Temi globali di Amnesty International.

“In questa brutale repressione la Shell arrivò persino a fornire ai militari sostegno materiale, come i mezzi di trasporto, e in almeno un caso pagò un comandante militare noto per aver violato i diritti umani. Il fatto che la compagnia petrolifera non sia mai stata chiamata a risponderne è un oltraggio”, ha aggiunto Gaughran.

“Non c’è dubbio che la Shell abbia giocato un ruolo chiave negli eventi che devastarono l’Ogoniland negli anni Novanta. Crediamo che vi siano ragioni per aprire indagini penali. Presentare l’enorme quantità di prove raccolte è stato il primo passo per portare la Shell di fronte alla giustizia. Ora stiamo preparando una denuncia penale da inoltrare alle autorità competenti”, ha spiegato Gaughran.

La campagna del governo nigeriano nell’Ogoniland culminò nell’impiccagione, 22 anni fa, di nove leader ogoni tra cui Ken Saro-Wiwa, lo scrittore e attivista che guidava le proteste. Le esecuzioni, al termine di un processo clamorosamente irregolare, provocarono uno scandalo internazionale. Nel giugno 2017 le vedove di quattro degli impiccati hanno denunciato la Shell alla giustizia olandese, accusando la compagnia petrolifera di complicità nella loro morte.

Un individuo o una compagnia possono essere chiamati a rispondere sul piano penale per un reato che abbiano incoraggiato, favorito, facilitato o esacerbato, pur non essendone stati gli autori materiali. Ad esempio, può comportare una responsabilità penale il fatto di essere consapevoli che la propria condotta o un rapporto di stretta vicinanza con gli autori materiali possano contribuire a un reato. Il nuovo rapporto di Amnesty International, intitolato “Un’impresa criminale?” afferma che la Shell è stata coinvolta con queste modalità nei reati commessi nell’Ogoniland negli anni Novanta.

In quel periodo la Shell era la più importante compagnia petrolifera attiva in Nigeria. Durante la crisi dell’Ogoniland, la Shell e il governo nigeriano operavano come partner in affari e s’incontravano regolarmente per discutere come proteggere i loro interessi.

Memorandum interni e appunti relativi agli incontri mostrano come la Shell abbia fatto pressioni su alti funzionari del governo per ottenere appoggio militare, anche dopo che le forze di sicurezza avevano compiuto uccisioni di massa di dimostranti. Le stesse fonti confermano che la Shell fornì assistenza logistica e finanziaria alle forze armate o alla polizia nigeriana, pur essendo a conoscenza che esse erano coinvolte in assalti mortali contro civili inermi.

La Shell ha sempre negato di essere stata coinvolta in violazioni dei diritti umani ma non c’è mai stata un’indagine sulle accuse nei suoi confronti.

La Shell sapeva
Le proteste contro la devastazione dell’Ogoniland causata dalle fuoriuscite di petrolio dagli impianti della Shell erano guidate dal Movimento per la sopravvivenza del popolo ogoni (Mosop).

Nel gennaio 1993, dopo che il Mosop aveva dichiarato che la Shell non era più benvenuta nella regione, la compagnia sospese temporaneamente le attività adducendo motivi di sicurezza.

Secondo i documenti interni analizzati da Amnesty International, mentre la Shell pubblicamente cercava di minimizzare i danni causati all’ambiente, suoi alti dirigenti riconoscevano che le proteste del Mosop erano legittime ed erano fortemente preoccupati per le cattive condizioni degli oleodotti.

Il 29 ottobre 1990 la Shell chiese a un reparto speciale paramilitare della polizia, chiamato Polizia mobile, “protezione per la sicurezza” dei suoi impianti nel villaggio di Umuechem, dove erano in corso proteste pacifiche. Nel giro di due giorni, la Polizia mobile attaccò il villaggio con fucili e granate, uccidendo almeno 80 persone e dando fuoco a 595 abitazioni. Molti dei corpi vennero gettati in un fiume vicino.

Almeno da quel momento in poi, i dirigenti della Shell sarebbero stati consapevoli dei rischi associati alle richieste d’intervento delle forze di sicurezza. Ciò nonostante, la Shell continuò a invocarlo.

Ad esempio nel 1993, poco dopo aver lasciato l’Ogoniland, la Shell chiese ripetutamente al governo nigeriano di dispiegare l’esercito nella regione per proteggere un nuovo oleodotto che era in corso di realizzazione da parte di un’azienda appaltatrice. Il risultato furono 11 morti il 30 aprile nel villaggio di Biara e un morto il 4 maggio nel villaggio di Nonwa.

Meno di una settimana dopo l’incursione nel villaggio di Nonwa, funzionari della Shell ebbero una serie di incontri con alti funzionari del governo e della sicurezza della Nigeria.

Gli appunti di questi incontri mostrano che, invece di esprimere preoccupazione per l’uccisione di dimostranti inermi, la Shell fece pressioni per poter tornare a operare nell’Ogoniland offrendo in cambio aiuto “logistico”.

Sostegno finanziario
La Shell offrì anche sostegno finanziario. Un suo documento interno mostra che il 3 marzo 1994 la Shell versò oltre 900 dollari all’Istf, un’unità speciale creata per “ripristinare l’ordine” nell’Ogoniland. Solo 10 giorni prima il comandante di quell’unità aveva ordinato di aprire il fuoco contro una manifestazione di fronte al quartier generale della Shell di Port Harcourt. Il documento spiega che quel pagamento era “un segno di gratitudine e di incentivo per una futura attitudine positiva [verso la Shell]”.

“In un certo numero di occasioni, le richieste fatte dalla Shell al governo nigeriano affinché contribuisse ad affrontare quella che la compagnia chiamava ‘la questione degli ogoni’ vennero seguite da una nuova ondata di violazioni dei diritti umani nell’Ogoniland. È difficile non vedere il rapporto causale o immaginare che la Shell non sapesse come le sue richieste in quel periodo sarebbero state interpretate”, ha commentato Gaughran.

“In alcuni casi la Shell ebbe un ruolo più diretto nei bagni di sangue, ad esempio trasportando sui suoi mezzi le forze armate nei luoghi ove erano in corso proteste, persino quando divenne chiaro quali sarebbero state le conseguenze di tale comportamento. Questo equivale chiaramente a rendere possibili o facilitare i crimini orribili che ne seguirono”, ha aggiunto Gaughran.

Indicare le comunità delle proteste
Il 13 dicembre 1993, poco dopo il colpo di stato che aveva portato al potere il generale Sani Abacha, la Shell scrisse al nuovo amministratore militare dello Stato dei Fiumi, facendo i nomi delle comunità in cui erano in corso le proteste contro la compagnia e richiedendo assistenza.

Un mese dopo, nel gennaio 1994, il governo istituì l’Istf. Nel corso dell’anno la violenza contro gli ogoni raggiunse picchi terrificanti e l’Istf si rese responsabile di raid nei villaggi ogoni, arresti, stupri, torture e uccisioni.

Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato il 24 giugno 1994, in quel periodo vennero attaccati oltre 30 villaggi e “più di 50 membri del gruppo etnico ogoni furono vittime di esecuzioni extragiudiziali”. Il comandante dell’Istf si vantò in televisione di queste operazioni, che ebbero dunque una notevole risonanza. Nel luglio dello stesso anno l’ambasciatore olandese fece sapere alla Shell che l’esercito aveva ucciso circa 800 ogoni.

Ken Saro-Wiwa nel mirino
I documenti interni mostrano che nel 1994-95, proprio al culmine della crisi degli ogoni, l’allora presidente della Shell in Nigeria, Brian Anderson, ebbe almeno tre incontri col generale Sani Abacha. Il 30 aprile 1994 Anderson sollevò “il problema degli ogoni e di Ken Saro-Wiwa”, descrivendo i riflessi economici derivanti alla compagnia dalle attività portate avanti dal Mosop.

Ken Saro-Wiwa era già nel mirino del governo e, parlando di lui nel corso di quell’incontro, Anderson incoraggiò irresponsabilmente un’azione contro di lui. Anderson riferì di essere uscito da quell’incontro con la sensazione che Abacha “[sarebbe intervenuto] o con l’esercito o con la polizia”.

Infatti, nel giro di un mese Ken Saro-Wiwa e altri leader del Mosop vennero arrestati e accusati, senza alcuna prova, di partecipazione all’omicidio di quattro noti leader tradizionali. Vennero posti in isolamento e torturati, per poi essere sottoposti a un processo-farsa e impiccati nel novembre 1995.

I documenti analizzati da Amnesty International mostrano che la Shell sapeva che sarebbe stato assai probabile che Ken Saro-Wiwa venisse giudicato colpevole e messo a morte. Tuttavia, continuò a discutere col governo su come affrontare “la questione degli ogoni”. È davvero difficile immaginare che la Shell non abbia incoraggiato, e persino condiviso, l’azione del governo contro Ken Saro-Wiwa e gli altri leader ogoni.

Amnesty International chiede che le indagini siano avviate nelle tre giurisdizioni competenti: in Nigeria, dove si verificarono i reati, e in Gran Bretagna e Olanda, dove la Shell ha sede.

“Nelle sue parole finali di fronte al tribunale che lo aveva condannato a morte, Ken Saro-Wiwa ammonì che un giorno sarebbe stato il turno della Shell a essere processata. Vogliamo che ciò accada”, ha annunciato Gaughran.

“Giustizia dev’essere fatta: per Ken Saro-Wiwa e per le migliaia di altre persone le cui vite sono state rovinate dalla distruzione dell’Ogoniland da parte della Shell”, ha concluso Gaughran.

Ulteriori informazioni
I documenti interni della compagnia – tra cui fax, lettere ed e-mail tra i suoi vari uffici – evidenziano che le responsabilità per l’operato della Shell durante la crisi degli ogoni non riguardarono solo il personale presente in Nigeria e che in ogni momento i vertici della Shell all’Aja e a Londra erano pienamente a conoscenza di quanto stesse accadendo nel paese africano.

Un memorandum fa riferimento all’approvazione da parte dei vertici di una dettagliata strategia elaborata nel dicembre 1994 dalla Shell Nigeria su come rispondere alle critiche dopo le proteste degli ogoni. Nel marzo 1995 i vertici della Shell di Londra ebbero un incontro con un rappresentante dell’esercito nigeriano, concordando di “vedersi periodicamente” per scambiare informazioni.

Amnesty International ha chiesto alla Royal Dutch Shell e alla Shell Nigeria di commentare le sue conclusioni. Questa è la risposta della Shell Nigeria:
“Le denunce citate nella vostra lettera sono false e prive di merito. [La Shell Nigeria] non ha colluso con le autorità militari per sopprimere le proteste delle comunità e non ha in alcun modo incoraggiato o invocato l’uso di qualsivoglia atto di violenza in Nigeria. La compagnia ritiene che il dialogo sia il mezzo migliore per risolvere le dispute. Abbiamo sempre respinto tali denunce, nel modo più netto possibile”.

FINE DEL COMUNICATO                                                                        
Roma, 28 novembre 2017

Il rapporto “Un’impresa criminale?” è disponibile online all’indirizzo:
https://www.amnesty.org/en/documents/AFR44/7393/2017/en/  

Giurisdizione italiana e respingimenti collettivi in acque internazionali - Fulvio Vassallo Paleologo


1.No, qui non parleremo di squali che divorano naufraghi, e di squali dell’informazione che contribuiscono ad accrescere l’indifferenza degli italiani.Magari cerchiamo di comprendere come si continui a morire in mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre le ONG sono state allontanate per la maggior parte e il numero delle persone che riescono a raggiungere le nostre coste è in sensibile calo. Appare ormai evidente come gli accordi con le autorità di Tripoli conclusi il 2 febbraio scorso,  e poi ratificati dalla Conferenza de La Valletta a Malta il giorno successivo, abbiano avuto l’effetto di consentire alla Guardia costiera tripolina di estendere la sua area di intervento alle acque internazionali, con un ripristino unilaterale della zona SAR ( ricerca e salvataggio) che in passato spettava allo stato libico, e con una serie impressionante di interventi di soccorso, sovente costellati di “incidenti” e vittime, con operazioni che in realtà si traducevano nella riconduzione dei migranti nei porti libici della Tripolitania. Dove i “naufraghi”venivano accolti da uomini armati, ma anche da uno schieramento di operatori tra i quali spiccavano le uniformi dell’OIM, per essere successivamente internati nei centri di detenzione, in attesa di una loro espulsione dalla Libia. Rimpatri volontari ma anche espulsioni vere e proprie. Magari verso il Niger verso il quale si convogliavano ingenti risorse europee al fine di favorire le politiche di deportazione. Anche queste sostenute dall’Italia, nel quadro del Processo di Khartoum.
Dopo la condanna subita dall’Italia con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi Jamaa del 23 febbraio 2012 ( per i respingimenti eseguiti il 6/7 maggio 2009 dalla Guardia di finanza, con l’unità Bovienzo che nel porto di Tripoli riconsegnava alla polizia libica decine di migranti soccorsi in acque internazionali), i diversi governi italiani, con la sola eccezione del governo Letta e dell’operazione Mare Nostrum nel 2014, hanno costantemente tentato di eludere il divieti stabiliti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( in particolare dagli articoli 3 e 13 e dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla stessa CEDU, concernente il divieto di respingimenti collettivi). Nel 2010 si era trovata un intesa con le autorità di Tripoli aventi ad oggetto il trasbordo in acque internazionale dei migranti soccorsi  da unità militari italiane e riconsegnati alle motovedette nel frattempo fornite ai libici. Più di recente questi tentativi di elusione si sono concretizzati con gli accordi contenuti nel Memorandum d’intesa  del 2 febbraio 2017, che seguono a precedenti intese del 2012 e del 2016, rivolti ad esternalizzare il controllo delle acque internazionali, che i libici non hanno mai presidiato in corrispondenza alla zona SAR che sulla carta veniva indicata di loro competenza .
Gli accordi firmati tra Gentiloni e Serraj quest’anno delegano alla Guardia costiera libica, chiamata ad intervenire sulla base di un più stretto coordinamento operativo stabilito da un comitato misto italo-libico, una buona parte degli interventi di soccorso in acque internazionali, che lo scorso anno venivano effettuati dalle navi delle ONG, sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana. Per raggiungere questo risultato si è dovuto prima allontanare le navi umanitarie e  dividere il campo delle ONG, con  la imposizione di un codice di condotta predisposto dal ministero dell’interno. Si è poi portato avanti un lavoro di criminalizzazione degli operatori della solidarietà, che si è concretato in furiose campagne giornalistiche, ancora di recente riattivate, e in iniziative giudiziarie, come il sequestro della nave Juventa della ONG Jugend rRettet a Trapani, con il successivo avviso di garanzia a comandante della nave Vos Hesta di Save The Children, nave che, dopo avere assolto il ruolo di Sar Coordinator sulla rotta del Mediterraneo centrale, veniva ritirata anche a seguito di una perquisizione effettuata sulla stessa nave nel porto di Catania.
Sono note a tutti, ormai, le sorti dei migranti riportati in Libia, molti dei quali, una volta usciti o trasferiti dai centri di detenzione ufficiali, incappano nelle bande di miliziani che controllano ogni commercio illecito,  di esseri umani, come di armi e petrolio, per finire nelle “connecting house” o nei centri informali, gestiti direttamente dalle milizie. Non occorrevano certo le inchieste dei giornalisti della CNN, erano anni che gli operatori umanitari italiani denunciavano inascoltati le sevizie inflitte a tutti i migranti in transito in Libia. Sarebbe tempo che il governo di Tripoli, se davvero controlla un qualsiasi territorio, nel quale comunque ci sono migliaia di internati, tra questi anche donne e minori,  sia tenuto a rispondere del mancato rispetto dei diritti umani delle persone che contribuisce a bloccare in mare ed a detenere a terra, ridotte sempre più spesso a merce di scambio. Una responsabilità condivisa, questa della riconduzione a terra, come si vedrà, con le autorità dei paesi titolari delle zone SAR confinanti con la pretesa zona SAR libica.
La situazione dei migranti intrappolati in Libia, che non appare certo risolvibile con l’invio di alcune ONGembedded italiane, per umanizzare il disumanoper “migliorare” la condizione delle persone trattenute in qualche centro di detenzione (tre),  dovrebbe costituire un primo parametro per cancellare definitivamente la distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, nella prospettiva ( che respingiamo) della esternalizzazione del diritto di (chiedere) asilo. Cosa fa davvero l’Italia per porre fine alla condizione di detenzione arbitraria e di abusi ai danni dei migranti intrappolati in Libia ?

La stessa situazione, ogni giorno più grave, di sevizie inflitte ad uomini, donne e bambini, oggetto di stupri sistematici e di torture senza fine, per estorcere il prezzo del riscatto, o altrimenti oggetto di un vero e proprio mercato, tra le diverse milizie, deve essere richiamata per qualificare  le prassi di cooperazione operativa, ormai stabilite a regime, tra la cd.Guardia Costiera libica, che risponde al governo Serraj , la Marina militare italiana, il Comando centrale della Guardia costiera (MRCC). Appare evidente che gli accordi bilaterali tra governo Gentiloni e governo Serraj non possono avere trasformato i porti libici in quel “place of safety” che le convenzioni internazionali sul diritto del mare impongono come luogo di sbarco per i migranti soccorsi in acque internazionali. Nessuno oggi può ritenere che il governo Serraj sia in grado di garantire l’incolumità delle persone che la sua Guardia costiera ferma in mare e riporta a terra, spesso dopo una serie impressionante di incidenti, avvenuti guarda caso sempre quando sopraggiunge la motovedetta tripolina che dovrebbe portare i “soccorsi”. I corsi di formazione svolti ai libici a bordo delle navi dell’Operazione Sophia di EUNAVFOR MED, e poi perfezionati con la Guardia di finanza italiana, non sembra abbiano sortito quel salto di professionalità necessario per un effettivo e soprattutto tempestivo rispetto degli obblighi di soccorso specie in acque internazionali, come risulta di tutta evidenza che le sei motovedette che sarebbero state ripristinate dagli italiani, e restituite ai libici, non possono che garantire una parziale copertura di una parte assai limitata delle acque costiere libiche. E’ altresì un fatto notorio che dopo la disfatta delle milizie che controllavano la zona di Sabratha, una volta principale punto di partenza, e per qualche mese, dopo gli accordi con le autorità italiane, luogo di blocco, le partenze sono riprese con una frequenza sempre più intensa da una serie di punti d’imbarco che si è allargata per centinaia di chilometri ad est e ad ovest di Tripoli.
Sembra dunque accertata, persino all’interno delle acque territoriali la incapacità della Guardia costiera libica ad operare interventi di ricerca e salvataggio in conformità alle prescrizioni delle Convenzioni internazionali. Eppure, con gli accordi del 2 febbraio scorso, proprio con quella Guardia costiera le autorità italiane hanno stretto intese, fornito assistenza tecnica e instaurato un rapporto di stretta cooperazione operativa, incentrato su una unità di coordinamento italo-libica, basata nel porto di Tripoli. Questa Unità di coordinamento  interagisce con il Comando centrale del Corpo delle capitanerie di porto (MRCC), autorità competente per gli interventi SAR nelle acque internazionali ricadenti nella zona SAR italiana, ma anche nelle zone SAR confinanti, libica e maltese, quando sia localizzato un mezzo carico di persone in situazione di pericolo, dunque con elevato rischio di affondamento. Un mezzo che andrebbe soccorso con la massima tempestività al fine di salvaguardare la vita umana in mare, qualora sia evidente che i mezzi dei paesi che sarebbero responsabili per la propria zona SAR non sono in grado di intervenire nei tempi richiesti, per evitare tragedie con morti e dispersi, come quelle che si continuano a verificare.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito a due episodi che confermano la gravità delle conseguenze delle intese di cooperazione operativa concluse con la Guardia costiera di Tripoli a febbraio, e successivamente perfezionate con l’invio di una nave militare italiana nel porto di Tripoli, con funzione di manutenzione tecnica delle motovedette restituite nel frattempo ai libici, ma anche con una evidente destinazione di coordinamento delle attività SAR che si delegavano alla stessa Guardia costiera tripolina al di fuori delle acque territoriali (12 miglia).

Prima, una imbarcazione della ONG SOS Meditarreneè, nave Aquarius, è stata bloccata in acque internazionali, mentre si stava accingendo ad operare, con la tempestività richiesta dal caso, un soccorso di alcune imbarcazioni, partite dalla costa libia, intercettate in acque internazionali, per le quali si è atteso l’arrivo di una motovedetta libica che a più riprese ha ricondotto i migranti a terra, sotto gli occhi della nave umanitaria, costretta ad assistere al “soccorso”. Che in realtà ha richiesto molto più tempo di quanto sarebbe occorso per portare in sicurezza i migranti, se si fosse consentito alla nave Aquarius la prosecuzione delle attività SAR che erano già state intraprese sotto il coordinamento del Comando centrale della guardia costiera di Roma. Si può dire dunque che i migranti nelle prime fasi di queste attività in acque internazionali erano sotto la giurisdizione esclusiva delle autorità italiane,e  che in una seconda fase sono stati “passati” alla Guardia costiera di Tripoli.
Negli stessi giorni si verificava un naufragio dalle circostanze molto sospette, davanti alle coste di Garaboulilocalità ad est di Tripoli, ormai diventata un’altro punto di imbarco dei disperati che diverse organizzazioni criminali, ben confuse tra le milizie, fanno partire a scadenze periodiche, approfittando del miglioramento del tempo, o più spesso, del diradamento dei controlli a terra, come in mare. Se il naufragio è avvenuto in acque internazionali, non si può escludere che il compito di coordinamento spettava all’unità mista italo-libica basata nel porto di Tripoli, di concerto con il Comando MRCC della Guardia costiera di Roma. Se lo stesso naufragio fosse avvenuto in acque territoriali ( i principali media riferiscono circa venti chilometri dalla costa, che guarda caso sono circa dodici miglia dalla costa) costituirebbe l’ennesima prova della incapacità della Guardia costiera libica a garantire la salvaguardia della vita umana in mare, o quanto meno ad intervenire tempestivamente e con mezzi appropriati. Quando intervengono i libici non sono predisposte quelle attrezzature di salvataggio, come gommoni di servizio e giubbetti salvagente, che invece sono impiegati su larga scala dalle ONG e dalla Guardia costiera italiana, con una serie di procedure che consentono di ridurre al minimo il numero delle vittime. Non si può negare poi che i migranti “soccorsi” dalle motovedette libiche, con la prospettiva di essere rigettati nei centri di detenzione nei quali già hanno subito ogni genere di violenza, preferiscano mettere a rischio la vita gettandosi in mare, piuttosto che essere riportati al’inferno.

Questi i fatti, dal punto di vista del diritto internazionale, pesantissime le responsabilità per tutti coloro che non garantiscono un soccorso immediato, nel più breve tempo possibile, una volta che sia individuata, meglio che intercettata, una imbarcazione carica di persone in pericolo.E che si tratti di mezzi inidonei a proseguire la navigazione, oltre che in imminente pericolo di affondare, non può essere escluso da nessuno, né dai procuratori della Repubblica, né dai vertici della Guardia costiera, quando bloccano l’intervento di una nave di soccorso delle ONG che si trova più vicina, per dare tempo ad una motovedetta libica di raggiungere il mezzo intercettato, ormai fermo in acque internazionali. L’obiettivo di riportare indietro a terra  un certo numero di migranti in fuga dalla Libia non può prevalere sullo scrupoloso rispetto delle regole di diritto internazionale che impongono a tutti, militari e civili, di operare gli interventi di soccorso in acque internazionali  nel più breve lasso di tempo possible. E se nelle acque territoriali libiche non fossero garantiti soccorsi altrettanto tempestivi costituirebbe reato, non tanto l’ingresso nelle acque territoriali, quanto il mancato soccorso tempestivo, che potrebbe comunque configurare una omissione ( di soccorso) vera  e propria.
Quando il comando di interruzione delle attività SAR in acque internazionali viene impartito ad una nave privata di una ONG che si trova più vicina al mezzo da soccorrere, o che addirittura che ha già intrapreso la stessa attività di soccorso, sulla base di una precedente sollecitazione ricevuta dal Comando centrale MRCC di Roma, allora non si può escludere che in quella fase le persone a bordo del battello da soccorrere, come le persone a bordo della nave umanitaria, si trovino sotto esclusiva competenza e giurisdizione italiana. La circostanza che le stesse persone, bloccate a bordo di un gommone ormai non più nelle condizioni di proseguire la rotta, o di fare ritorno al punto di partenza sulla costa, vengano poi “prese in carico” dal mezzo della Guardia costiera libica che sopraggiunge successivamente, costituisce di fatto una “riconsegna” di quelle stesse persone dalle autorità italiane alle autorità libiche, e dunque un vero e proprio respingimento collettivo, vietato dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, alla quale l’Italia rimane comunque soggetta, anche quando i suoi agenti operano in acque internazionali, o come nel caso Hirsi, nel territorio di uno stato terzo.

2.Gli accordi bilaterali conclusi tra Italia ed autorità libiche di Tripoli, al di là della dubbia legittimità formale,  non possono modificare la portata cogente delle Convenzioni internazionali che regolano le attività di ricerca e soccorso in mare. Quegli accordi che violino quanto prescritto dalle Convenzioni sarebbero illegittimi e determinerebbero la responsabilità di chi li ha sottoscritti e vi ha dato esecuzione. Resta da chiarire, e se ne dovrà fornire documentazione, la configurazione della catena di comando che lega le autorità SAR di Roma e l’unità di coordinamento italo-libica, basata a Tripoli, per quanto sembrerebbe, a bordo della nave Tremiti della Marina militare italiana. Un coordinamento operativo già previsto dai Protocolli Italia-Libia del dicembre 2007, poi ulteriormente specificato nelle intese concluse il 2 febbraio 2017, seppure con il governo  Serraj, che ha una caratterizzazione territoriale ben diversa da quella dello stato libico al tempo di Gheddafi,  in origine contraente con l’Italia. Circostanza che dovrebbe fare riflettere molto sulla correttezza delle procedure seguite per giungere alle ultime intese e sulla parzialità dei risultati che si potranno attendere.
Il ricorrente richiamo alla Convenzione ONU contro il crimine transnazionale firmata a Palermo nel 2000 , ed ai Protocolli allegati alla stessa, contro il traffico di esseri umani e contro la tratta, non permette di derogare con accordi bilaterali Convenzioni internazionali di rango superiore, come le Convenzioni internazionali di diritto del mare e le Convenzioni a salvaguardia dei diritti della persona, come la CEDU. Una argomentazione, quella della  derogabilità delle Convenzioni per effetto di accordi bilaterali,  già utilizzata dal governo italiano nel 2012, davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi,concluso poi con un totale rigetto delle tesi difensive italiane e dunque con la condanna. Una condanna che oggi si cerca di aggirare.
Secondo l’art. 98 della Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS)  che sancisce gli obblighi di prestare soccorso
1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.
2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. 
Il suddetto obbligo prescinde dal regime giuridico della zona di mare in cui viene prestato il soccorso, nel senso che lo stesso può esplicarsi tanto in alto mare quanto nella zona economica esclusiva o nella zona contigua di uno stato diverso da quello di bandiera. Il soccorso a persone o navi in pericolo è altresì possibile nelle acque territoriali straniere (art. 18 co. 2 Conv. UNCLOS), operando, quindi, una sorta di deroga al principio del “passaggio continuo e rapido” previsto dal regime del transito inoffensivo, e ciò ferma restando la competenza esclusiva dello Stato costiero sia per il coordinamento delle operazioni di soccorso sia per l’intervento di mezzi specificatamente adibiti a prestare assistenza a navi in difficoltà
Gli accordi regionali ai fini delle attività SAR devono essere orientati esclusivamente alla salvaguardia della vita umana in mare e non all’obiettivo di ricondurre verso il porto di partenza il maggior numero di persone per impedire loro magari, se soccorse da mezzi battenti bandiera diversa da quella libica, di essere sbarcati in un porto europeo, in particolare in un porto del paese che ha coordinato le operazioni di ricerca e salvataggio(SAR).  In nessun caso la ridefinizione delle zone SAR tra stati confinanti può incidere sul diritto al libero passaggio in acque internazionali, e persino territoriali, che spetta a qualsiasi nave, purché non persegua scopi illeciti. Appare comunque evidente che una modifica delle zone SAR deve essere notificata all’IMO, circostanza che nei rapporti tra Italia e Libia non risulta da alcun documento, e che gli accordi del 2 febbraio 2017 stipulati dall’Italia, con i precedenti accordi e protocolli che vi sono richiamati, tra la parte libica e la parte italiana, non modificano le zone SAR segnate sulle carte dell’IMO.
Basta leggere le intese stipulate tra Italia e Libia nel febbraio del 2017 e le intese operative che richiamano, risalenti addirittura al dicembre del 2007, poi ratificate dal Trattato di amicizia tra Berlusconi e Gheddafi dell’agosto del 2008, per cogliere come la finalità principale perseguita dai diversi governi italiano era costituita dalla esternalizzazione delle attività di ricerca e soccorso alle autorità libiche, autorizzate impropriamente ad intervenire in acque internazionali, anche senza avere ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte dell’IMO (Organizzazione marittima internazionale) della zona SAR di propria competenza. Non si può realisticamente ritenere che il governo di Tripoli sia legittimato a rappresentare l’intero stato libico, ormai praticamente spezzato in almeno due parti costiere, per quanto riguarda la delimitazione di una zona SAR e la predisposizione delle relative attività di ricerca e salvataggio. Sono purtroppo le stragi che continuano a ripetersi nelle acque territoriali libiche o, nei casi di intervento della guardia costiera di Tripoli ,in acque internazionali, che confermano la inesistenza di una vera zona Sar libica, che non può certo essere frutto di un accordo bilaterale che non ha ricevuto neppure ratifica dai rispettivi parlamenti nazionali.

Abbiamo peraltro assistito a documentati casi di intervento violento della Guardia costiera libica in acque internazionali, con grave pregiudizio degli operatori umanitari già impegnati in attività di soccorso e dei migranti, che in alcune occasioni venivano materialmente sequestrati, pur di impedire di raggiungere il mezzo che li stava soccorrendo. Rimane da accertare in questi singoli casi quale sia stato e se ci sia stato un coordinamento operativo italo-libico, o se questi casi si siano verificati proprio per il sovrapporsi dei livelli decisionali, conseguenza dell’assenza di regole obiettive riconosciute o riconoscibili dagli organismi internazionali della navigazione (IMO) . Certo l’addestramento dei libici i Italia non sembra garantire significativi progressi nella tutela dei diritti fondamentali delle persone intercettate in alto mare.
Occorre a tale riguardo soffermarsi sulla Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il salvataggio in mare. In particolare, al punto 2.1.1. la Convenzione stabilisce che le parti contraenti provvedano affinché vengano prese le disposizioni necessarie al fine di fornire alle persone in pericolo in mare i servizi di ricerca e di salvataggio. Al punto 2.1.4 la Convenzione prevede che le zone di ricerca e di salvataggio vengano delimitate mediante accordo tra le Parti contraenti. Al punto 2.1.7 della Convenzione si legge che la delimitazione delle regioni di ricerca e salvataggio non è legata a quella delle frontiere esistenti tra gli Stati e non pregiudica in alcun modo dette frontiere. Al punto 2.1.9. la Convenzione stabilisce che nel caso in cui le Parti contraenti vengano informate che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una parte contraente assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile. Al punto 2.2.1. la Convenzione stabilisce che le Parti contraenti adottano le misure necessarie al coordinamento dei mezzi richiesti per fornire dei servizi di ricerca e salvataggio al largo delle loro coste.
Lo svolgimento del servizio di ricerca e soccorso disciplinato dal DPR 662/1994 con cui è stata recepita la Convenzione di Amburgo rientra nella competenza primaria del Ministero delle Infrastrutture e trasporti (MIT) che si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia Costiera (Corpo che, come noto, “dipende dalla Marina Militare”) secondo quanto previsto anche dall’art. 134, 2, b del Codice dell’Ordinamento Militare (COM). Lo stesso DPR attribuisce al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto(Maricogecap) la qualifica di organismo nazionale che assicura il coordinamento generale deiservizi di soccorso marittimo (IMRCC — Italian Maritime Rescue Coordination Center nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano sul mare (Zona SAR) e tiene contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati.I
Le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi regionali stipulati, le quali abbiano avuto notizia dalle autorità di un altro Stato della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare S.a.r. di propria competenza, sono tenute ad intervenire immediatamente senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica di dette persone (punto 3.1.3 Conv. Amburgo). L’Autorità competente così investita della questione deve accusare immediatamente ricevuta della segnalazione e indicare allo Stato di primo contatto, appena possibile, se sussistono le condizioni perché sia effettuata l’intervento (3.1.4 conv.). Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente S.A.R. dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima. La cessione della competenza ad operare interventi SAR in acque internazionali non si può tradurre nel pregiudicare gravemente i destini e le stesse vite delle persone che si devono soccorrere.
In precedenza la Convenzione SOLAS del 1974 aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi
di comunicazione e coordinamento in situazione di distress in mare nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste» (Cap. V, regola 7). Nonostante la nozione di distress sia chiaramente definita a livello convenzionale, alcuni Stati come Malta esprimono tuttavia divergenti interpretazioni sugli obblighi SAR in casi in cui un’imbarcazione sia priva di requisiti di navigabilità ma non avanzi richiesta di soccorso. Non risulta che la Libia di Gheddafi, e tantomeno il governo Serraj abbiano ratificato questi emendamenti, e dunque mancano le basi per una delega alle autorità libiche di attività SAR da parte delle competenti autorità italiane (MRCC), soprattutto con intese bilaterali che non vengono ratificate da organismi internazionali come l’IMO e che rimangono sul piano degli accordi di polizia per la cooperazione operativa nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare.
L’I.M.O. (International Marittime Organisation) nel maggio 2004 ha adottato due emendamenti alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS) ed a quella di Amburgo (SAR): emendamenti entrati in vigore il 1.7.2006 con lo scopo di integrare l’obbligo del comandante di prestare assistenza con un corrispondente obbligo a carico degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (place of safety) inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita.
Come si vede si tratta di meccanismi assai complessi, di notifica e di presa in carico da parte di un paese, piuttosto che di un altro, delle responsabilità di ricerca e soccorso.  Meccanismi che con imbarcazioni che possono affondare in pochi attimi hanno avuto e continuano avere un costo umano elevatissimo. In passato anche tra stati appartenenti all’Unione Europea queste trafile hanno comportato una perdita di tempo che è costata la vita a centinaia di persone, come nel caso del naufragio dell’11 ottobre 2013 a sud di Malta, per il quale si sta procedendo a Roma contro i più alti vertici del tempo della Guardia costiera e della Marina italiana.
L’istituzione di una zona SAR è intrinsecamente subordinata alla circostanza che lo Stato parte della Convenzione sia in grado di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi SAR nell’area di propria competenza. In particolare, lo Stato si impegna a istituire un Centro e dei Sotto-centri di coordinamento,
a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo).
La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. La Libia, o meglio il governo di Triplo soddisfano queste condizioni ? Se non le soddisfano con quale legittimazione internazionale si può dare esecuzione agli accordi stipulati tra il governo Serraj ed il governo Gentiloni il 2 febbraio 2017 ed ai precedenti Protocolli operativi che richiamano ? La Convenzione di Amburgo 1979 non precisa quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR ma pone in risalto, in linea con l’Unclos, che deve esservi un rapporto
tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile. La Libia di Serraj non controlla che una minima parte delle coste libiche, e questo deve incidere sulla interpretazione dei rapporti convenzionali esistenti, perché se si ritenesse ancora la Libia come un paese unitario, sfuggirebbero le prospettive non solo della Libia, ma anche dei paesi europei del Mediterraneo centrale ( Malta ed Italia), con ripercussioni su tutti gli altri.
Nel caso dei rapporti con il governo di Tripoli la questione è ancora dubbia perché non si comprende in base a quale pretesa i libici  ( Governo Serraj), dopo gli accordi del 2 febbraio scorso, avevano inizialmente annunciato di estendere la propria zona SAR fino a 80 miglia dalla costa, minacciando qualunque nave che avesse provveduto entro quel limite a compiere attività SAR. In una seconda fase, a partire dal mese di settembre, senza che gli accordi del 2 febbraio fossero modificati, sembra che il Comando della Guardia Costiera (MRCC) di Roma abbia riaffermato la sua giurisdizione quanto meno su quella parte delle acque internazionali distanti almeno trenta miglia dalla costa libica, ma gli incidenti non sono mancati per la diffusa incertezza su quale fosse l’autorità SAR competente a gestire i diversi interventi. Come non sono chiari i rapporti, che andrebbero appurati in sede di indagine internazionale, tra l’Unità di coordinamento italo libica basata a Tripoli, le diverse milizie a terra, ed il Comando centrale della Guardia Costiera di Roma (MRCC).
In ogni caso, i poteri-doveri d’intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area SAR  di propria competenza non escludono, sulla base delle norme su indicate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per la vita umana lo richieda. E che tutte le persone imbarcate a bordo dei gommoni fatti salpare dalla costa libica si trovino in imminente pericolo di vita lo confermano quasi tremila vittime che si sono registrate quest’anno, malgrado la relativa diminuzione delle partenze e degli sbarchi. Se una unità navale privata in acque internazionali inizia una attività di ricerca e soccorso sotto il coordinamento del Comando centrale di Roma (MRCC), questa attività non si può interrompere per il sopraggiungere di una motovedetta libica. Che potrà semmai contribuire alle attività SAR, ma trattandosi di oooperazione coordinata dalle autorità SAR italiane, va esclusa qualsiasi possibilità di diversione dalla rotta e di riconduzione dei migranti in Libia.
L’esercizio delle prerogative di intervento per attività SAR e nel controllo delle frontiere marittime non può prescindere in nessun caso dall’assoluto rispetto nel diritto internazionale dei rifugiati ed, in particolare, nel divieto di refoulement previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Se nelle attività di ricerca  e salvataggio si verifica una fase nella quale le persone individuate in una situazione di distress si trovino in acque internazionali, e siano le autorità italiane ad avere ricevuto la chiamata di soccorso ed avere assunto la responsabilità dell’intervento SAR, magari indirizzando una nave civile o una nave umanitaria di una ONG, la chiamata per la “presa in carico” di unità navali appartenenti ad un paese terzo, ancorché non firmatario della Convenzione di Ginevra, come la Libia, seppure nella più limitata articolazione territoriale del governo di Tripoli, configura un grave illecito internazionale a carico delle autorità italiane. In questo modo infatti si espongono  persone già duramente vessate o torturate nel paese dal quale sono salpate, alla concreta possibilità di essere respinte nelle stesse località, ed in mano alle stesse milizie dalle quali hanno subito gli abusi più terribili. Le “garanzie diplomatiche” eventualmente offerte dal governo Serraj non possono effettivamente assicurare che le persone riportate in Libia non subiscano ancora gli abusi più gravi, attesa la ridotta fetta di territorio libico che le autorità di Tripoli riescono a  controllare, soprattutto dopo l’avanzata delle milizie riconducibili al generale Haftar.
Si deve quindi ribadire che, a fronte dei moduli e degli assetti operativi discendenti dalle intese stipulate il 2 febbraio del 2017 tra il governo di Tripoli ed il governo italiano, occorre continuare con la raccolta di testimonianze, tra le persone che hanno subito uno o più respingimenti,delegati alle motovedette libiche, e che magari, dopo diversi tentativi, sono riusciti a raggiungere il territorio italiano. In base a queste testimonianze, ed a quelle eventualmente raccolte in Libia, se le organizzazioni umanitarie smetteranno di assecondare i governi e daranno veramente voce alle vittime, come avvenne nel 2009 sul caso Hirsi/Italia, si potranno redigere uno o più atti di accusa da rivolgere ai tribunali internazionali, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, se sarà possibile promuovere ricorsi individuali, per violazione dell’art, 3 e 13 della CEDU e dell’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla CEDU (Divieto di respingimenti collettivi), o alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per violazione dell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Divieto di respingimenti collettivi). Non si tratta semplicemente di riaffermare diritti che sono stati violati, spesso a costo della vita di centinaia di persone, occorre arrivare ad una sanzione esemplare che impedisca che questi comportamenti abusivi proseguano in futuro con un costo sempre più elevato in termini di vite umane. A fronte di una opinione pubblica che ormai appare indifferente, se non apertamente complice, rispetto alla morte in mare, alle torture ed agli abusi di ogni genere inflitti ai migranti “soccorsi” in acque internazionali e ripresi dalle diverse milizie libiche, dopo l’intervento della Guardia costiera di Tripoli. Una “presa in carico” richiesta sempre più spesso dalle autorità italiane, come i fatti e le denunce di queste ultime settimane stanno provando.. Nessuno può stare ad assistere a tutto questo, senza diventare complice.

martedì 28 novembre 2017

La città & la città – China Miéville

immaginate una Berlino senza muro, ma con una divisione altrettanto forte, di qua e di là, due mondi separati fino all’assurdo.
China Miéville sovrappone le due città, a volte coincidono, una rappresentazione audace.
all’interno di questo microcosmo ci sono cose che succedono, sono due mondi dominati dalla paura e dalla polizia e da una forza ancora superiore, ignota, incomprensibile, ma concreta.
si può leggere in tanti modi, a me è sembrato, con un salto enorme, che quelle reti, quei poteri che intrappolano le menti degli abitanti di Beszel e Ul Qoma, città gemelle e nemiche, siano come i draghi di cartone, che Edward Snowden e Julian Assange hanno smascherato.
ma quei poteri, la Violazione, fanno molto male, sembrano invincibili, anche perché tutti credono che lo siano.
anche chi ci lavorerà, nella Violazione, come l’ispettore Borlù, non sa molto, è il Potere, che si è radicato nelle teste degli abitanti di quel piccolo angolo di mondo, così è e così sarà, l’impero romano, l’impero di Carlo V, l’impero inglese, l’impero cinese, l’impero Usa, così è e così sarà, hanno sempre detto.
mi sa che il romanzo di China Miéville, attivista e socialista (fa parte del Socialist Workers Party inglese e si è presentato senza successo alle elezioni per il parlamento britannico nel 2001 come candidato della Socialist Alliance) è un romanzo (molto) politico.
se non l’avessi appena letto me lo leggerei, è come un consiglio, mi sembra,
l’ispettore Borlù mi ha ricordato Martin Bora (l’investigatore nazista creato da Ben Pastor), quel mondo strano mi ha ricordato il mondo (altro) di Epepe.
buona lettura





«E’ più stupido e infantile presumere che ci sia una cospirazione o che non ci sia?». Così riflette l’ispettore Borlù. Sarebbe un quesito sconcertante anche nel nostro mondo ma suona un bel po’ diverso per chi vive a Beszel e nella sua gemella siamese/nemica Ul Qoma ma può vedere una sola delle due città pure quando passa attraverso l’altra.
La magia dell’inglese China Miéville è di farci abbandonare quasi subito l’incredulità e di abituarci che «La città & la città» (Fanucci editore: 366 pagine per 12.90 euri, traduzione di Maurizio Nati) possano davvero esistere l’una dentro l’altra ma ognuna invisibile ai cittadini “stranieri” che lì abitano. Dove accade? In una immaginaria repubblica post-sovietica. Chi legge il romanzo non saprà se l’anomalia di Beszel e Ul Qoma sia tecnologica, magica, una frattura spazio-temporale, uno spicchio di mondi alieni (come nel romanzo-film «Stalker») oppure lo scherzo di un dio burlone, di un pagliaccio cosmico. Non importa saperlo. Perché la vera stregoneria, il mistero inesplicabile è da dove Miéville abbia tirato fuori queste storie…
da qui

…A romanzo finito posso dire che non condivido l’entusiasmo della critica internazionale. Forse l’edizione è stata penalizzata da una traduzione fatta coi piedi, ma lo stile di Miéville a me è sembrato sciatto, poco curato, piatto, noioso. Un libro con una storia del genere si merita di essere scritto da qualcuno che, per lo meno, ha una minima cognizione del senso del ritmo narrativo, cosa che, secondo me, Miéville non ha.
La storia è fenomenale in sé, una delle migliori che abbia letto quest’anno (lo so che siamo solo a febbraio, ma sono tre mesi che leggo roba che rasenta a malapena la sufficienza.
Per fare un paragone cinematografico, avete presente Il padrino parte seconda? Ecco, è universalmente riconosciuto come uno dei film migliori di sempre (e piace pure a me, pur non essendo un fan del genere), e ci sono dei buoni motivi per questo: storia, interpretazione, regia, sceneggiatura. Ora immaginate se Il padrino parte seconda, sempre interpretato da Robert De Niro, sempre sceneggiato da Francis Ford Coppola e Mario Puzo, però diretto da Michael Bay. Cosa pensate succederebbe? Succederebbe La città e la città, ecco cosa.
Insomma, il libro vale la pena di leggerlo solo in virtù della storia (che è l’unico motivo per cui questa recensione è positiva) e se ciò significa doversi turare il naso e sopportare lo stile blando di Miéville, beh, pazienza.
da qui

…Al di là della genialità dell'invenzione narrativa, ciò che è veramente geniale è il modo in cui l'autore palesa la nostra superficialità: in quanto spettatori esterni siamo pronti a cogliere e ridicolizzare l'assurdità della situazione di Beszel e Ul Quoma senza nemmeno capire che i besz e gli ul quomani siamo proprio noi.
In questo contesto la detective story in stile Blade Runner compie un ruolo marginale, assoggettata all'esigenza dell'autore di mostrare il funzionamento del disvedere nelle piccole cose quotidiane. Le indagini di Borlù sono principalmente una scusa per reiterare cosa si può fare e cosa non si può fare, quanto complicato e inumano sia vivere in questo modo, per questo soprattutto nella parte del romanzo mancano di ritmo e non sempre seguono la logica. La risoluzione dell'intrigo è poi un po' raffazzonata, non particolarmente originale e poco credibile nel modo in cui viene individuata dal protagonista…

da qui

ricordo di Alessandro Leogrande

lunedì 27 novembre 2017

Visite al manicomio – Vito Totire

Agli inizi degli anni ottanta decisero di andare a Imola, ogni settimana.
Si arrivava di pomeriggio con borse colme del necessario: quaderni, fogli, pennarelli, ingredienti per cibi e torte, registratore macchina fotografica. Due gruppi: maschi (più scarso) e femmine (più numeroso ed esuberante). Si attraversava il parco fino a metà; alberi giganteschi facevano ala al piccolo corteo, ma dominava anche il rosso spento dei padiglioni. All’entrata un check-point in crisi d’identità; il transito era libero? In entrata quasi, in uscita… La legge 180, approvata da poco…
Entrati, sulla sinistra, una struttura bassa lunga piano terra con studi medici. Targhe su tutti gli edifici: erano in pietra, scritte scolpite a caratteri rossi. In quel tratto di viale comparivano messaggi in bacheca. Un giorno ne comparve uno difficile da ignorare: i risultati delle elezioni. La curiosità indusse a fermarsi: le percentuali di voto erano simili a quelle della città: schiacciante maggioranza comunista. Niente sorpresa, l’isolamento verso l’esterno non aveva avuto particolari effetti nell’ostacolare memoria e identità. In quel pezzo di viale spesso veniva incontro qualcuno, ospite di reparti diversi da quelli frequentati dai gruppi.
Un giorno due persone anziane claudicanti vestite con abiti non proprio attillati. Un uomo e una donna – si tenevano per mano come adolescenti – incuriositi dai colorati visitatori. L’uomo si rivolse al gruppo con un sorriso contagioso. Indicando la persona che lo affiancava, disse gioiosamente: mia marita! Si erano conosciuti lì venendo da storie diverse? Vedovi, internati, vedovi dopo l’internamento? Internati senza famiglia? Segregazione, esks, solitudine, non li avevano uccisi né avevano tolto loro la capacità di gioire e di cercare il contatto con persone che percepivano affini.
Dopo l’edificio basso sulla sinistra, un viale a destra portava alle lavanderie e poi ancora a un’ulteriore fascia verde; anche queste strutture basse, coperture in eternit, bonificate troppo tardivamente, quando il gruppo non frequentava più. A metà del parco il gruppo si divideva: maschi al reparto 17, donne al 10. In passato erano stati i due reparti degli agitati. Affidati a un medico, altruista oltre misura, temerario come pochi al mondo, generoso senza limiti. Veniva da un’esperienza di lavoro a Gorizia: era Giorgio Antonucci, toscano di Firenze. Una sfida: vediamo cosa fai con i più “difficili”.
Quando il gruppo cominciò le visite, mezzi di contenzione nei due reparti non ve n’erano più. Scomparsi da tempo, mai usati nella nuova gestione. Quei due reparti ex-punitivi non avevano più il ruolo di prima nell’organizzazione interna. Altre strategie si adottarono per punire i disobbedienti reclusi. Banditi gli psicofarmaci e le contenzioni, rimanevano evidenti certi postumi, difficili a guarire. Nelle strutture e nelle persone: simboli o effetti di carcerazioni e violenze subìte.
Il gruppo di uomini mise mano alle cartelle con il consenso delle persone per capire meglio la loro storia; il gruppo delle donne era più versato sulle arti grafiche e culinarie ma le cartelle furono lette anche da loro. Giungevano racconti, dal reparto 10, a fine pomeriggio, di torte prodotte con dosaggi non ortodossi, esteticamente non perfette, mangiate con le mani e buonissime, che interrompevano (poco) le produzioni creative – raccolte poi in un filmato e un libro – e sfociate in un progetto di uscita dalla residenza nel parco/prigione per la più giovane delle ospiti; era lì per una malattia sconosciuta persino alla peggiore delle nosografie psichiatriche cioè l’essere orfani e abbandonati.
Il gruppo di maschi, meno empatico, non aveva dimestichezza con torte e cibi. Erano Saverio, entrato in contatto con gli altri nell’approssimarsi di una crisi, come per guadagnarsi garanzie di non essere trattato con violenza; Concetto, non tanto normaleper la psichiatria se le sue risposte al test di Szondi (raccolte per una ricerca) avevano dato risultati disastrosi; Massimo infermiere in psichiatria – padre operaio della Bolognina – e Vittorio, militante politico entrato in contatto con il medico dei reparti, aveva fatto la proposta delle visite a Imola alla sua morosa che aveva detto subito sì.
Un salone grande accoglieva i maschi al reparto 17. Il soffitto poggiava su colonne alte, qualcuno vi si arrampicava riuscendo a mantenere la posizione per tutto il pomeriggio con una capacità di resistenza non comune. Gli specialisti – una volta chiamati alienisti o anche frenologi – parlavano di catatonia cioè una malattia e non una reazione alla reclusione. Era invece l’impegno di un’energia enorme altrimenti destinata a chissà quale esplosione o implosione. Scomparsa la reclusione scomparve la catatonia, salvo qualche tendenza a ripercorrere, per paura del nuovo, strade già solcate…
L’architettura era impressionante: soffitti molto alti forse per facilitare la diluizione delle urla e per smorzarle. Letti di contenzione. Spioncini per controllare il recluso. Sportelli di protezione del televisore: quando andarono in disuso, nessuno più lo spaccò. Le persone rimuginavano lamentazioni, rivolte al passato; troppa la violenza subita per vivere a pieno il presente. Pure i loro disegni rimuginavano lamentele, frammenti di immagini terrifiche, calcoli matematici, simboli espressione di associazioni d’idee. Poco veniva scritto, su invito, mentre le parole fluttuavano eludendo totalmente eventuali controllori di volo.
Un ospite volle farsi fotografare con alle spalle un manifesto del film Orizzonti perduti:camicia bianca ben lunga, robusto, gioviale, mai di cattivo umore, sopracciglia così folte da parere teatrali. Argomento fisso gli insetti mosco-essenziali da cui difendersi – da giovane – nelle campagne di Lugo: un tarantolato romagnolo?
Le cartelle: rendicontazioni di torture da parte di sadici (inconsapevoli?) sicuri della propria scienza.
Ernesto, caduto in depressione per la morte della madre – lutto duro per tutti – studente universitario, sensibile, timido, non apriva più i libri. La famiglia considerò la sua reazione grave malattia. Internato. Aveva beneficiato di tutti i ritrovati del “progresso” psichiatrico. Gli era stato inoculato sangue malarico. Il gruppo dei visitatori non credeva ai propri occhi; lo avevano di fronte a loro, non in una ricostruzione storica di Foucault. Ernesto guardava di sottecchi attraverso occhiali spessi: ancora timido, gentile, a volte quasi pauroso, come al tempo della sua cattura. Ogni pomeriggio donava tabulati di formule matematiche. Gli era pesato non concludere gli studi; avrebbe dedicato la laurea alla mamma. Ma erano tempi in cui si entrava senza possibilità alcuna di uscire. Quando si cominciò a poterlo fare la furia dei medici aveva eroso la sua autonomia possibile. Davvero lo avevano curato senza tregua. Lui timido ma anche “ingrato”: fece trapelare un’esplicita avversione. Non ringraziò i medici delle “amorevoli” cure dando l’occasione ai carcerieri di confermare la diagnosi. «Ha persino interpretato l’inoculazione di sangue malarico come una volontà degli psichiatri di danneggiarlo». I familiari avranno annuito sconsolati ma rassicurati (troppo grave perché torni a casa). Ernesto ha resistito come ha potuto, partigiano di un battaglione sconfitto dalla potenza militare del nemico. Un’etichetta per tutti: “il paziente oppone viva resistenza alle cure: trasferito al 17”.
E di resistenti il gruppo ne incontrò tanti; anzi tutti avevano opposto viva resistenza.Antonio era stato sottoposto a dosi quotidiane di esks: panacea universale; terapia buona per tutto anche per impedire la masturbazione e guarire le nevrosi. Anche Antonio veniva dalla Romagna. Ormai libero aveva crisi di panico se gli si proponeva di usare la libertà per andare in un altro parco. Non riusciva a varcare il dissociato check point dell’ospedale. Uscire? Accompagnato? Insufficiente, almeno le prime volte. Dopo mesi riuscì a vincere la paura. Fu dopo un episodio impossibile da dimenticare. Si discuteva dell’uscita, lui appoggiato a un muro oscillava col corpo in avanti in continuazione. Due dei visitatori mettevano in campo le loro capacità per convincerlo. Lui, a un certo punto, uscì dalla sua monotona snervante oscillazione per fare un gesto che pareva una sberla. Il più vicino era Vittorio. Nell’approssimarsi dell’impatto si dipanò un suo percorso mentale: la pericolosità non esiste / Basaglia attaccato dai fascisti / Thomas Sheff-per infermità mentale… Quali i rischi? Da un lato la sberla; dall’altro il ricredersi sulla necessità di abbattere il manicomio. Vittorio aspettò: la mano di Antonio a un millimetro dalla guancia frenò con una potenza impensabile trasformandosi in carezza. Tutto era in salvo: la soddisfazione di non aver tentennato sullo stereotipo, la gioia di un’esperienza impossibile da dimenticare anche se moltopiccola… Ma tanto piccola?
Il gruppo frequentò per oltre un anno. Più passava tempo dal 1978 più il linguaggio della politica reiterava di voler superare il residuo manicomiale. Ma l’inflazione di buone intenzioni fu meno efficace della dipartita del residuo per motivi di età avanzata. Salvo lo stillicidio delle vittime come quelle che muoiono ad armistizio già dichiarato. Un ospite investito sulle strisce pedonali da un’auto (ah se il matto fosse stato tenuto sotto chiave non avrebbe ammaccato la carrozzeria omicida!). E dunque per lesa carrozzeria il medico del reparto fu processato. Oppure l’ospite aggredito da un compagno di sventura di un reparto chiuso con ribaltamento di ruoli da parte dei media.
Andate a visitare il parco se potete, non troverete nessun residuo. Sulle ceneri del manicomio è sorta una fetta di edilizia (popolare?). Ma se concentrate l’attenzione sul fruscio delle foglie, sentirete le risate gentili che tutte scambiavano con Angela, Chiara, Donatella, Giovanna, Manuela, Piera al reparto 10 e i liberatori borbottii cui Concetto, Massimo, Saverio e Vittorio davano significato nel reparto 17, mettendo tutte e tutti in comune quello sprazzo di serenità e di forza cui si riesce a dar vita visitando luoghi difficili.