sabato 23 settembre 2017

Linguaggi, migranti e maschilismo

conversazione di Paola Del Zoppo con Chiara Saraceno


Il 20 luglio l’Espresso online ha pubblicato una breve intervista alla sociologa Chiara Saraceno dal titolo accattivante: Il maschilismo è ormai sdoganato. Nell’intervista, alla professoressa Saraceno veniva chiesto di intervenire su una molteplicità di interrogativi contemporanei, con un chiaro filo conduttore in trasparenza: la violenza contro le donne. Erano i giorni delle “ombrelline” dello stupro di gruppo definito una bambinata, e di lì a poco del “Dipartimento Mamme”, e la discussione sulla parità si incentrava sulla formazione delle giovani generazioni, sul riconoscimento delle piccole discriminazioni e sulla – gravissima – situazione di sessismo diffuso dai media, dove ancora il corpo delle donne è strumento di segregazione, sottomissione, supremazia dello sguardo maschile e, di conseguenza, del sistema patriarcale e maschilista. Chiara Saraceno toccava inoltre il problema degli altri paesi, ad esempio la Germania, e la problematica del linguaggio sessista e categorizzante che dai media e dai social si diffonde nelle interazioni microsociali, e viceversa. L’accusa di Chiara Saraceno è chiara e diretta: «Il maschilismo è sdoganato. E la battaglia è sempre più difficile perché si nutre della presunzione che in fondo alle donne vada bene così. Che per il fatto di essere libere di agire, di vestire, di determinarsi, in fondo accettino come del tutto normali comportamenti maschilisti: “Non facciamo drammi, che sarà mai”, è l’atteggiamento che si sta facendo strada. Come dire: sarebbe bello che certe cose non accadessero, ma le vere tragedie sono altre».
L’intervista dell’Espresso però, sembra assottigliare e ridurre alcune problematiche, e ha provocato delle reazioni non sempre positive, soprattutto per l’interpretazione di espressioni a loro volta “categorizzanti”, che non restituivano la giusta profondità di pensiero alla studiosa, e che rischiavano di essere controproducenti rispetto al messaggio che Chiara Saraceno intendeva trasmettere. Alcune perplessità si sono trasferite anche sulle bacheche social. In particolare ha colpito l’idea che esistano delle “culture migranti”: coloro per cui si è scelta ormai la definizione “migranti” sono spesso persone che non hanno la possibilità di vivere una vita dignitosa o che rischiano di non sopravvivere o di essere uccisi nei loro luoghi di provenienza, e non persone che presentano tra i loro core values l’attitudine allo spostamento. O anche l’affermazione che “nell’Africa subsahariana le donne non contano niente”, affermazione che andrebbe “etnorelativizzata”. Ci sono, insomma, molte questioni che nell’articolo andrebbero approfondite. Il problema si è generato probabilmente per l’adesione a uno “stile” ormai comune di intervista, al modo frettoloso di trattare i temi sui giornali, sui giornali online e poi sui social, dove spesso le bacheche fungono da camere d’eco e non da luoghi di discussione. Troviamo, nel dialogo con Chiara Saraceno, questioni fondamentali di questi giorni di fine estate: la critica alle frasi – strumentali – di Debora Serracchiani e la questione culturale e transculturale, che, appunto, riguarda anche la nostra “cultura italiana”, l’ambivalenza di questo nostro sessismo “liberale” è la condizione di effettiva sottomissione e categorizzazione della donna in Italia e in altri paesi cosiddetti occidentali. A proposito di attenzione al linguaggio, un termine a cui bisognava fare particolare attenzione è “disagio” con riferimento al mondo lgbt, perché si può intendere che la transessualità e l’omosessualità siano in sé disagi, mentre il disagio è creato dalla società che non accetta ciò che non è nel sistema. Tra gli interventi quello di Giuliano Lozzi, uno studioso di Gender e Queer Studies, che commenta: “l’uso del termine “disagio” […] è diventato consueto del vocabolario di alcune donne che si occupano da anni di diritti delle donne. Sicuramente esiste un fattore di semplificazione giornalistica, ma se dobbiamo prestare attenzione al linguaggio, come dice l’intervistata stessa, credo che qui esista un serio problema legato alla volontà di relegare alcuni esseri umani allo status di vittime”.
Allora la cosa migliore da fare è sembrata aprire un dialogo con Chiara Saraceno. Una pessima abitudine “social” del giornalismo online e dell’informazione contemporanea è quella di “slacciare le relazioni”, di assottigliarle e far sì che la critica a un discorso intellettuale resti “dove sta”, per costruire sulle critiche, slegate dal contesto discorsi che finiscono per essere validi in sé, in un atteggiamento che fa della finta informazione una macchina di produzione e intensificazione del narcisismo. Sulla libertà di intervenire e di disputare si interviene spesso, negli ultimi mesi, per contrastare un atteggiamento che sta ulteriormente erodendo un sistema di confronto di opinioni e di studi e un mondo giornalistico già ridotto ai minimi termini, e che sta contribuendo ad alimentare la cultura dell’odio e della giustificazione del pregiudiziocognitivo ad ogni livello, come racconta Anna Foggia in un articolo recentemente apparso qui su Comune.
Chiara Saraceno, con cortesia e puntualità, risponde alle domande e stimola una fruttuosa discussione sugli argomenti trattati.
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Buongiorno professoressa Saraceno, entro subito nel merito della questione. La sua intervista pubblicata sull’Espresso del 20 luglio 2017 ha suscitato alcune perplessità, in particolare in merito ad alcune scelte verbali. L’intervista mi è piaciuta molto e mi interessa moltissimo la denuncia del maschilismo “ormai sdoganato”, che di questi tempi va chiarita con energia. A maggior ragione fa piacere poter dialogare con lei sulle perplessità suscitate da alcuni punti dell’intervista. Ha creato alcune difficoltà innanzitutto la frase relativa alla donna nell’Africa sub-sahariana, perché alcuni affermano che non è così e che dunque la generalizzazione anche lì crea dei pregiudizi, può darci qualche approfondimento in merito alla sua affermazione?
Come tutte le interviste, essendo mediata da un intervistatore, qualche cosa viene tralasciato, qualche cosa viene enfatizzato, qualcos’altro viene riformulato. Ma devo dire che questa intervista coglie abbastanza fedelmente quanto ho detto e non mi sembra possa prestarsi a fraintendimenti. Quanto alle donne nei paesi dell’Africa sub-sahariana sono i dati di fonti del tutto attendibili a documentare che le donne ricevono molta meno istruzione degli uomini, vengono fatte sposare giovanissime e perciò spesso muoiono per parto e comunque fanno molti più parti di quanto il loro copro possa sostenere, sono discriminate nell’eredità e così via. Il che non significa che molte di loro, se riescono a sopravvivere, non siano donne fortissime. Essere vittima di discriminazioni gravissime non significa automaticamente anche essere intellettualmente deboli. Ma si hanno molto meno risorse, rispetto a fratelli e mariti, anche in società dove tutti sono poveri E, per quello che ci riguarda qui, i maschi in quelle società imparano fin da piccoli che loro contano molto di più delle loro sorelle e che un uomo può “avere” una donna molto più giovane di lui, con il permesso dei genitori di questa. Succede anche in altri paesi, ma il sub-Sahara è un concentrato di svantaggi per le bambine e ragazze.
Anche la frase di Debora Serracchiani – giustamente – criticata, nel rovesciamento assume contorni problematici, sebbene le intenzioni siano chiare, perché uno stupro è sempre gravissimo. Chi commette violenza contro le donne vuole acquisire o riacquisire un controllo su persone considerate “meno persone di altri” e non lo fa per soddisfare un bisogno fisico – come invece, sempre a favore degli uomini, si tende a far credere, instaurando e validando altre perverse dinamiche tra mascolinità e femminilità (ad esempio, la critica verso le donne che non “soddisfano” o la maggior mascolinità di chi “si prende ciò che è suo”). Questa mentalità non è presente solo nei paesi di provenienza degli stranieri, bensì capillarmente e in maniera intensa anche nel nostro, dove le donne, a parità di mansione guadagnano in media il 20 per cento in meno, in cui soltanto nel 1996 lo stupro è diventato reato contro la persona e non più contro la morale, in cui fino al 1981 esisteva il delitto d’onore, e ancora, in cui una donna su tre dopo la maternità lascia il lavoro. Quasi ridicolo pensare che fino a circa cinquant’anni fa, le donne non potevano entrare in magistratura perché si riteneva che nel periodo non potessero esprimere giudizi (e ancor più ridicolo e annichilente il fatto che le donne stesse usino il ciclo mestruale come finta autoironia: “Eh, mi stanno arrivando le mie cose, quindi attenti che sarò intrattabile per qualche giorno”). L’Italia è il luogo dove ancora si fanno battute a una donna come “Eh, ho visto Giovanni che girava con un supplì in mano, ma che non gli prepari da mangiare?”. Il momento centrale è dunque il riconoscimento che la violenza di genere e le discriminazioni nei confronti delle donne sono un elemento strutturale, capillarmente diffuso in Italia come in altri paesi e in altre culture. Capisco che il senso della sua risposta è proprio nell’idea che allontanare il problema da sé copre situazioni gravissime, a livello micro e macrosociale, ma la stessa separazione tra “stupro autoctono e non” andrebbe condannata con grande energia. 
Non credo affatto che una violenza commessa da un immigrato sia più grave di quella commessa da un autoctono perché il primo “ci deve gratitudine”. Se dovessimo cercare una aggravante alla già estrema gravità dell’atto, la troverei piuttosto nel fatto che molti violentatori hanno un rapporto intimo con le proprie vittime. Quanto alla differente gravità di una violenza commessa da un immigrato rispetto ad un autoctono, se dovessi trovarne una, rovescerei appunto il ragionamento: si presuppone che l’autoctono italiano appartenga ad una cultura in cui esiste la parità uomo-donna, lo stupro non è moralmente e penalmente ammesso e non lo è neppure la violenza nei rapporti interpersonali, tra uomini e donne, ma anche tra donne e tra uomini. Quindi l’autoctono che commette violenza compie consapevolmente un atto contro la morale e le norme condivise nel suo paese. Il che per me è una aggravante, tanto più che ormai anche tutti i razzisti e gli anti-immigrati si fanno belli della “nostra” maggiore civiltà nei rapporti uomo-donna e della uguaglianza e libertà che sarebbe da noi garantita alle donne.

Nell’intervista viene fatto un accenno alle politiche di integrazione di paesi diversi dall’Italia. “Dopo i fatti di Colonia, i paesi del Nord, Germania in primis, hanno proposto corsi di educazione sessuale per gli immigrati. Le sembra realistico anche da noi? – Certo: dovrebbe far parte della cultura civica spiegare agli immigrati le relazioni uomo-donna e il rispetto delle donne: a partire dal diritto delle ragazze di andare a scuola e della loro libertà nel vestire. C’è un abisso tra i nostri programmi di integrazione, con poche ore di italiano alla settimana, e gli investimenti che si stanno compiendo in altri Paesi. Con l’accoglienza di massa tutto ciò non è possibile. E le comunità locali, giustamente, si arrabbiano: ma abbiamo idea di quanto lavoro si riuscirebbe a generare se si investisse in una formazione a tutto tondo?”. Anche qui, si pongono diversi problemi di etnorelativizzazione, ma è la domanda ad apparire già strumentalmente etnocentrica: è semplificatorio e offensivo e infantilizzante definire dei corsi di formazione “interculturale” “corsi di educazione sessuale per gli immigrati”. Il provvedimento, preso dal governo dopo i gravi fatti di Colonia non è così “paternalistico” e viene in una società dove l’integrazione è vivace da più di mezzo secolo, e in cui molti musulmani (per esempio) hanno voce paritaria e condannano imam e politici che propagandano idee repressive contro le donne. La Germania è un paese dove in molti Länder, da qualche anno, a scuola si può scegliere di svolgere l’ora di religione in altre lingue e più specificamente sulle religioni dell’Islam, e dove è consueto il melting pot già dagli anni Ottanta (melting pot di cui facciamo parte anche noi italiani, che veniamo spesso tacciati di bigottismo cattolico, maschilismo, paternalismo e sessismo). Ricordo uno scandalo “interculturale” già molto prima dei fatti di Colonia, perché era stato impedito di predicare, a Berlino, a un ospite–imam che condannava le donne che uscivano e lavoravano. Ci fu un attacco terribile al sindaco di quella municipalità di Berlino, che fu difeso in televisione, tra gli altri, da scrittori turchi-tedesco, molto impegnati nella causa della transcultura, mentre l’associazione turco tedesca chiedeva il divieto di predica. Il sindaco di Neukoelln, attaccato per la sua “intolleranza” si appellava alla costituzione tedesca, il cui primo articolo recita “la dignità della persona è intoccabile” e difendeva dunque la dignità delle donne, mentre il senatore Henkel invitava le comunità islamiche a prendere una posizione chiara contro le esternazioni dell’Imam. L’equilibrio della gestione della questione interculturale, insomma, si gioca su livelli molto più profondi e paritari rispetto all’Italia, nella consapevolezza della pluralità delle voci in campo, mentre noi ancora riduciamo tutto, anche nel linguaggio, alle nostre categorie culturali.
Non mi sembra di aver sostenuto che quello della Germania sia stato un atteggiamento paternalistico nei confronti dei migranti. Al contrario ho sostenuto la positività dell’approccio tedesco: aspettativa che i migranti seguano le regole del paese anche per quanto riguarda il modo di trattare le donne, sostenuta e accompagnata da un forte investimento nella formazione sia professionale che civica. Per quanto riguarda nello specifico i rapporti uomo-donna, non si tratta solo di educazione sessuale, piuttosto di educazione ad una cultura di genere insieme meno rigida e cristallizzata su ciò che è maschile e femminile e più rispettosa nei confronti delle donne. Ho confrontato questo approccio, che ha sicuramente i suoi limiti e non può garantire automaticamente l’efficacia, del resto anche gli autoctoni non sempre interiorizzano questi valori, con quello italiano nei contesti in cui i centri di accoglienza sono per grandi numeri, con persone ammassate, spesso in modo indecoroso, per molti mesi, con poche o nessuna attività di integrazione, lasciate a sé stesse e alla propria inattività. Altra è l’esperienza Sprar, con accoglienza diffusa e per piccoli numeri, che consentono attività di integrazione intensive e coinvolgimento delle comunità locali.
Fortemente problematica è apparsa in particolare l’ultima risposta, In particolare, ad esempio, la parola disagio associata al mondo Lgbt, che, così sistemata, può dare adito all’idea che l’essere gay o transessuali costituisca un disagio in sé, mentre ovviamente è la società che non accettando o strumentalizzando certe condizioni crea il disagio.
Qui forse l’intervista è stata sintetizzata un po’ troppo o forse non mi sono fatta capire a sufficienza dalla intervistatrice. Ciò che sostengo anche in cose che ho scritto – da ultimo in Mamme e papà, il Mulino e L’equivoco della famiglia, Laterza – è che l’offensiva contro la cosiddetta teoria gender e contro l’educazione di genere nelle scuole parte da due malintesi non so quanto intenzionali. Il primo è che esista una e una sola teoria gender, il secondo, più grave, che parlare di genere significhi automaticamente sostenere che si può scegliere che orientamento sessuale avere e a quale sesso appartenere (due cose diverse, a prescindere che siano oggetto di scelta o meno). In questa prospettiva viene visto come potenzialmente rischioso anche qualsiasi messaggio che indichi che i ruoli sociali maschili e femminili non stanno in natura, che le donne e gli uomini, a prescindere dal loro orientamento sessuale e dal fatto che gli piaccia o meno essere nati in un corpo di donna piuttosto che di uomo, non sono, non dovrebbero essere, automaticamente destinati ad avere ruoli sociali predefiniti in base alla conformazione sessuale del loro corpo. L’ostilità alla educazione di genere, quindi, non solo si oppone al riconoscimento e accompagnamento di coloro che sono sessualmente attratti da persone del proprio sesso e di coloro che si trovano a disagio nell’identità sessuale loro attribuita in base alla conformazione sessuata del loro corpo. Impedisce anche di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti degli stereotipi di genere maschile e femminile, oltre che di quelli relativi alla omosessualità e transessualità.

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