domenica 19 marzo 2017

Glissant e la poetica dell’anticolonialismo - Armando Gnisci

Édouard Glissant è morto il 3 febbraio 2011. Se il 3 febbraio non fosse marcato dalla morte di Glissant, sarebbe un giorno dimenticato come tutti gli altri, in fondo alla tomba dell’indifferenziato, almeno per me. Era Glissant infatti, ed è, il mio maestro più potente nel mondo. Insieme al suo professore al liceo di Fort-de-France, piccola capitale della piccola isola della Martinica nelle Antille, Aimé Césaire, insieme all’altro allievo di Césaire allo stesso liceo, Frantz Fanon, tutti e tre meticci discendenti dalla tratta degli schiavi africani. Glissant ha segnato all’inizio degli anni 90 la mia svolta anticolonialista e transculturale. Mi ha messo sulla via della poetica della decolonizzazione degli europei e dell’anticolonialismo militante. Allora, la svolta creola avvenne per me al contempo con l’incontro con gli scrittori migranti del mondo che venivano a scrivere in italiano fra noi e che continuano a farlo. I tre maestri poetici martinicani – che non ho mai conosciuti di persona, ma di cui ho fatto tradurre dal francese qualche libro, di Glissant e di Césaire, il primo per Meltemi e il secondo per Città aperta, mentre il volto di Fanon lo misi al centro della copertina, multicolore e chiassosa, pensata insieme alla musica e alla copertina di un cd di Carlos Santana, su un mio libro per Odradek – scaricarono da dentro il mio spirito Heidegger, Gadamer, il pensiero debole ecc. mettendoli sotto il tappeto, e togliendo da sotto il tappeto l’introduzione di Jean Paul Sartre a«I dannati della terra» e il libro stesso di Fanon.
Che cosa ha insegnato Glissant a me e agli studenti che ebbi? Che gli europei devono cominciare a creolizzarsi, come fa il mondo tutto, seguendo i ritmi, i tempi, i paesaggi, la musica, la triste storia coloniale degli europei invasori, l’ardore dei poemi del Caribe nel «pensare con il mondo» (Glissant). Che noi europei siamo rimasti molto indietro, intanto, tutti presi dalla crisi finanziaria, dall’euro, dalla degradazione della nostra civiltà diventata incivibile1 e da altri mali. Mi insegnò che, per non restare sempre più indietro, dobbiamo re-imparare la nostra storia europea appunto “pensando con il mondo”. Ma l’inciampo e lo sbando sono che non sappiamo più farlo. Infatti, quando toccò a noi, nel e dal 1492, pensammo tanto il mondo che lo destrutturammo prendendolo in mano, e lo malmenammo da allora e tuttora lo malmeniamo, smemorati di non averlo mai amato. E allora, come facciamo a creolizzarci mentalmente noi europei? Facendoci amici dei migranti, visto che sono arrivati a vivere con noi, ascoltando le cose che loro dicono e che sono diverse dalle cose che diciamo noi. Diverse come? Molto diverse. Per conoscere la portata della diversità oggi cercate un libro di Glissant, «Poetica del diverso». Io cominciai da lì.
E cos’altro fece il maestro interiore per me? Mi insegnò che la creolizzazione va pensata così: il meticciato + l’imprevedibile, una relazione e una definizione impreviste, come Obama. Uno che troppo presto è svanito nel girone dell’impotenza. E cosa ancora dire di Glissant? Tutto il mondo, il Tout-Monde. Lo imparerete a vedere con lui: attraverso poesie, romanzi, saggi e un’antologia personale di scritture di poetici di tutto il mondo, e alla fine della sua vita, un libro non tradotto in italiano: «La Terre le Feu l’Eau et les Vents, une anthologie de la poésie du Tout-Monde» (Paris, Galaade Editeurs 2010).
Ma chi sono i poetici? Quelli come noi. Noi chi? Quelli che reiventano le proprie vite ogni venti anni, più o meno, e sono sempre, anche se in sofferenza, “innamorati del mondo” attraverso la poesia che rende poetici, se siete disposti ad accettare il loro pensiero arrivando a creare il futuro dell’imprevisto. «Innamorarsi del mondo attraverso i poeti» è il pensiero di un altro grande poeta contemporaneo delle piccole Antille, Derek Walcott, dell’isola di Santa Lucia, anglofono e Nobel della letteratura nel 1992.
So che cosa state pensando: perché non ci dici che cosa è un “tombeau”? La voce che lo spiega su wikipedia è felice, leggetela. Tombeau (tomba, sepolcro in francese) è un testo che fa un omaggio artistico, soprattutto musicale, al ricordo di maestri e amici defunti. Il più famoso tombeau, per me, è quello di Maurice Ravel, «Tombeau de Couperin», per solo pianoforte. Ravel così onora la fama e il ricordo di François Couperin, maestro della musica barocca francese [1668-1733]. Ravel, però, ha legato nella composizione questa memoria nobile con la memoria “sacra” di sette suoi amici morti nella Prima guerra mondiale. La suite per piano solo fu suonata la prima volta a Parigi nel 1919.
Adesso ripensate a Glissant, ascoltando con lui e con me, noi insomma, proprio la suite di Ravel captata da youtube. E se la musica che vi ho proposto vi attira ancora un po’, cercate e ascoltate anche quella di Couperin. Avrete agito così da transculturanti-in-via-di-creolizzazione, rizomatici incipienti e opachi, insaturi e vedenti. Avrete suonato il vostro piano europeo sulla tomba di Glissant, dovunque essa si trovi. Diventando così più creoli attraverso le sue parole e le sue concezioni. E cominciate, se non lo avete ancora fatto, a leggere le sue opere e quelle dei poetici del Caribe, Césaire e Fanon, Chamoiseau, Carpentier, Walcott, Kamau Brathwaite e tanti altri, anche latino-américani.
P.S. Se volete ascoltare un’altra pagina immortale di Ravel sui nostri antenati morti, al «Tombeau de Couperin» affiancate un testo meravigliosamente triste e gentile alla maniera europea, «Pavane pour une infante défunte», per piano solo, trascritto anche per orchestra dallo stesso Ravel. Così ci ritroveremo, una volta prima o dopo, “tutti in un punto”, come nel racconto di Calvino. Non solo per ricordare, ma anche per creare incessantemente l’imprevedibile della creolizzazione.

Nota dell’autore
1  “Incivibile” è un creolismo, fatto innestando nell’ “invivibile” l’“incivile”, che ho inventato in questi giorni di gennaio.

Nota di Comune-info
(*) Le “scor-date”, come quella firmata da Gnisci, sono state un appuntamento quotidiano del blog di Daniele Barbieri & altre/i, oggi diventato Bottega. Dall’11 gennaio 2013, per circa due anni, ogni giorno ci hanno accompagnato con un rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che lo nutre hanno dimenticato o rammentato “a rovescio”. Adesso Daniele e gli altri autori hanno deciso di fermare quel ritmo insostenibile (per chi lo teneva per pura passione) e prendersi una lunga pausa di riflessione. Ma la straordinaria ricchezza dell’archivio viene comunque messa a disposizione giorno per giorno nella Bottega. Ancora grazie.
Settembre 2010. Il professor Armando Gnisci annuncia le sue dimisioni volontarie dall’Università
un articolo di Roberta Lamaddalena, uscito in Pubblica Istruzione il 23 OTTOBRE 2010
– Dal primo novembre 2010 il Prof. Armando Gnisci, docente di Letterature comparate del Dipartimento di Italianistica e Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, si ritirerà dall’insegnamento accademico con un volontario pre-pensionamento. “Ci tengo a comunicarvi ufficialmente e sinceramente questa notizia perché sappiate con chiarezza e certezza il motivo della mia sparizione. Viviamo, infatti, in un’epoca in cui la menzogna, la volgarità e l’oblio informano la comunicazione e formano addirittura la nostra educazione” scrive in una lettera del 6 settembre rivolta agli studenti. Una decisione importante per un uomo che ha dedicato tutta la sua esistenza all’insegnamento e alla ricerca.
Armando Gnisci, nato a Martina Franca nel 1946, ha fondato a Roma la cattedra (allora istituita con Decreto del Presidente della Repubblica) di Letterature comparate ed è diventato membro del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Italianistica della Sapienza. E’ autore di 40 libri tradotti in 12 lingue. Ha collaborato con numerose Università straniere, ha istituito con altri studiosi nel 1985 la Società Italiana di Comparatistica Letteraria (S.I.C.L.) ed è membro dell’Association Internationale de Littèrature Comparèe, dell’International Association of Hungarian Studies, dell’AISSLLI, e membro-assessore dell’International Association of Intercultural Studies.
In un’intervista pubblicata il 20 ottobre su www.letterefilosofia.it il Prof. Gnisci spiega i motivi della sua coraggiosa scelta. “Mi sono dimesso dell’Università perché ho dato troppo (…) in un luogo che è diventato sempre di più, a mio avviso, malato e inadeguato”. Continua poi sottolineando che “la malattia fondamentale sta nell’arretratezza culturale e morale della classe politica italiana. (…) L’università e la ricerca sono sempre più tagliabili, dimenticabili e trascurabili (…) Com’è possibile tagliare le arti nel paese delle arti, in Italia, nazione che ha costruito ville e palazzi e scritto musica per il mondo intero? I teatri sono costretti ad auto-finanziarsi ospitando matrimoni. I valori di una repubblica vera sono il welfare, lavoro e dignità per i giovani e le donne, coscienza e conoscenza”. Alla domanda su che ricordi nutra nei confronti della sua docenza presso la Facoltà di Lettere, il Prof. Gnisci risponde “Non ho nessun bel ricordo, ho sempre vissuto con rabbia e lottando contro” riferendosi ai suoi colleghi e alla baronia universitaria come un “muro di chiusura” simile a quello tra israeliani e palestinesi in cui ognuno rivendica solo il suo territorio”. L’unica soddisfazione in un mondo universitario che tanto rispecchia la crisi della nostra Repubblica e delle nostre istituzioni, sembrano essere i giovani. “Vi saluto assicurandovi che l’unica parte dell’università dalla quale non mi sono dimesso è la vostra” scrive rivolgendosi ai suoi studenti ma anche a coloro che non l’hanno mai incontrato e che rappresentano le generazioni future ammettendo “per anni ho sentito voi come i miei veri colleghi”. Lo scopo di Armando Gnisci è stato, in tanti anni di insegnamento, quello di infondere nei suoi studenti una conoscenza basata sul sapere comparativo. “Guardando all’indietro il cammino intellettuale che ho percorso, posso dire che il mio destino di comparatista letterario si è mosso e si è spostato da un sapere letterario verso un sapere di sapere vitale, e cioè, percorrendo letterariamente la via della mia vita, o interpretando la vita come una via”, (scrive in Decolonizzare l’Italia) una via capace di portarci verso nuove aperture, spostando il proprio io presso l’altro per uscirne “alterati” e più saggi.
L’appello che il professore fa ai giovani è continuare a perseguire quell’utopia di un “meraviglioso mondo nuovo” (con evidente riferimento al Mondus Novus della letteratura della migrazione). Per fare questo “serviamo noi letterati: per poterlo immaginare e tradurre. E per indicarlo come il valore finale di una educazione che non può finire mai, come ci hanno insegnato i nostri antenati latini”.

Nessun commento:

Posta un commento