venerdì 20 ottobre 2017

Riflessioni sulla vergogna - Nereide Rudas

a Placido Cherchi

Premessa
La vergogna, benché ubiquitaria e diffusamente  radicata, è stata poco studiata dalla psicologia e dalla psicopatologia classiche.
A differenza di altre emozioni, quali la tristezza, la paura, l’euforia , la colpa, ecc. è stata in un certo modo, trascurata.
E’ stato anche detto che la vergogna “ brilla per la sua assenza”.
Persino la Psicoanalisi che pone al centro del suo costrutto teorico le dinamiche emozionali e affettive, si è occupata poco e tardivamente della vergogna.
Lo stesso Freud, che ci ha lasciato pagine decisive sulla colpa e sulla paura e ha parlato marginalmente della vergogna, associandola  spesso all’imbarazzo e ad altre emozioni.
Tuttavia negli ultimi due – tre decenni del ‘900 si è verificato un rilancio nello studio delle emozioni e del loro ruolo adattativo nella relazione IO/MONDO,  rilancio che ha compreso anche la vergogna.
Questi studi hanno seguito vari percorsi, che tenterò di richiamare.

1.    Il problema classificatorio delle emozioni- Emozioni primarie e secondarie

Numerosi studi hanno tentato di classificare le emozioni e di posizionare meglio la vergogna.
Nonostante le molte difficoltà , complessità e incertezze, gli studiosi hanno trovato una discreta concordanza nel distinguere le emozioni in:
-          Emozioni primarie o di base ( tra cui la paura, la tristezza, la gioia, ecc.).
-          Emozioni secondarie ( tra cui la vergogna, imbarazzo, l’orgoglio, ecc.).
La vergogna sarebbe dunque una emozione secondaria o meglio complessa.
Secondo questa classificazione, sottesa da un sottile significato ontogenetico,
le emozioni primarie, emergerebbero precocemente, per prime, nello sviluppo individuale.
Le secondarie, viceversa, emergerebbero più tardivamente.
Questo criterio classificatorio, basato sulla semplice variabile cronologica, ha ricevuto molte critiche.
La più dura riguarda il fatto che le emozioni si presentano presto e quasi contemporaneamente nella vita infantile, senza un ordine preciso.
Tra i 18 e i 24 mesi il bambino, di norma, ha completato il suo corredo emotivo.
Ed è quindi difficile, se non impossibile, tracciare un confine cronologico netto con valore distintivo.
Tuttavia la terminologia di emozioni primarie e secondarie è ancora molto diffusa e praticata.
Più significativa appare la classificazione che distingue le emozioni in base al criterio di autoconsapevolezza.
Alcune emozioni, quali la gioia, la tristezza, la paura, non necessitano di essere riferite al Sé, di autoriflettersi sul Sé.
Davanti a uno stimolo o a un evento o circostanza che ci minaccia, noi proviamo spontaneamente paura. E’ una reazione automatica che non viene auto-riferita.
Ognuno di noi ha diretta esperienza di tali reazioni e si potrebbero fare facili e numerosi esempi.


2.  Esempi di reazioni primarie e secondarie.
(Paura e vergogna)

A un manager  del ramo psicofarmaceutico  – che chiamerò Francesco – venne affidata l’area di Cagliari e della sua provincia. Si trasferì nella nostra città, ma nel primo periodo di permanenza in Sardegna, mantenne l’abitudine di viaggiare settimanalmente in aereo sia per motivi professionali che familiari. Viaggiava serenamente e le rotte aeree verso il Continente gli erano diventate familiari.
Ma in un viaggio Cagliari – Genova la manovra di atterraggio sulla pista del Cristoforo Colombo fallì e l’aereo precipitò in mare.
Ecco come Francesco mi descrisse la sua disavventura e la terribile paura che lo sconvolse.

“ Sentii un forte scossone , borse,valigie, pacchi, ecc. custoditi negli appositi alloggiamenti  in alto ci caddero addosso e invasero le corsie. Subito dopo l’aereo incominciò a imbarcare acqua, che saliva inesorabilmente.
Percepì immediatamente con terrore che stavamo affondando in mare.
Entrai in uno stato inibitorio: sapevo che dovevo fare o tentare di fare qualcosa, ma ero attaccato al sedile, paralizzato dalla paura.
Per fortuna un ragazzo sardo ( pare al suo primo volo) non perse la testa …. A spallate e con tutto ci che gli veniva a tiro riuscì a sfondare il portellone di accesso, assicurando a se stesso e agli altri passeggeri una via di fuga.
Non so come,  mi trovai in acqua, a pochi metri da terra. Mi tolsi le scarpe e cominciai a nuotare verso la riva: mi sentivo libero e ripresi me stesso”.

Francesco, tuttavia, non riuscì a metabolizzare la paura, sviluppò una fobia del volo e dovette sottoporsi ad un trattamento psicoterapeutico.
Nell’esempio citato sono presenti due distinti comportamenti allo shock emozionale: il primo di fuga ( del ragazzo) e il secondo di inibizione paralizzante ( di Francesco), entrambe reazioni classiche di paura ad un evento che minaccia la vita. Questi comportamenti erano già noti alla psichiatria e psicopatologia del primo ‘900.
Ernst Kretschmer , neuropsichiatra tedesco, famoso per la sua biotipologia e per il suo notissimo libro “Korperbau und Charakter” ( 1922), aveva, a suo tempo già distinto due tipi di reazioni emotive ( in risposta a un evento ) che denominò:
-          Reazioni primitive ( tra cui la paura ).
-          Reazioni di personalità ( tra cui si può includere la vergogna).
Le reazioni primitive , come la paura, sono determinate – egli scrive testualmente – “da uno stimolo che non attraversa le varie dinamiche interposte della personalità, ma si esplicano in modo immediato, istantaneo e secondo meccanismi profondi ….”.
Esse non necessitano di essere riferite al Sé.
Davanti a degli Tsunami, terremoto, tifoni, disastri ferroviari, automobilistici , catastrofi, ecc. si verificano in quasi tutti i soggetti reazioni emotive spontanee di paura e terrore che si possono esprimere in fughe ( anche cieche), inibizioni paralizzanti, stati di confusione mentale, amnesie, ecc.
Esistono invece – continua Kretschmer – emozioni , meno immediate, più complesse che mettono in gioco altre dinamiche, meno inconsapevoli .
Anzi per kretschmer mettono in gioco tutta la personalità ( emozioni di personalità : oggi “secondarie o autoriflesse”).
Vediamone un esempio.
Un mio paziente, persona colta e riservata – che chiamerò Antonio – mi riferisce un episodio di reazione emozionale complessa che lo aveva gettato in una profonda vergogna .
Ecco il suo racconto.

“Mentre passeggiavo tranquillamente per le vie della città , il mio sguardo si posò su una giovane donna, assai bella e attraente, che camminava davanti a me, tenendo per mano il suo bambino. La fissai a lungo e insistentemente : non riuscivo a distogliere lo sguardo,  mi veniva difficile data l’armonia di tanta grazia e l’attrattiva che quella figura esercitava su di me. A un certo punto il bambino inciampò e cadde. La madre premurosamente lo soccorse e, per consolarlo, lo prese in braccio, così che il piccolo aveva il viso appoggiato alla spalla materna e guardava in direzione opposta rispetto alla donna. Cioè : guardava verso di me.
Io, sempre più attratto, seguivo la scena e continuavo a fissare con ammirazione la figura femminile che mi precedeva. Osservavo le gambe snelle e i fianchi che ondeggiavano in un andatura ritmica e sinuosa.
Quando, a un certo punto, incrociai lo sguardo del figlio. Il bambino aveva smesso di lamentarsi e dal suo osservatorio mi guardava con occhi seri e severi.
Rimasi stupefatto: quegli occhi duri  e fissi su di me mi mettevano a nudo. Non era quello uno sguardo infantile, ma uno sguardo adulto, uno sguardo in difesa della madre che mi giudicava e mi sbarrava la strada.
La scena durò pochi minuti, ma non ho mai dimenticato quello sguardo che mi fece cadere in una profonda vergogna. Arrossì violentemente, chinai la testa e distolsi gli occhi: avrei voluto sprofondare, sparire dalla faccia della terra.”

Se si confrontano i due esempi, emerge chiaramente che la risposta alla paura (affondamento dell’aereo )è immediata, automatica, stereotipata.
L’abbiamo sentita ripetere in racconti e testimonianze su disastri, l’abbiamo vista in riprese televisive e cinematografiche, ecc.
Recentemente è passata davanti ai nostri occhi nell’affondamento della Concordia.
D’altronde un intero  filone cinematografico, con in testa il “Titanic”, chiamato appunto genere catastrofico, si basa sul condizionamento degli spettatori in eventi paurosi e terrificanti.
Nella seconda situazione abbiamo invece una risposta emotiva complessa.
Un uomo guarda con insistita ammirazione una donna. Il suo non è uno sguardo neutro, ma uno sguardo maschile, nel quale all’ammirazione e  al senso estetico per la fruizione del bello, si mischiano in qualche modo un mal celato desiderio e una non confessata connotazione sessuale.
Antonio procede senza farsi troppe domande.
Cammina sino a quando incrocia lo sguardo del figlio della donna. E’ davanti a questo sguardo adulto e giudicante del bambino che si sente nudo e si vergogna.
Nell’esempio citato sono presenti espressioni e comportamenti tipici della vergogna, sui quali è conveniente soffermarci.

3.    Espressioni  mimiche e comportamento della vergogna.
Antonio sotto lo sguardo del bambino arrossisce  in volto , china la testa , distoglie lo sguardo e prova un intensa vergogna, tale che vorrebbe scomparire, sotterrarsi, ecc.
Queste espressioni sono note da tempo e contano una lunga storia, risalendo, scientificamente , addirittura a Darwin. Il grande naturalista inglese, fondatore dell’Evoluzionismo, oltre alla sua fondamentale opera su “ L’origine delle specie”, a cui si dedicò per oltre 20 anni, ci ha lasciato un interessante saggio su:
“ The Expression of the Emotions in man and Animals” ( 1872 ), in cui tratta specificamente della vergogna.
In questo significativo lavoro Darwin descrive con molta precisione e acutezza le espressioni delle varie emozioni, tracciando un profilo classico della vergogna.
“Chi è in preda alla vergogna- annota Darwin – tiene la testa bassa, reclinata o volta altrove, lo sguardo diviene sfuggente ( “ diversione dello sguardo”), mentre la pelle si copre di rossore. Ma oltre a questa descrizione plastica della vergogna( cui si riferirono numerosi studiosi successivi) Darwin descrive scientificamente per primo, un altro aspetto fondamentale di questa emozione, destinato a future implicazioni :l’aspetto del desiderio di nascondersi, sul quale ritornerò. “ la versione della vergogna – egli scrive –  si associa a un forte desiderio di nascondersi”.
In mancanza di uno stimolo  o di un evento specifico che provoca vergogna, molti studiosi  hanno continuato a descrivere i suoi aspetti psicosomatici e comportamentali, anche su base sperimentale.
Cito il seguente esperimento abbastanza noto, che fu ripetuto da diversi ricercatori.

4. Un esperimento sull’origine della vergogna  nei bambini.

Un importante studiosa, la Zahn-Waxler, negli anni ’90 ha cercato di differenziare, sperimentalmente, la vergogna dalla paura nelle fasi precoci di vita.
Il suo schema sperimentale fu adottato e seguito anche da M. Lewis, della sua scuola.
L’esperimento si svolgeva nel modo seguente.
Un gruppo di bambini di circa 3 anni era introdotto in una sala da gioco, attrezzata con diversi strumenti di registrazione.
Ad essi veniva dato un giocattolo, costruito in maniera tale da rompersi dopo poche manipolazioni.
I bambini prendevano volentieri il giocattolo, che poco dopo andava in frantumi. Venivano registrate le risposte mimiche e comportamentali dei soggetti sperimentali dopo la rottura dell’oggetto.
Si verificarono diverse reazioni.
Alcuni bambini abbandonarono il giocattolo rotto e cercarono di trovarne uno intero sostitutivo.
Ma la maggior parte di loro mise in atto due  distinti comportamenti:
A)     – un sottogruppo divenne inerte e imbarazzato. Con occhi bassi, volto arrossato, smise di giocare e si ritirò un in angolino.
B)     – un sottogruppo rimase attivo e cominciò ad armeggiare intorno ai pezzi rotti nel tentativo di ricomporre il giocatolo.
I due distinti comportamenti furono interpretati:
A)     Reazione espressiva e comportamentale di vergogna.
B) Reazione espressiva e comportamentale di colpa (1)
5.   Vergogna e desiderio di nascondersi
“Scena primaria” della vergogna.

I bambini del giocattolo rotto e la storia di Antonio sembrano confermare che la vergogna si associa al desiderio di nascondersi.
Questo elemento è sottolineato da molti studiosi. Alcuni hanno, in tal senso, parlato di vergogna come “emozione visiva”(evitante lo sguardo).
Una soggettività portata a scomparire per molti segnala un aspetto nucleare della vergogna.
Esso sembra dunque rimandare alla “scena primaria”, non in senso psicoanalitico, ma piuttosto in senso originario, biblico.
Secondo la Genesi(2,7), Adamo ed Eva si aggiravano ingenuamente nudi nel giardino dell’ Eden, senza provare alcun senso di pudore o vergogna.
Ma dopo aver mangiato il frutto proibito dell’albero della conoscenza, “si aprirono loro gli occhi e conobbero di essere nudi ( ….)”. Allora si nascosero dalla vista del Signore tra gli alberi del giardino. Ma il signore chiamò l’uomo: “ Dove sei?” Questi rispose: “Ho inteso la tua voce, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto. Ma il Signore replicò: “ Chi ti ha fatto sapere di essere nudo? Hai forse mangiato dall’albero, dal quale ti avevo proibito di mangiare?”.
Nel racconto biblico la vergogna ha dunque un ruolo centrale.
Anche nel racconto di Antonio assai più prosaico, ritroviamo elementi analoghi.
Antonio passeggia spensieratamente per le vie della città e il suo sguardo si pose su una donna che lo attrae. Fissa la figura femminile con insistenza, senza provare vergogna.

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(1) E’ interessante notare che seguendo ben altre strade il sentimento di colpa viene associato alla  riparazione.
Ma lo sguardo del figlio lo fa sentire nudo- sono sue parole- e gli fa provare una vergogna tale che vorrebbe sotterrarsi. La vergogna, prima assente, si manifesta massivamente  sotto lo sguardo del figlio. E’ questo sguardo duro e severo che induce una riflessione su Sé , una consapevolezza della trasgressione e quindi la vergogna.

6. Vergogna e coscienza dell’Io.
(Identità)
L’analisi sin qui condotta lega la vergogna da una parte alla coscienza dell’Io (autoconsapevolezza, standard di modelli, valori e regole interiorizzate, ecc ) e dall’altra allo sguardo altrui, che riconosce l’ identità di chi si vergogna.
In altre parole la vergogna ha strette connessioni con la coscienza dall’Io (Identità) in entrambi i suoi segmenti:
dell’autoriconoscimento e dell’eteroriconoscimento, come meglio vedremo.
Mi sono a lungo occupata del problema della coscienza dell’Io, con particolare riferimento all’Identità dei sardi.
Ai fini del presente discorso mi limito a richiamarne, per grandi linee il concetto.
-          L’identità , a livello individuale (è identità  personale)e, per estensione, a livello collettivo(identità collettiva ) riguarda la coscienza dell’Io.
-          L’identità dell’Io istanza mediatrice tra mondo interno e mondo esterno, non è presente alla nascita, ma si struttura per tappe successive a partire da nuclei originari presenti nei primi mesi di vita. Si ritiene che intorno ai 18 mesi, il bambino, di norma, riesca a riconoscere la propria immagine riflessa allo specchio (stadio dello specchio).
Il riconoscimento dell’immagine allo specchio, tipicamente umano, si verifica soltanto in mammiferi superiori (scimmie antropomorfe  o delfini ed elefanti).
Lo stadio dello specchio è come è noto da molti Autori considerato come data di nascita della coscienza del Sé.
L’Identità ,da questo nucleo originario, si matura per tappe evolutive successive. A mio avviso un momento chiave è rappresentato dall’Adolescenza, che ho definito un “organizzatore dell’Identità” .

-          L’ Identità è l’autoconsapevolezza che un soggetto ha di se stesso come individuo distinto, identico a se stesso (da cui il termine identità), durevolmente nel tempo. C’è un filo rosso, identitario che lega il nostro passato col presente e con il prevedibile futuro.
-          L’autoconsapevolezza, poggia su un sistema interno auto regolativo.
-          La propria individuazione produce significati e opera in modo intenzionale, proponendosi come nucleo dinamico dell’esperienza.
-          L’Identità non è un dato , ma un processo, una costruzione che si elabora e struttura nell’intenzione tra mondo interno e mondo esterno.
-          L’Identità non si forma autarchicamente nel vuoto e nell’isolamento. Al contrario matura nell’interazione con altre identità, nella relazione interpersonale familiare, amicale, sociale, politica, religiosa, ecc.
-          L’isolamento, specie nelle sue forme estreme ( autismo) non porta all’Identità ma alla sua dissoluzione.
-          L’Identità è dunque sempre relazionale.

-         Nell’Identità, distinguo, seguendo Erikson (2) due segmenti interdipendenti.

a) – il segmento dell’autoconsapevolezza, cioè la coscienza di essere identici a se stessi durevolmente nel tempo.
b) – il segmento dell’eteroriconoscimento , il riconoscimento che gli altri conferiscono alla nostra Identità durevole.
E’  dunque nell’incontro che si realizza la coscienza di noi stessi e il senso vero dell’esistenza.
La vergogna è dunque correlata al Sé : chi si vergogna è sintonizzato sul Sé e giudica la propria soggettività come inadeguata o manchevole e, comunque, non corrispondente allo standard di regole e valori interiorizzati culturalmente. Ma questo giudizio sfavorevole su se stessi si correla alla valutazione negativa che il vergognoso attribuisce agli Altri.
La disistima del  Sé avviene sotto lo sguardo altrui.


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(2) E.H.Erikson, The problem of the Ego Identity in “ Journal of American Association”,IV,35,1939.

Molti Autori attribuiscono la formazione di una soggettività incline alla vergogna al tipo di educazione ricevuta (rigida, severa, svalutativa dell’autostima). Le prime umiliazioni infantili subite in famiglia ad opera delle figure genitoriali troppo punitive e d’altri vissuti di mortificazioni e insuccessi, specie adolescenziali , potrebbero riemergere nella vita adulta, quando il soggetto si trova esposto alla valutazione e al giudizio altrui.
E’ , a  proposito, da sottolineare che i sardi specie nelle aree rurali interne, vivevano proprio questo tipo di educazione.
Da ricerche condotte da me, ma soprattutto dalla mia allieva, la Prof.ssa M.P. Lai Guaita negli anni ’80  sulla personalità di base di gruppi sardi isolati (3) , risultò che i bambini vivevano acculturati ai modelli e regole familiari assai precocemente e con modalità punitive.
I piccoli godevano di una certa libertà solo nel  primo periodo di vita. Compiuto l’anno venivano educati assai severamente. Per quanto attiene il pudore, ad esempio, che ha stretti legami con la vergogna, risultò che ai bambini, specie se di sesso femminile, veniva proibito di mostrare le parti intime nude, anche nel più stretto ambito familiare, dopo i 12 mesi.

7. Vergogna e sguardo. La prospettiva fenomenologica:

Abbiamo spesso sottolineato che nella vergogna il desiderio di sparire , di eclissarsi.
E proprio in questa tendenza a scomparire sotto lo sguardo altrui risiederebbe il senso profondo e il segreto stesso della vergogna.
Ma perché voler sparire?
E che significato si può dare allo sguardo che induce un tale desiderio?.
Mentre al senso comune il guardare e l’essere guardati, rappresentano un’ esperienza consueta  e naturale, al senso psicologico e soprattutto al senso psicopatologico il guardare e l’essere guardati possono caricarsi di valenze complesse.
Nell’esperienza comune lo sguardo costituisce un tipo fondamentale di comunicazione umana. Il guardare e l’essere guardati sono alla base della possibilità di rivolgersi agli altri e al mondo, rappresentando “ una relazione esistenziale” tra due esseri umani : sono svelamento e scoperta, sono tutto l’uomo .( H.Ey,1989 ).
————————————————————————————————————————————————————-(3) M.P.Lai Guaita , Personalità e cultura in Sardegna, EDES, Cagliari, 1980
Anche per M.Scheler, il senso dello sguardo costituisce l’esperienza fondamentale dell’alterità.
E come tutte le esperienze dell’alterità, anche lo sguardo, può rovesciarsi nell’alienità.
Soprattutto sotto quest’ ultimo aspetto lo sguardo è stato analizzato  dall’indirizzo antropofenomenologico, specie  dalla scuola di Zutt (4)e da Sartre (5), che ci hanno lascito pagine memorabili, alle quali volentieri rinvio.
Mi limiterò a richiamare che  secondo la Daseinanalyse l’esistere è sempre coesistere (Mitdajein) esistere in comune con gli altri, con i famigliari, gli amici, i conoscenti, ecc.
E’ appunto nel mio nucleo  nodale del  declinarmi nel “ mondo comune” che l’esperienza dello sguardo diviene fondamentale.
Lo sguardo può essere amichevole, amoroso, solidaristico, ecc.
Ma non sempre è così, come specie la psicopatologia ci dimostra tramite la sua lente d’ingrandimento.  Anche in condizioni normali il guardare e l’essere guardati implica complesse dinamiche.
Per l’indirizzo fenomenologico, quando lo sguardo dell’Altro si posa su di me, in qualche modo, mi spossessa: mi inserisce nel suo campo e si prende una mia parte ; essere guardato inoltre, significa esporsi come oggetto sconosciuto al giudizio altrui o peggio significa esporsi al rischio di essere controllato, condizionato, limitato nella propria sfera d’azione, di scelta e di libertà.
E’ noto che , secondo la prospettiva sartriana lo sguardo altrui , posandosi su di noi ci rende oggetti, ci “oggettualizza “ e ci lega a chi ci guarda con un legame soggiogante. Lo sguardo dell’altro ci cristallizza in una dimensione reificata e ci rivela la difficoltà ( o l’impossibilità) di sfuggire a una condizione di dominazione e dipendenza. Solo restituendo lo sguardo si può attivare una alternanza e una dialettica. ( J.P.Sartre, 1943).
Per Sartre dunque “ la vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile, ma , in generale, di essere un oggetto,……La vergogna è il sentimento della caduta originale, non per il fatto di aver commesso questo o quell’errore, ma per il fatto che si è caduti nel mondo, in mezzo alle cose”( J.P. Sartre,1943).
A questo discorso non sembra estranea la tematica magica dell’occhio e dello sguardo, un tempo assai diffusa in Sardegna, sotto la forma dell’ ogu liau (occhio preso, legato).

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(4) Cfr.J.Zutt:  Der Lebensweg als Bild der Geschichtlichkett in “ Nervenartz”24,195, 177.
(5) Cfr. J.P:.Sartre : L’ètre et le nèant Essai d’Ontologie Phenomènologique, Gallimard, Paris,1947.
Questa credenza suppone che l’occhio possa intenzionalmente influenzare e aggredire persone, animali,cose, ecc recando danno.
L’occhio cattivo (ogu malu) è un occhio che , tramite lo sguardo, raggiunge l’oggetto della sua ostile intenzione e del suo malevolo desiderio.
S’ogu malu, raggiunto il suo obbiettivo, “prende”, “ porta via”, sottrae un bene, un benessere, una condizione vantaggiosa, ecc.
La vittima della fattura è legata e prigioniera.
Nella sfera del magico il ponnere ogu, (mettere l’occhio, gettare l’occhio, cioè fare la fattura), diviene una modalità di controllo sociale, tramite lo sguardo.
Queste molteplici problematiche si espandono e si arricchiscono di ulteriori valenze sul campo psicopatologico.
La psicopatologia dello sguardo si incontra soprattutto nei disturbi dissociativi.
In molti schizofrenici la problematica dello sguardo appare chiaramente alterata.
E dalla letteratura è riportata una vasta casistica.
Mi limito a riferire un esempio.
Un mio ammalato entrò in uno scompenso dissociativo con una sintomatologia riguardante lo sguardo.
Studente liceale brillantissimo, nell’ultimo trimestre del terzo anno, cominciò ad accusare difficoltà nell’uscire di casa. Giustificò inizialmente questo suo comportamento, che diradava sempre di più la sua consolidata abitudine di passeggiare per le vie cittadine con motivi vaghi e generici. Ma persistendo tale difficoltà, pressato dai genitori, confessò di “ non poter uscire per la strada, incrociava sguardi che  lo giudicavano malevolmente”.
Teneva perciò la testa bassa, proteggendo il più possibile il viso con il bavero sollevato della giacca o del cappotto e  indossando un berretto a visiera particolarmente coprente.
Lo sguardo altrui gli divenne sempre più angosciante e ostile.
Temeva d’essere guardato persino dai propri genitori, verso i  quali aveva in passato nutrito affetto e confidenza.
Peggiorando nella sua condizione, anche il suo stesso sguardo riflesso dagli specchi, gli divenne insopportabile.
Disperato, oscurò tutti gli specchi e le superfici riflettenti della sua stanza, ove finì per rinchiudersi, non prima di aver trasformato il suo letto in una sorta di fortino impenetrabile, blindato da cortine e tendaggi che lo rendevano invisibile allo sguardo altrui”.
Nella stessa tragica storia di Marco, riportata nel” Isola dei coralli” l’occhio e lo sguardo hanno una forte pregnanza.
L’immagine dell’occhio campeggia emblematicamente nella sequenza dei disegni che illustrano l’uccisione della “bambina della fontana”( come egli aveva ribattezzato la sua prima piccola vittima).
In uno di questi disegni l’occhio s’impone , isolato, quasi personalizzato, contornato da frecce che si orientano in una molteplicità di direzioni.

Questa rappresentazione grafica tende a confermare l’occhio come dotato di valenze e di sguardi pluripotenti, se non onnipotenti, già assorbiti nel vissuto delirante di grandezza.
La figura richiama simbologie dell’occhio “onniveggente”, presente in antichi miti e religioni, nonché in inquietanti moderne metafore da “grande fratello”.
In questa fase, Marco, da soggetto marginale, svalutato e schernito dalla sua comunità , ha già strutturato un delirio di onnipotenza, mediante il quale egli si sente padrone di Sé e del Mondo, dotato di poteri straordinari. Attraverso l’occhio – che – vede –  tutto, che tutto controlla e condiziona, può finalmente esistere e contare, almeno nella esperienza delirante.
In conclusione secondo l’indirizzo fenomenologico la vergogna è una particolare forma di esistenza umana.
In tale prospettiva una persona non ha vergogna, ma è – nella –  vergogna, come modalità in autentica, illibera, umiliata, soggiogata di declinarsi nel mondo.
E’ un – essere svantaggiato – davanti agli  Altri, giudicanti e condizionanti.
Sono gli Altri che, con il loro sguardo ci rivelano la nostra stessa inadeguatezza che prima ignoravamo. Gli Altri ci pongono in una situazione sfavorevole.
Vengono in mente le straordinarie parole che Dostoevskij mette in bocca a un Karamazov nella sua confessione al padre Zozima.
Questi gli aveva suggerito di “ non vergognarsi troppo di se stesso”, poiché la sua spavalderia, i suoi errori e comportamenti negativi derivavano tutti dalla vergogna.
“Con questa osservazione- risponde Fedor Karamazov allo starec- voi mi avete bucato da parte a parte, mi avete letto dentro… Quando vado da qualcuno – egli continua- mi pare sempre di essere il più abbietto di tutti e che tutti mi prendano per un buffone… e allora divento spavaldo per diffidenza e faccio il buffone… faccio il buffone per vergogna. Se fossi sicuro che quando entro tutti mi accolgano come persona intelligente e simpatica, Dio, allora come sarei buono!”.
Nella vergogna c’è dunque una Anteriorità e una Superiorità degli Altri. Sono gli Altri che mi giudicano e mi eccedono e mi rivelano una condizione manchevole in una relazione asimmetrica e penalizzante.

8. Insuccesso e vergogna.
La prospettiva cognitivista.

Da una prospettiva cognitivista la vergogna è analizzata all’interno dell’ottica generale che riporta al centro l’attività mentale (specie i processi cognitivi ), di un soggetto intrinsecamente attivo che agisce secondo scopi e che esprime un comportamento basato su regole.
In questo orizzonte concettuale, confortato da risultanze sperimentali (derivanti da diverse discipline) l’attenzione si è focalizzata sulle dinamiche cognitive ed emozionali che conseguono alle esperienze di successo/insuccesso.
Poiché anche nell’esperienza quotidiana sentimenti di umiliazione e vergogna possono conseguire a insuccessi e fallimenti, alcuni Autori hanno voluto verificare sperimentalmente tale assunto.
Ma anche questa verifica è risultata complicata, poiché non tutti giudicano allo stesso modo il successo o l’insuccesso ottenuti.
Due esempi banali possono illustrare meglio questa difficoltà.
Una studentessa- che chiamerò Angela – uscì raggiante dalla sala ove si svolgevano gli esami di psicologia sperimentale. Le chiesi che voto avesse preso e lei, sempre sorridente rispose di aver ottenuto il 18.
Mi meravigliai, ma Angela mi rassicurò : aveva bisogno comunque di superare l’esame in vista di un suo progetto di vita e il 18 le andava benissimo (lo considerava un successo).
In un’altra occasione una studentessa – che chiamerò Sofia – uscì invece piangente e sconfortata dopo aver sostenuto un esame per il quale aveva ottenuto il 30, senza la lode accademica. Fu l’unico caso che ricordo di pianto dopo un 30!
Ma le sue parole chiarirono il suo sconforto: “ Avevo studiato tanto e meritavo di più. Io valgo di più!”.
Anche in seguito ebbi modo di considerare i suoi elevati livelli di aspettativa e l’alta considerazione che Sofia aveva di se stessa.

Questi due esempi estremi dimostrano che sia l’insuccesso che il successo sono valutati non solo secondo parametri esterni ( esito favorevole o sfavorevole) , ma anche secondo parametri interni (standard di regole e valori personali, livelli di aspettativa, progettualità, ecc.).
L’osservazione empirica che alcuni soggetti attribuiscono il successo prevalentemente o esclusivamente al proprio merito e l’insuccesso alla cattiva sorte o a cause esterne avverse e’ stata sottoposta a verifiche sperimentali.
In alcune ricerche, ad esempio, gruppi di studenti furono valutati secondo il parametro successo/insuccesso e la conseguente attribuzione cognitiva.
Risultò così che alcuni attribuivano il successo al proprio merito e scaricavano l’insuccesso su cause esterne (sfortuna, malevolenza dei giudicanti, circostanze sfavorevoli, ecc.).
Altri studenti invece si mostravano più responsabili attribuendo l’insuccesso al personale demerito (scarsa preparazione, insufficiente concentrazione ,errori, ecc.).
Nelle stesse ricerche in campo scolastico emersero anche differenze di genere.
Risultò infatti, una differenza significativa tra maschi e femmine.
Le studentesse tendevano ad attribuirsi la responsabilità del proprio insuccesso, mentre gli studenti attribuivano il proprio insuccesso a condizioni esterne ( sfortuna, malevolenza dei professori, ecc.).
Si confermò così che le ragazze sono più responsabili e, per conseguenza, sarebbero più inclini alla vergogna.
L’attribuzione cognitiva: merito o demerito rispetto a un successo o ad un insuccesso è stato oggetto di diverse interpretazioni.
Una delle più convincenti ed accreditate è quella di Michael Lewis (6)
Per Lewis la vergogna è un’emozione complessa, riferita al Sé referenziale che permette di valutare il proprio comportamento, secondo standard di modelli e valori interiorizzati, in situazioni che espongono il soggetto al giudizio altrui.
L’attribuzione cognitiva di un demerito rispetto ad un insuccesso o fallimento può essere, secondo Lewis, di due tipi. E cioè :
1)      Di tipo globale ( che investe l’intera personalità)
(vergogna)
2)      Di tipo specifico (  che riguarda singole azioni )
(colpa)
Il primo tipo susciterebbe la vergogna.
Chi si vergogna prova un emozione molto forte che coinvolge l’intera personalità (attribuzione globale).
Il ragionamento sottostante, reso in semplici parole, sarebbe il seguente: “ prendo coscienza che ho fallito o trasgredito –> sono un fallito, un trasgressore -> sono un uomo cattivo –> mi vergogno di me stesso.”
La vergogna , come emozione ad attribuzione cognitiva totale, che coinvolge tutta la personalità, comporterebbe il blocco d’ogni proposito, progetto e prospettiva.
Chi, invece si sente colpevole opera una attribuzione cognitiva di tipo specifico, che non riguarda l’intera personalità, ma le singole azioni che hanno portato all’insuccesso.

————————————————————————————————————————————————————-(6) M.Lewis, docente di psicologia, membro di diverse accademie americane e giapponesi, è considerato il massimo studioso dello sviluppo emozionale. E’ autore di Shame The Exposed Self(1992), tradotto in varie lingue, reputato un fondamentale contributo alla conoscenza della vergogna
Il suo ragionamento sarebbe il seguente: “Prendo coscienza di aver sbagliato -> devo non farlo più -> devo correggere le azioni impulsive o errate -> intendo non ripetere gli errori e rimediare”.
Alla colpa anche per Lewis, si associa il concetto di riparazione, che manca invece nella vergogna.
La vergogna, inibendo l’azione e la progettualità, sembra , lo ripeto , determinare effetti più negativi. Chi fallisce e si vergogna – conclude Lewis 1990 – opera come si è detto un attribuzione globale, si concentra su se stesso e non sulle proprie azioni : così ripiegato diviene incapace di agire, mentre è portato a nascondersi.
Nell’attribuzione cognitiva specifica , invece, la persona non si focalizza su se stessa, ma sulle sue singole azioni specifiche.
L’iniziativa e l’azione non vengono bloccate e si fa strada il proponimento della riparazione e del recupero. Questi concetti sono riassunti nella seguente tabella ( fig.2).

Schema caratteristiche della vergogna e della colpa *
(Secondo Lewis – modificions)


Vergogna                                                                                  Colpa
Riferimento primario al Sé referenziale(autoconsapevolezza)            Riferimento al Sé referenziale

Riferimento al etero-riconoscimento                                                 Riferimento all’etero-riconoscimento
Consapevolezza della manchevolezza ,                                            Consapevolezza della manchevolezza
(errore e insuccesso,sotto lo                                                                (errore e insuccesso secondo un parametro
sguardo  altrui).                                                                                            Etico).

Attribuzione cognitiva globale                                                              Attribuzione cognitiva specifica
Blocco di propositi e progetti                                                                Intenzioni e azioni riparatrici

*M. Lewis- modificato
Per alcuni autori la vergogna sarebbe più un’ emozione del Sé, mentre la colpa sarebbe più un emozione morale.
(P.E. Ricci Bitti, 2005).
Per Lewis, dunque, ci sono personalità che tendono a “ globalizzare” e altre che tendono a “differenziare” .E  noi sardi siamo dei “globalizzatori” o dei “ differenziatori”?.
A questa complessa domanda si cercherà di rispondere successivamente.

9.  Identità collettiva e vergogna
I sardi sono vergognosi?
Se si tenta di trasferire questo complesso e lungo discorso del fallimento da un piano individuale ad uno collettivo, emergono non poche domande e riflessioni intorno alla nostra identità, ai nostri
comportamenti e alle nostre risposte emotive ai molti insuccessi e fallimenti, di cui è costellata la nostra storia.
Partendo dalla mia prospettiva ho studiato a lungo l’Identità dei sardi, orientandomi verso un Identità problematica, rientrante, per grandi linee, nello spettro depressivo.
Le considerazioni che mi hanno portato a questa conclusione, espressa soprattutto nell’”Isola dei corali – Itinerari dell’Identità “, sono molteplici.
Nel ricostruire la nostra identità collettiva ripercorrendone i tortuosi percorsi dalle Carte d’ Arborea “ Romanzo familiare  delle origini “a  G.Deledda, S. Satta, A.Gramsci, E .Lussu, G. Dessì e F. Ciusa , ho delineato il profilo d’un popolo alla ricerca d’una più piena coscienza di Sé.
La nostra letteratura, e la nostra arte, ecc che, in un certo senso rispecchiano la nostra immagine, sembrano parlarci di una coscienza infelice, d’una sofferenza diffusa che si esprime nella precarietà dell’esistenza, nella sottostima e nella paura per un incerto avvenire.
Queste emozioni entrano nel grande ventaglio della depressione, depressione non intesa come vera e propria malattia, ma come diffuso scoramento. (7)
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(7) Non è da trascurare il fatto che i sardi esprimono altissimi tassi e incidenza di malattie depressive, secondi in Europa, solo alla Svezia
Ho perciò parlato di “ cultura depressogena” e poiché la depressione è strettamente legata alla creatività, ho anche affermato che la nostra cultura è creativogena.
Ora, in base a queste nuove riflessioni e all’analisi di altri aspetti emozionali e comportamentali, possiamo affermare che i sardi oltre che depressi sono vergognosi?
Domanda complessa alla quale non posso dare attualmente una risposta esaustiva.
L’analisi sin qui condotta mi suggerisce tuttavia che alcuni passaggi sull’identità sarda, tracciati da grandi intellettuali potrebbero  avvalorare la reazione di vergogna e le sue conseguenze psicologiche.
Il primo passaggio, assai noto, è quello di Emilio Lussu sulla nazione mancata, che tanto ha fatto discutere.
E. Lussu, che può essere considerato il padre della Sardegna moderna, fu anche un profondissimo conoscitore dell’identità del suo popolo. O meglio ne fu l’espressione più autentica e significativa.
Altrove ho scritto :  “se si potesse rappresentare un popolo con un solo uomo, se fosse lecito scegliere l’uno per il tutto, si dovrebbe probabilmente scegliere Emilio Lussu per rappresentare la nostra identità “ (8).
Sottoscriverei anche oggi questa impegnativa asserzione poiché sono convinta che Lussu fù – come è stato giustamente definito – il “prototipo del sardo per eccellenza”.
Egli non ebbe – com’era d’altronde un suo stile cognitivo- una concezione trionfalistica dell’identità del proprio popolo.
Nel notissimo saggio richiamato per indicare la difficoltà a procedere nella consapevolezza di noi stessi e nella linea della nostra storia, egli si avvale dell’espressione di “ nazione mancata” e più precisamente afferma:
“ la disunione è la nostra prima impronta. Noi siamo tutti maledettamente individualisti, con tutti i guai che l’individualismo, questo orgoglio mal piazzato, comporta. E’ che sentiamo di essere figli di una nazione mancata , senza ancora avere piena coscienza e voler riconoscere che così doveva essere, ne poteva essere diversamente, che un Isola così piccola …. Con questa sua posizione nel Mediterraneo, non poteva in nessun secolo, vivere indipendente e sovrana.
————————————————————————————————————————————————————- (8) Cfr. N.Rudas: Il problema identitario tra memoria e progetto, in “ La Sardegna nell’Europa di ieri, di oggi e di domani”, quaderni dell’unitrè, Ed.Punto A., Cagliari, 2004.

Questa nostra ostinazione a non voler ammettere la fatale sconfitta collettiva come popolo, ci ha solo offerto la rivincita di un ripiegamento sulla personalità del singolo”. (9).
Leggendo attentamente questo testo, si può agevolmente osservare che Lussu non dice quando e perché naufragammo.
Dando per scontata la fatale sconfitta , ne deduce che noi sardi siamo cittadini di una “nazione mancata”. E come tali mostriamo alcuni tratti caratterizzanti la nostra personalità (incapacità aggregativa, orgoglio, individualismo, ecc.).
Questi tratti sono per Lussu riferibili alla consapevolezza che ogni sardo ha, a suo modo interiorizzato di quel fallimento. Quel naufragio non comportò solo una ferita, un amputazione, una mancata realizzazione (non raggiunta sovranità), ma implicò soprattutto la mancata metabolizzazione del lutto. (10). Noi sardi, non solo fummo sconfitti (evento esterno)ma rifiutammo la sconfitta ( evento interno).
La mancata elaborazione della perdita ci avrebbe così avvolto nella rete insidiosa del lutto non risolto (depressione).
Sconfitti, non avremo saputo / potuto accettare un “ esame di realtà” ( condizioni storiche, geopolitiche, strategiche, ecc.).
Sprofondati in un “lutto senza fine” la nostra energetica mentale sarebbe rimasta imbrigliata e sterilmente bloccata . Questo passo e altri suoi scritti sulla “ nazione mancata” hanno fatto e fanno discutere.

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(9) Cfr.E.Lussu, La Brigata Sassari e il Partito Sardo d’Azione, Il Ponte, sett.-ott.-,1961
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(10)In termini psicodinamici la perdita di figure concrete (ad esempio la scomparsa di persone amate o di figure astratte e simboliche, quali la patria, gli ideali, la libertà,ecc.) mette in moto un processo doloroso (lutto). Nella maggior parte dei casi la situazione luttuosa, anche per le perdite più gravi, va incontro a un “metabolismo” che, attraverso diverse fasi e tappe, alla fine porta alla risoluzione spontanea del lutto stesso. Nell’elaborazione del lutto e nella sua evoluzione gioca un significativo ruolo “ l’esame di realtà”( irreversibilità della perdita). Il soggetto allora ritira le vettorialità affettive dall’”oggetto” perduto e diviene di nuovo libero di investire le proprie cariche energetiche su nuovi “ oggetti” d’amore e può continuare la sua strada e la sua storia nel mondo. In certi casi, invece, il metabolismo del lutto si inceppa o si stravolge, sconfinando in ulteriori sofferenze e impedimenti.

L’obbiezione più forte è che l’intero e lungo percorso della Sardegna ( dalla sua preistoria con il fiorire di una straordinaria e originaria civiltà sino ai tempi in cui Lussu scriveva), percorso in cui si sono sedimentate millenarie eredità, esperienze multiformi, non può essere ridotto al senso unilaterale di un fallimento e di un naufragio.
D’altronde anche i naufraghi e i vinti hanno una storia, storia nascosta, frammentaria, dispersa,che attende ancora di emergere e di essere ricomposta e ricostruita.
Compito della nuova generazione degli storici (come stanno già facendo) sarà quello di vedere più chiaramente nel nostro passato e di dire : se, quando, e perché naufragammo.
E soprattutto se nonostante il naufragio o i naufragi, abbiamo potuto raggiungere soddisfacenti modalità di auto-organizzazione ( non necessariamente nelle forme delle nazioni e degli stati nazionali).
E, infine, se, malgrado quel fallimento, abbiamo conservato una sopravvissuta coscienza di noi stessi e come essa possa evolvere in quali future forme.
Ma Lussu non fu il solo a parlare dei naufragi, fallimenti e fratture.
Altri studiosi, che hanno riflettuto criticamente sulla nostra Identità, vi hanno fatto riferimento.
Michelangelo Pira, studioso di grande acutezza intellettuale e conoscitore profondo dei temi dell’Identità e dell’autonomia della Sardegna, parla anch’egli  di una traumatica “sconfitta”, anzi di una “reificazione” : perdita del Sé collettivo (11).
Nel suo straordinario libro “ La rivolta dell’oggetto “ egli esamina il drammatico conflitto tra la cultura sarda ( pastorale, egualitaria, fredda, orale, chiusa sino a ieri in villaggi che erano universi chiusi e “familistici”) e le culture “ altre” (specie quella italiana), culture dominanti, aggressive, folklorizzanti.
Nell’urto oppositivo di poteri e di modelli culturali, la Sardegna uscì perdente. E via via fu “ reificata” resa oggetto , privata della sua soggettività. Sembrano qui risuonare le parole di J.P. Sartre dell’”Essere il Nulla”.
In un itinerario interno al proprio mondo M. Pira,  tenta di decodificare e ricostruire i veri significati della cultura di appartenenza, che le culture egemoni hanno falsificato, mistificato, massificato.

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(11) M.Pira, La rivolta dell’oggetto, Antropologia della Sardegna, Giuffrè, Milano , 1978.
Nell’analizzare il conflitto che ha perduto la Sardegna, egli ne indica i devastanti effetti.
I sardi sconfitti, sono stati deprivati dei propri segni ( Sos sinnos )delle parole , dei codici del proprio gruppo e strappati alla cultura d’origine e alla solidarietà del proprio contesto etnico e sociale.
Nonostante questa terribile sconfitta ”l’oggetto” Sardegna può, anzi, deve, rivoltarsi.
Michelangelo Pira definisce così un Identità reificata e lacerata, ma ancora capace di re-istituirsi come soggettività storica, delineando così un profilo identitario relazionale e dialettico.
Da un’altra prospettiva alcuni aspetti dei nostri comportamenti individuali e collettivi e i loro correlati simbolici, parlandoci di perdite, lutti e sconfitte, sembrerebbero verificare i precedenti assunti.
Se , ad esempio, si esamina il romanzo sardo ( da Grazia Deledda a Salvatore Cambosu, da Giuseppe Dessì a Salvatore Satta, ecc.) esso appare pervaso da una tristezza, da un sentimento di caducità e nostalgia immobile che si sposano a un “ attaccamento” tenace e nel contempo insicuro alla propria terra. (12)
Ma questo fortissimo legame simbiotico alla nostra piccola patria ( intesa come madre) non tende ad evolvere nel necessario distacco, limitandoci nella nostra autonomia e autorealizzazione.
Si avverte qui una frattura non superata, una perdita drammatica.
Ecco perché noi sardi benché razionalmente consapevoli dell’improbabilità storica di un naufragio fatale, sentiamo nell’amara espressione di “nazione mancata” un nucleo di verità.
E’ come se Lussu con queste dure parole abbia messo a nudo un’ ombra profonda,un umiliante manchevolezza, “un male oscuro” del nostro più intimo sentire.
E’ certo però che Lussu andò successivamente maturando un esperienza culturale e politica d’ampio respiro.
Nel nuovo orizzonte egli pervenne a una concezione meno autoreferenziale, più dinamica, aperta e progettuale.
Infine, Placido Cherchi parla della “vergogna del sé”  dei sardi, includendola del capitolo dedicato al senso dell’identità come autocoscienza depressiva.(13)
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(12) Cfr. N.Rudas, L’isola dei coralli Itinerari dell’Identità, op.cit.
————————————————————————————————————————————————————(13) Cfr. P. Cherchi, Per un identità critica. Alcune incursioni auto analitiche nel mondo identitario dei sardi, Arkadia Editore, Cagliari, 2013.
Per questo autore la memoria identitaria è andata perduta a causa delle molteplici ferite storiche che i sardi hanno subito. “ Più giusto sarebbe parlare di una non – memoria, di una memoria erasa(cancellata, scorticata).”
In questo contesto egli collega la” vergogna” al processo di deculturazione nella fase della cosiddetta modernità. Questa avrebbe provocato delle massicce devastazioni e comportato la vergogna di sé.
Tuttavia l’esperienza di vergogna costituisce un “ passaggio depressivo che segna il movimento iniziale dell’auto-coscienza, ma è anche il punto di partenza delle dinamiche che arrivano a rovesciare la vergogna nel suo contrario”.
Per Placido Cherchi la vergogna si connette strettamente al senso dell’Identità, secondo un colorito depressivo.
Questi  grandi studiosi e intellettuali sardi, parlano delle condizioni storiche negative, di fallimenti e di reificazioni che i sardi subirono.
E sembrerebbe perciò abbastanza agevole ricollegare, alla luce di quanto sin qui esposto, il fallimento, la reificazione e l’erasione della memoria identitaria  alla vergogna.(14)
Al “fatale fallimento” della nazione sarda evocata da Lussu, possono essere ovviamente seguiti emozioni diffuse di vergogna.
Ed  è altrettanto facile collegare la reificazione,  la oggettualizzazione della Sardegna (ad opera di culture egemoni ) al discorso oggettivante dello sguardo che induce vergogna.
Lo sguardo pietrificante dei nostri dominatori ci potrebbe aver reso “oggetti”, anzi “oggetti vergognosi”.
E la nostra caduta come oggetti, tra gli oggetti del mondo, è infatti per Sartre il nucleo e il segreto stesso della vergogna.
Si può, inoltre, facilmente ricondurre il discorso sulla vergogna svolto da Cherchi a una deculturazione imposta oppressivamente dall’esterno, che ci avrebbe fatto sentire inadeguati, manchevoli, incapaci di entrare nella modernità e quindi vergognosi.

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(14) Nell’”Isola dei coralli” ho parlato di alterazioni della memoria. A mio avviso i Sardi non sono affetti da scarsa memoria, ma, al contrario ne sono dotati in grande misura. La nostra memoria però si è difensivamente inabissata dentro la nostra interiorità diventando segreta e labirintica. Cfr. N. Rudas, op.cit.pag.269.
Ma occorrono ulteriori verifiche e più accurati approfondimenti.
Il discorso ritorna ai suoi assunti iniziali e si conclude.
Falliti, vinti, depressi e vergognosi o altro: questo è il nostro passato, la nostra eredità storica.
Ma ritengo che tutti  i loro correlati emotivi conseguenti agli eventi negativi, debbano essere considerati dinamicamente, anzi dialetticamente.
Non si tratta di stati assoluti, dati – per sempre, ma di processi dinamici reversibili.
E come tali essi possono essere oltrepassati e superati.
Sono fermamente convinta delle grandi qualità e capacità creative dei sardi, che vivono, operano e abitano in una delle più belle e straordinarie isole del Mediterraneo e, forse del Mondo.
Queste condizioni di base, assolutamente positive, fanno sperare in futuri successi favorevoli.

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