giovedì 2 febbraio 2017

Un fatto personale - Erri De Luca

È l’epoca dei massimi naufragi del Mediterraneo, degli annegati in massa. Senza bisogno di tempesta si spargono sui fondali e i loro nomi non hanno rilievo. Per loro il mare è una fossa comune. A quest’epoca si addice la frase che ho trovato in un breve racconto letto di recente.
“Uno di quei momenti in cui morire aveva smesso di essere un fatto personale” (Il sacrificio del fuoco, Albrecht Goes, La Giuntina editore).
Nel Mediterraneo succede così, annegare ha smesso di essere un fatto personale.
All’opposto un giovane africano, venuto dal delta del fiume Gambia, ha scelto di morire annegato da solo. Partito da Milano é arrivato a Venezia e si è buttato in acqua dentro il Canal Grande, in pieno giorno.
È annegato. Numerosi presenti sono rimasti spettatori. Non si può chiedere a nessuno di tuffarsi in inverno con i panni addosso, in acqua fredda, a rischio della vita e con scarsa possibilità di essere utile. Forse un atleta della pallanuoto avrebbe potuto, ma senza certezza.
Non approfondisco la cronaca. A portata di mano, da riva o da un battello, pare abbiano gettato un salvagente. Sono attrezzati per questo, per i numerosi turisti che cadono in acqua per sbaglio.
Il giovane africano pare non abbia raccolto il salvagente. Una veloce ipotermia gli ha forse impedito reazione e lucidità.
Questa pagina non è una predica. Non so se mi sarei buttato. Questa pagina tenta il minimo risarcimento di conservare il nome di un annegato solitario del Mediterraneo: Pateh Sabally, di anni ventidue.
È un’epoca che deve indire giorni di memoria per conservare un ricordo. Non sono sicuro di appartenervi. Scrivo sul quaderno e poi su questo schermo il nome di un giovane uomo che ha voluto fare, del molto comune annegamento, un fatto personale: Pateh Sabally.

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