venerdì 8 settembre 2017

È UN TERRORISMO CHE PARLA L'ARABO MA È ORMAI TUTTO EUROPEO - Fulvio Scaglione



La lunga striscia di sangue che attraversa i nostri anni più recenti ha una costante che è impossibile ignorare. A Parigi, all’inizio del 2015, fecero strage (17 morti) i fratelli Chouaki e il loro complice Koulibaly, nati e cresciuti in Francia e ovviamente cittadini francesi. Il 14 luglio di quello stesso anno, nel giorno della festa nazionale, un cittadino francese, Mohammed Bouhlel, travolge con un camion e uccide 86 persone sul lungomare di Nizza. Ancora a Parigi, ancora nel 2015 (novembre), 129 persone vengono assassinate, allo Stade de France, al teatro Bataclan e in altri luoghi, da terroristi con cittadinanza belga e francese, come sono pure quelli che, nel marzo 2016, uccidono 32 persone in diversi attentati a Bruxelles. Un anno dopo, il 22 marzo, anniversario della strage in Belgio, un cittadino inglese (Khalid Masoud), ammazza cinque persone a Londra tra il ponte di Westminster e il Parlamento. Il 22 luglio del 2016 è un diciottenne con cittadinanza tedesca ad aprire il fuoco sui passanti per le strade di Monaco di Baviera, in Germania, e a provocare nove vittime prima di suicidarsi. A Manchester, nel Regno Unito, è un ragazzo inglese a farsi esplodere tra il pubblico di un concerto pop. Bilancio: 22 morti. E a Barcellona, pochi giorni fa, avevano cittadinanza spagnola diversi dei terroristi che hanno fatto strage sulla rambla.
Gli altri terroristi, in questo orrendo giro del continente, anche se non avevano uno dei “nostri” passaporti, erano comunque quasi tutti immigrati regolari, con visti e permessi di soggiorno in regola, spesso con lavori assolutamente dignitosi e alla luce del sole. Questo dicono i dati, questa l’innegabile realtà. Se ne deduce che non possiamo più far finta di niente. E che dobbiamo, anzi, trarre le necessarie conseguenze.
La prima è che non possiamo perdere tempo ad angosciarci con l’equazione “immigrazione = rischio terrorismo”. È chiaro che non è così. I flussi migratori vanno ovviamente affrontati e regolati, ma per ragioni anche importanti che però con il contagio islamista non c’entrano nulla. Detto in altre parole: i terroristi non arrivano sui barconi. Seconda conseguenza: l’Isis, che rivendica tutto quanto di orrido succede in Europa e se ne attribuisce il “merito”, mente. Il Califfato è chiuso ormai in pochi lembi di Siria e Iraq e ha ben altri problemi. Non c’è nessuna regia esterna in questa sequela di stragi che sono organizzate nelle case popolari o nei garage dei quartieri di periferia delle nostre metropoli e hanno per autori dei giovanissimi che non sono stati da nessuna parte e non sanno nulla, né della politica né della vita, oppure (come a Nizza, a Londra e in altre città) degli uomini di mezza età anonimi, grigi, spesso alle soglie dello squilibrio mentale, inabili a una qualunque elaborazione ideologica o religiosa che non sia quella martellata nelle loro menti dall’indottrinamento occasionale.
Quello con cui ora abbiamo a che fare non è un terrorismo che dal Medio Oriente allunga i tentacoli in Europa ma un terrorismo compiutamente e perfettamente europeo. Che parli la lingua dell’islamismo è fattore ormai secondario, se non proprio irrilevante. Dobbiamo affrontare questo terrorismo come affrontammo, a suo tempo, le Brigate Rosse o i gruppi dell’estremismo nero. Liberiamoci al più presto delle residue pastoie, intellettualmente e politicamente mortificanti e soprattutto dannose, della teoria dello “scontro di civiltà”. Negli anni Settanta nessuno pensò che essere comunisti volesse dire essere anche brigatisti. Al contrario, i comunisti (che allora c’erano, ed erano tanti) furono uno dei bastioni decisivi nella lotta al terrorismo.
Oggi, con i musulmani d’Europa, ovviamente estranei, in quanto gruppo religioso e insieme di gruppi etnici, alla follia del terrorismo, dobbiamo tentare la stessa operazione. Stringiamoli ancor più a noi e alle sorti dei Paesi che li hanno adottati, per prosciugare lo stagno in cui nuotano gli aspiranti stragisti. I giornali di tutto il mondo da settimane si chiedono quale sia il “segreto” dell’Italia, che pare immune ai colpi del terrorismo islamista che, dalla Francia alla Russia, dal Regno Unito alla Finlandia, dalla Germania alla Spagna, ha seminato lutti in tutta Europa. Le ragioni sono tante, e difficili da analizzare. Ma una potrebbe essere questa.
Circa il 60% dei musulmani residenti in Italia è concentrato tra Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Regioni che hanno guide politiche assai diverse e in comune hanno solo una cosa: essere quelle più dinamiche dal punto di vista dell’economia. Non a caso tra i musulmani d’Italia il tasso di disoccupazione è all’8%, inferiore a quello nazionale (11%). Il lavoro, ovvero l'integrazione quotidiana, non quella delle teorie e dei libri, è forse la strada giusta.

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