giovedì 27 aprile 2017

Il caso di S.- un report di Luca Cumbo


S. nasce nelle campagne del sud del Marocco nel 1990. Arriva minorenne a Palermo, con due fratelli più piccoli, per ricongiungersi al padre, venditore ambulante da vent’anni in Sicilia e del quale oggi non si hanno più notizie.
Dopo un periodo di convivenza estremamente problematica col padre, S. si trasferisce prima da amici e poi in un centro d’accoglienza palermitano, mentre i due fratellini venivano affidati a due comunità dal Tribunale dei minori di Palermo.
Dal 2010 collabora volontariamente con il Centro Astalli di Palermo come operatore e come mediatore culturale, mettendosi generosamente a disposizione degli altri migranti.
Nel 2011 S. trova lavoro in un’impresa edile, quest’esperienza si rivela pesante: con il miraggio di un’assunzione, viene sfruttato e mal pagato per un lavoro duro, talvolta pericoloso e in nero.
Nel frattempo S. consegue la licenza media con ottimi voti e si iscrive con grande motivazione alla scuola superiore dove si diploma nel 2016, dopo cinque anni di impegno, non solo per le difficoltà linguistiche e per gli orari scolastici serali ma anche perché già dall’autunno 2011 si manifestano i primi sintomi della sua patologia psichiatrica, una psicosi paranoidea, che il ragazzo fatica ad accettare. Da questo momento in poi sarà seguito presso i servizi di salute mentale di Palermo.
Gli anni del liceo sono intervallati da ricoveri volontari; pur con qualche con difficoltà S. segue la propria terapia.
Nel 2014 il ragazzo subisce un travagliato TSO: egli stesso, convinto di essere vittima di persecuzione e minacce, chiama impaurito la polizia. Gli agenti lo trovano in stato di agitazione e reputano opportuno un intervento sanitario coatto. Durante quel T.S.O, avvenuto in maniera spropositatamente violenta – viene contenuto fisicamente dagli agenti e dagli infermieri “ex manicomiali” – S. non capisce, si dimena, oppone resistenza e per questo viene denunciato.
Dopo un lungo periodo di degenza al reparto di psichiatria di un ospedale palermitano, nel quale S. rimane per i primi giorni legato alle caviglie e ai polsi, viene tentato un percorso riabilitativo presso una clinica privata: S. risponde bene al trattamento farmacologico e alla psicoterapia e, al momento delle dimissioni, mostra maggiore consapevolezza nei confronti del proprio disturbo.
Durante i mesi di ricovero, S. continua a studiare e ottiene permessi speciali di uscita per sostenere interrogazioni e compiti in classe. I professori premiano il suo impegno ammettendolo al quarto anno nonostante le assenze per motivi di salute.
Dopo le dimissioni dalla clinica, S. inizia ad essere seguito nuovamente dai servizi pubblici di salute mentale e trova posto in una CTA (Comunità Terapeutica Assistita).
In questo periodo S. ottiene una borsa lavoro nell’ambito del progetto Comunità Urbane Solidali (in questo blog ne abbiamo parlato qui: http://www.labottegadelbarbieri.org/comunita-urbane-solidali/ ).
Dopo il diploma S. si iscrive così alla facoltà di Sviluppo Economico e Cooperazione Internazionale ottenendo una borsa di studio dall’Ersu con vitto e alloggio in una residenza universitaria.
La sintomatologia riappare in maniera più evidente già nel 2017 e manifesta il suo aspetto più acuto il 9 aprile 2017 alla mensa universitaria: all’ora di cena il ragazzo mette in allarme i commensali pronunciando parole a oggi ancora poco chiare ma che, in questo periodo storico di quotidiano allarmismo, vengono scambiate per un atto di terrorismo islamico.
Giungono sul posto le forze dell’ordine e i rappresentanti dell’Ersu che, pur conoscendo la storia clinica di S. e pur essendo evidente il suo stato di sofferenza, non reputano necessario nessun intervento sanitario. S. viene portato in caserma per accertamenti e poi rilasciato.
Comprensibilmente provato e nel tentativo di rielaborare quanto accaduto, il 13 aprile, accompagnato da tre volontarie, fra cui la responsabile della CGIL migranti di Palermo, S. si reca spontaneamente presso la clinica privata dove era stato seguito, con la volontà di effettuare un nuovo ricovero.
In clinica, mentre aspetta di incontrare il medico e avviare le pratiche del ricovero, S. viene contattato telefonicamente da un agente della Digos che conosce e di cui si fida, dando indicazioni precise sul luogo in cui si trova.
Qualche minuto dopo, altri due agenti della Digos giungono in clinica e lo prelevano senza attendere il colloquio con i medici. S. viene condotto presso il Pronto Soccorso del Policlinico Universitario di Palermo, qui lo aspettano anche i dirigenti dell’Ufficio Immigrazione della questura di Palermo: S. viene sottoposto a una brevissima visita medica e subito dopo trasferito all’Ufficio Immigrazione della questura dove gli viene revocato il permesso di soggiorno – la borsa di studio era stata già sospesa qualche giorno prima – e notificato un decreto di espulsione. Dalla questura S. viene quindi trasferito al Centro d’Identificazione ed Espulsione di Caltanissetta, il famigerato CIE di Pian del Lago.
Durante il trasferimento forzato, gli agenti minacciano S. di distruggere il suo computer sotte le ruote della macchina, lo ammanettano “a incrocio” e lo percuotono alla testa, provocando una ferita ancora sanguinante al momento dell’arrivo al CIE.
L’avvocato di S., Ileana Grottadaurea, in un comunicato stampa riferisce «Sono preoccupata per il mio assistito perché non ha potuto seguire la terapia. Fra l’altro mi ha mostrato alcuni lividi che, ha riferito, gli sarebbero stati provocati dagli agenti della Digos, durante il trasferimento al CIE».
L’udienza del 15 aprile convalida il trattenimento contro il quale l’avvocato presenta un ricorso per Cassazione: pur avendo necessità di cure specialistiche presso strutture adeguate e riabilitanti, S. è tuttora rinchiuso nel CIE di Caltanissetta.
«Ancora una volta assistiamo alla totale follia della normativa italiana e comunitaria per la gestione delle migrazioni e dell’accoglienza dei migranti» dichiara il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.
A favore di S. si espone anche il professor Daniele La Barbera, direttore della Scuola di specializzazione di Psichiatria dell’Università di Palermo, che sulla sua pagina Facebook dichiara: «Espellere una persona che invece può e deve essere curata è un atto razzista, oscurantista e di una indicibile violenza; non è in alcun modo accettabile sostituire una terapia con una punizione, le cui conseguenze, per altro, possono essere gravissime, proprio perché si tratta di un soggetto psicologicamente fragile. Addolora che un individuo affetto da un disturbo psichico debba ancora oggi essere considerato socialmente pericoloso piuttosto che bisognevole di cure».
Il 20 aprile 2017 il senatore Cotti del M5S presenta un’interrogazione parlamentare sottoscritta anche dai senatori Giarruso e Serra.
S. si trova ancora al CIE di Caltanissetta, non riesce a dormire la notte perché si è reso conto che i rimpatri avvengono a sorpresa a notte inoltrata, vive con la continua paura di essere espulso da un momento all’altro e di subire ulteriore violenza. Non è chiaro quanto e da chi la terapia farmacologica di S. sia “attenzionata” all’interno del CIE ed è comunque evidente che le sue condizioni di salute non possono che peggiorare in un contesto di reclusione.
E’ inaccettabile la detenzione di un ragazzo innocente, con un vissuto psichico così vulnerabile, che necessita un percorso riabilitativo in un ambiente protetto: S. ne ha pieno diritto, come immigrato, come persona.
E’ vergognosa la negazione della libertà personale, del diritto alla salute e allo studio; è scandaloso il tentativo d’espulsione verso un Paese a lui ormai estraneo e nel quale non ha nessun punto di riferimento. Verrebbe da pensare che S. verrà espulso a prescindere, per diventare un trofeo della politica razzista e securitaria del governo Gentiloni e del suo ministro Minniti.
S. può essere ancora salvato: l’immediata mobilitazione ha rallentato i tempi dell’espulsione: c’è la sensazione che al ministero dell’Interno abbiamo compreso il clamoroso boomerang a cui si stanno esponendo. L’impressione è che si voglia far calare l’attenzione sul caso e liberarsi di S. in silenzio, per non dire “abbiamo sbagliato”. Ormai è comunque evidente che S. non potrà essere più la prima “medaglia al valore” di Minniti: il caso è stato comunque smascherato, la sua espulsione non potrà essere sbandierata come successo delle politiche di prevenzione antiterrorismo.
Bisogna dunque continuare la mobilitazione, diffondere il più possibile questa storia e tenere alta l’attenzione su S. per restituirgli al più presto libertà e diritti.
Il rimpatrio forzato in Marocco rappresenterebbe un ulteriore trauma e non è affatto chiaro a cosa vada incontro esattamente: di certo la famiglia del ragazzo è ormai disgregata. Sarebbe strappato ai suoi punti di riferimento in Italia, il suo progetto di studio sarebbe bruscamente interrotto, gli verrebbe negato il diritto alla salute distruggendo tutto quello che, nonostante il disturbo psichiatrico e con grande fatica anche economica, S. ha costruito in questi anni in Italia.

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