giovedì 30 marzo 2017

Dedicato ai morti per Acqua - Vincenzo Consolo


(articolo su “L’unità“ – 27 Settembre 2002)
Non si finisce più di contare i morti, i clandestini annegati che giorno dopo giorno emergono dai fondali renosi del mare che bagna le coste meridionali di Sicilia, i cadaveri che le onde ributtano sulle spiagge dai nomi di una classicità scaduta da tempo immemorabile – Porto Empedocle, Baia Dorica, Costa Ellenica – cadaveri sulla sabbia come detriti di un’immane risacca. Sono vittime, questi poveri cristi fuggiti da Liberie, Tunisie, Algerie, Marocchi, Iraq o Palestine, prima che dei mercanti di vite umane, della nostra opulenza, della nostra arroganza, della nostra empietà e ferocia, della nostra ottusa indifferenza. Eppure, da quelle plaghe siciliane in cui oggi si raccattano cadaveri, e così dalla Calabria, dalla Sardegna, sono partite in passato masse di diseredati per raggiungere il Maghreb. Anche loro clandestini, anche loro sfruttati dai boss mafiosi, anche loro che s’avventurano su carrette di mare, loro che in quel periglioso Canale perivano nei naufragi. Ma in Tunisia questi nostri clandestini, questi nostri emigranti trovarono accoglienza, lavoro, speranza; si stabilirono nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana ufficiale di 90mila unità. Nel 1914, Andrea Costa, vicepresidente della Camera, visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Dice, in un discorso ai lavoratori : «Ho visitato la Tunisia da un capo all’altro; sono stato tra i minatori del sud e fra gli sterratori della strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella loro viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte». E’ a partire dal 1968 che avviene l’inversione di rotta: tunisini, algerini, marocchini cominciano ad approdare sulle nostre coste. Approdano soprattutto i tunisini a Trapani e si sparpagliano per le campagne, si stanziano nell’antico quartiere arabo di Mazara del Vallo la città dove nell’827 erano approdati i loro antenati per la conquista della Sicilia. Il sociologo di Mazara, Antonino Cusumano, ha scritto il libro “ Il ritorno infelice “ su questa emigrazione di tunisini in Sicilia. Emigrati da una Tunisia lontana da quella striscia costiera delle vacanze «esotiche» di noi europei, da quell’anello di lussuosi alberghi, di Abu Nuwas, di proprietà degli Emirati Arabi. Emigrati contadini che il fallimento della riforma agraria promossa da Bourghiba, che portava il bel nome di Rigenerazione del suolo, ha buttato nella miseria, emigrati braccianti, pescatori, minatori che l’odierna politica di Ben Alì relega al di sotto di un livello di sopravvivenza. Mi trovavo, nel giorno del naufragio di Porto Empedocle, dei 27 morti liberiani, a pochi chilometri da quel mare, a Palma di Montechiaro, il paese fondato nel ‘600 dai principi di Lampedusa, i «gattopardi» di GiuseppeTomasi. Ma il paese anche, quello, che Danilo Dolci scelse nel 1960 come paese simbolo di depressione, miseria, per un convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale. Fra studiosi, politici, parteciparono a quel convegno Carlo Levi, Paolo Sylos Labini, Tommaso Fiore, Girolamo Li Causi, Leonardo Sciascia, Ignazio Buttitta. Mi trovavo dunque a Palma di Montechiaro per un convegno su madre Francesca Saverio Cabrini, la santa degli emigrati, colei che operò negli Stati Uniti e in Sudamerica fra i nostri poveri emigrati laggiù. Nel 1879, Giustino Fortunato così scriveva: « Con lo sviluppo dell’emigrazione meridionale negli Stati Uniti, il sistema di mediazione esercitato dalle agenzie per mezzo dei “notabili” diventa un efficace strumento per esportare nelle Little Italy d’oltre oceano le forme di sfruttamento camorristico o mafioso (…) Spesso infatti i boss italo-americani sono in contatto diretto con gli agenti italiani, i quali procurano contemporaneamente passeggeri alle compagnie di navigazione e manovali alle imprese americane». I naufraghi di Scoglitti speravano, con la falsa notizia, con l’inganno della «sanatoria» della nuova legge italiana sull’immigrazione, di poter andare a lavorare, come molti loro connazionali, nelle imprese ragusane delle serre, in quegli immensi labirinti di calore e di veleni che sono i campi coperti di plastica. Non ce l’hanno fatta, sono rimasti al di qua delle serre, riversi in quelle dune di sabbia, dette «macconi», di spiagge chiamate abulicamente Baia Dorica e Costa Ellenica. Là, coperti da teli, in attesa dei pietosi raccattacadaveri. A questi naufraghi, ultime, ennesime vittime dell’attuale nostro mondo crudele, vogliamo dedicare come fosse un «requiem», i versi di Morte per Acqua di T.S.Eliot:
Fleba il Fenicio, morto
da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani
e il flutto profondo del mare,
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri,
Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi
della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo,
o tu che volgi la ruota e guardi
nella direzione del vento,
Pensa a Fleba, che un tempo
è
Stato bello e ben fatto al pari
di te.

Nessun commento:

Posta un commento