lunedì 17 ottobre 2016

Essere giovani, essere attori - Piergiorgio Giacchè



0. Si può sempre parlare ai giovani, purché non diventi un vizio. Parlare dei giovani invece ha una scadenza: quella “certa età”, da me raggiunta, che non permette di confondere la frequentazione dei giovani con la partecipazione alla loro condizione. E in antropologia – che ha una radice euristica e non è un ramo della filosofia – il solo comandamento che non si può tradire è l’osservazione partecipante, che non vuol dire travestirsi da indigeni ma condividere la loro situazione e dunque, per quanto riguarda i giovani, la loro generazione. Così, se non ci si vuole ricoverare nella clinica sociologica del dato e del giudizio oggettivo, la soggettiva condivisione - ovvero l’appartenenza allo stesso “campo” in cui si fa ricerca - è una conditio sine qua non si può spacciare per antropologica un’osservazione che esamini “dal di fuori” il contesto e il testo che caratterizza attori sociali molto più giovani del ricercatore. Sono stato “giovanologo” anch’io, ma nell’epoca in cui avevo un’età compatibile e un’esperienza comparabile. Poi, anche al fine di continuare a studiare le nuove generazioni e le nuove trasformazioni, ho trovato un trucco, cioè un campo entro il quale ad ogni età si può vantare un diritto di cittadinanza, se si ottempera al dovere di una convinta partecipazione. Il trucco o il campo è stato - ed è ancora per me - il Teatro, dove ogni spettatore è partecipante per convenzione, e può aggiungere la convinzione di una relazione diretta con l’attore. E il teatro è comunque anche il luogo dove gli spettatori e gli attori non hanno età o non dovrebbero averla, visto che il suo tempo è sospeso, il suo spazio è separato e “il gioco delle parti” (di entrambe le parti, sia di chi il teatro lo fa, sia di chi lo vede) è indefinito per definizione. Da “antropologo del teatro” posso dunque parlare dei giovani attori, e interrogarli e interpretarli anche fuori della scena, quando si disperdono e infine confluiscono nel mare degli attori sociali. Ma anche allora – quando l’attor giovane torna a immergersi nel sociale – è meglio un’osservazione che si limiti al momento e al modo del suo “spettacolo”, senza la protervia o la superbia di cercare di comprendere tutta la sua realtà. E’ questo il limite, ma infine anche il vantaggio, di una “antropologia teatrale” che si affaccia sulla complessa condizione sociale dei giovani, appena fermandosi alle mode e soffermandosi sulle immagini… Ma poi c’è davvero molto altro nelle subculture giovanili e non? E mi verrebbe da aggiungere: c’è un’altra antropologia possibile oggi, oltre a quella del “come se”? (1) 1. Ho cominciato a occuparmi di giovani attori qualche decennio fa, quando si manifestò un’improvvisa moda culturale o un imprevisto fenomeno sociale che ancora prosegue, forse con meno intensità ma con la stessa ambiguità di decifrazione: una quantità sorprendente di giovani si era messa a “fare teatro”. La quantità abnorme faceva peraltro il paio con una qualità da inseguire: un’alta professionalità per la quale ci si voleva organizzare e definire fin da subito “professionisti”. Non si trattava dunque – per quei giovani attori – di dare sfogo a una passione amatoriale, ma della scelta di un mestiere e dunque di una vita da dedicare intensamente e interamente al teatro. Sul finire degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta, in Italia (ma non solo in Italia), si contavano a centinaia i gruppi di nuovo teatro (prima di base, poi di ricerca, quindi di sperimentazione…) che si insediavano ovunque nel territorio, riempivano di festival le primitive estati culturali e animavano ogni ambiente o cliente sociale. E davvero non si capiva come mai migliaia di giovani si mettessero a fare teatro in tempi in cui il cinema e la televisione erano non solo dominanti ma già accessibili (le cineprese e il videotape non erano agili e diffusi come gli smartphones, ma erano già a disposizione). Forse, prima di tutto questo “fare teatro”, soltanto il “fare musica” aveva avuto un più grande e più giustificato exploit giovanile; e però, fin da subito è apparso chiaro come la nuova opzione dell’attore – anziché del cantante e musicista – fosse diversamente motivata ed orientata. L’Attore era una seconda scelta ma anche un’identità di riserva per generazioni nate dal riflesso e cresciute nel riflusso della lotta politica. L’Attore, prima ancora di essere un mestiere, può essere una forma di militanza: un impegno attivo che coinvolge ed espone la persona nella sua interezza e concretezza, che la spinge a operare in gruppo, che le assegna compiti di comunicazione e di critica, che le riconosce funzioni relazionali prima ancora delle ambizioni creative… Che il teatro potesse partecipare alle istanze di contestazione, alle prove di controinformazione, alle ansie di “rivoluzione culturale” era già stato evidente nel postsessantotto (e nel “teatro politico”, che ha avuto il suo culmine ma anche il suo limite in Dario Fo), ma la sua successiva proliferazione ed espansione negli anni Ottanta era sì figlia della cultura politica ma insieme madre della politica culturale: dal gruppo politico al gruppo teatrale non si ereditava nessuna delle funzioni oggettive ma si distillavano tutte le istanze soggettive di una “militanza di ricambio” che passava dalla Politica alla Cultura – in tutti i sensi “senza colpo ferire”. La “motivazione teatrale” di quel momento e movimento - che si era perfino autodefinito “teatro antropologico” - è stato il mio primo tema di ricerca da antropologo del teatro. In breve, era una motivazione diversa da quella che oggi spinge i giovani a produrre arte e/o cultura, anche perché era attoriale in senso pieno e finanche esclusivo. Essere attore era necessario e perfino sufficiente, nel senso che gli spettacoli venivano solo di conseguenza, e con scarsa frequenza e nessuna urgenza. Ogni gruppo si dava orari e calendari di lavoro massacranti, finalizzati all’apprendimento e all’allenamento degli attori: attori in erba e perfino in seme, ma che da subito viaggiavano e scambiavano e studiavano elementi di cultura e d’arte teatrale anche senza frequentare il Dams (è il Dams che ha vissuto su di loro e non viceversa). Attori che cercavano e trovavano modelli e maestri – diretti o indiretti, viventi o defunti – nell’arco di tutta la storia del teatro del Novecento e delle sue avanguardie, ma anche nel panorama di tutta la geografia del teatro mondiale e l’etnografia del rito, suo antenato. Le miniere e le maniere della pedagogia teatrale erano tante da soddisfarsi e confondersi, visto che i giovani attori di allora erano stati anticipati e accompagnati dalla stagione teatrale più lunga e più ricca del secolo, piena di presenze o assenze a cui ispirarsi o abbeverarsi: Grotowski e Brook e il Living di Beck e l’Odin di Barba e Carmelo Bene e Leo De Berardinis e la Bausch e Kantor e Wilson… Chi è ancora vivo? Chi è davvero morto? Bastano questi nomi a giustificare l’intensità e la durata di una “motivazione teatrale” caratterizzata da una fame di acculturazione stupefacente, a fronte – va detto senza stupirsi – di risultati artistici francamente non eccellenti. Ma l’arte viene dopo, se viene, e prima di lei conta la scelta di un’Attività/Identità: pochi delle centinaia di giovani attori di allora sono diventati bravi, ma tutti hanno continuato per anni e spesso per tutta la vita una militanza teatrale che ha poi fornito le miriadi di animatori, operatori, organizzatori di un sottosistema che ancora oggi alimenta – perfino invisibile – la sopravvivenza del sistema istituzionale del teatro del presente. In quel momento e dentro quel movimento di “teatro di gruppo”, pareva davvero che ‘essere giovani’ ed ‘essere attori’ fosse la stessa cosa. E una qualche verità c’era, e magari c’è ancora in questa identificazione, anche se l’attore non è più da tempo né un modo di essere né una moda per apparire: ieri sembrava perfino una scelta contro il mercato e oggi è l’ultima opzione di un mercato senza lavoro. Insomma la fortunata endiadi Giovane e Attore ha poi improvvisamente smesso di essere la somma di due forze per diventare l’unione che fa la debolezza, anche se nessuno dei due (sia il giovane che l’attore delle attuali generazioni) l’ha ancora capito. Il fatto è che la pubblicità prosegue ben oltre il commercio, e oggi più di ieri – nella dimensione della creatività diffusa e dell’espressività obbligatoria – assicura a tutti i giovani che “attori si nasce”, anche se poi non lo si diventa mai. L’eterna assonanza fra la fama e la fame fa il resto, e lo fa per tutti i giovani d’oggi, tutti continuamente invitati a iscriversi a uno dei tanti corsi e ricorsi di formazione. E allora, “en attendant Godot”, perché non di teatro? 2. Per capire se e come è cambiata la “motivazione teatrale” basta affidarsi alla fiorente pubblicità del settore: non quella per gli spettatori ma quella per gli attori. Io ho avuto fortuna: nei muri e nei negozi della mia piccola città di provincia spiccava, fino a pochi mesi fa, una locandina che riassumeva in pochi slogan i punti qualificanti di un bando di concorso ufficiale per la formazione dell’attore. La prendo a pretesto perché il suo testo è un vero modello, anzi un gioiello di inestimabile completezza. Sopra la fotografia a tinte forti e fosche di una quasi giovane attrice in atto da urlo, con mano in posa plastica alta sopra la testa e una involontaria tetta di fuori (a indicare passione e invocare libertà), erano stampati tutti gli annunci utili a ricapitolare la situazione in cui versa il teatro, mentre riversa sui giovani i suoi corsi di formazione. Non un teatro qualunque, visto che il Bando a cui la locandina rinvia è quello della Regione e del Teatro Stabile e dei maggiori e minori enti aggregati, come si evinceva dai logo che ormai incoronano tutti i manifesti di tutte le manifestazioni e che vanno dal local del Comune al global dell’Europa (i cui fondi sono ormai essenziali sia per la cultura che per l’agricoltura). Il manifesto in questione recitava, in sequenza dall’alto in basso: “Arte Teatrale Performativa e Scrittura Scenica - Percorso di Alta Formazione d’Eccellenza – Corso di Perfezionamento Professionale in Scrittura Scenica per Attori Performer – Corso Gratuito – Borsa Lavoro.” L’esagerazione di maiuscole non è fedele all’originale, ma resta al di sotto della vistosità grafica in cui si sono sbizzarriti i tipografi e gli autori. Come si legge, niente di avvincente e tutto tra l’antiquato e magari il cafone, ma è proprio questo un primo punto: la pubblicità per questo genere di commercio formativo cerca gonzi e non va per il sottile, non intende convincere ma colpire, gridando le sue certificate promesse, un po’ come fa l’attrice ritratta sullo sfondo. Innanzitutto bisogna essere chiari e forti e perfino sfacciati con l’esaltazione di segni che fingono di essere significati e viceversa, proprio come avviene a teatro. Quindi serve un’abbondanza di aggettivi e sostantivi che abbindoli, ma che soprattutto difenda e diffonda il prestigio dell’arte scenica: pardon scenica scritturale e performativa, come solo un percorso di alta formazione d’eccellenza può garantire. Ma lasciamo perdere la forma e passiamo al contenuto: nel suo stupido e nel suo piccolo, questa locandina teatrale è davvero “tutto un programma”, nel senso che riassume tutti i punti e le linee dell’offerta politica della formazione professionale destinata ai giovani attori (ma anche a tutti gli altri giovani). A cominciare dal fondo, ovvero dall’accoppiata tra il Corso Gratuito e la Borsa Lavoro. 3. Alla borsa e al lavoro nessuno ci crede più, ma servono per tirare a campare. Il lavoro di cameriere a Londra o la borsa per diventare attore a Perugia in fondo si somigliano: il ruolo conta poco purché ci sia un minimo di status, che viene nel primo caso da Londra e nel secondo dal Teatro. La precarietà non è poi questa grande sventura, se permette una libertà di scelta che si ripaga da sola, e intanto distrae dalla mancanza di una paga sicura. La breve durata di una borsa o di un lavoro incoraggia una mobilità sociale che, quando si è giovani, si può chiamare avventura, scommessa, esperienza e infine si deposita in un curriculum che non conta poi molto ma – come dice la parola stessa – scorre sempre. Certo, finché la corsa o il corso è insieme prestigioso e gratuito, ovvero ambito da tutti e accessibile a tutti, sia pure dietro domanda, previo concorso, dopo un provino. La gratuità non va mai disgiunta dal merito, che come si sa comincia a piacere assai più del diritto. La gratuità è partecipazione, dice oggi una nuova canzone che non ha scritto nessuno ma che cantano tutti. Dopo il partecipare, il vincere è per pochi ma è giusto così: la selezione è pur sempre naturale e – anche quando c’è il trucco o il ricatto o la raccomandazione – è un bene che ci sia, anzi fa bene due volte, sia a chi la subisce sia a chi la esercita. La commissione di un corso di formazione e l’ente che lo finanzia sono felici e si felicitano per aver selezionato qualcuno: nessuno si sente in colpa nell’eliminarne cento ma si congratula con se stesso per quell’uno che ha eletto. Non lo assume – non è suo compito – ma ancor meglio lo sceglie e lo accoglie: in un certo senso lo assolve dai suoi peccati e lo avvia verso il perfezionamento professionale e – se avrà talento – verso la realizzazione di sé. Ma di più, ne farà un Attore, dunque un artista che, mentre è ancora un investimento, già partecipa del patrimonio culturale del Territorio. Visti dalla parte di chi li organizza, i corsi di formazione valgono da subito, prima ancora di dare quello che promettono. Sono essi stessi la promessa e la promozione della cultura, che conta ben più della scommessa di trovare un lavoro. Tanto più che – televisione docet e Maria De Filippi benedicet – l’apprendimento dell’arte fa già spettacolo in sé e per tutti: non è un caso se ogni saggio annuale è benaccetto e benvisto da un pubblico (non solo di “amici”) che – ne siamo sicuri – sarebbe già disposto a pagare un biglietto per spiare ogni sera i segreti dei maestri e i fallimenti degli allievi. E, proprio come alla tivvù, farebbe applausi e commenti con maggior gusto e competenza di quando va a teatro a confrontarsi con spettacoli finiti e firmati, cercando di capire qualcosa che non si carpisce mai… 4. Visti e vissuti dall’altra parte, i corsi di scrittura scenica per attori e performer e affini sono presi sul serio e svolti con fatica, anche se sono esami che non finiscono mai. Non c’è candidato attore che una volta “iniziato” non prosegua il suo apprendimento in modo incessante, praticando training di tutti i tipi e inseguendo stages per tutte le stagioni. Oggi come ieri, l’attor giovane è curioso e vorace, aperto a ogni altra arte e parte di un teatro che è anche danza e musica e narrazione e poesia e arte plastica e infine “atto performativo”, che può essere niente ma raccoglie tutta la varietà dell’azione scenica. Oggi come ieri, la motivazione teatrale sembra dunque di robusta costituzione, ma ci sono differenze e distanze che vanno segnalate, se si vuole proseguire il discorso e aggiornare un percorso che ancora riguarda una quantità abnorme di giovani, che ancora inseguono il sogno di una alta qualità professionale. Intanto, a parità di impegno, si deve constatare che la parentela con la militanza è finita da un pezzo, nel bene e però anche nel male: non ci sono più le influenze ideologiche che sostenevano una vita e un teatro “di gruppo”; è finito il mito del collettivo e il rito dello scambio reciproco, e ciascun attore sa di essere solo anche quando si fa compagnia; una solitudine di ciascuno che è però anche liberazione di tutti, una volta tramontata la dittatura della maestria e incominciata la festa della creatività. Su questa festa ha proliferato una Politica Culturale che per decenni ha assuefatto tutti senza saziare nessuno, facendo finta che il teatro e l’arte abbiano davvero una parte importante nel destino di ognuno e perfino nelle sorti del paese. I giovani attori sono così passati dalla libera costituzione di un proprio teatro, alla sudditanza dell’istituzione che lo incarna o lo governa: dal piccolo assessore al grande direttore (su su fino al potente ministero) non cercano più soldi ma riconoscimenti, o al massimo appartamenti: se non si ottengono i fondi “che ahimè non ci sono”, si avranno magari soffitte in cui porre la propria “residenza”, talvolta senza sala-prove ma con il nome “teatro” sul campanello… Infine, la formazione attoriale è passata dalle ansie pedagogiche alle frattaglie didattiche, magari anche di alta scuola e nobile firma: il mercatino ieri alternativo del fare e del sapere teatro, dopo il disastroso matrimonio con l’università, è diventato un centro commerciale di vasta superficie e scarsa profondità, a fronte del quale o contro il quale non resta che iscriversi alle polverose e sempre rispolverate Accademie, che ormai rappresentano – per i più motivati – la prima scelta e insieme il più alto vertice della scuola d’attore. 5. Ma la “motivazione teatrale” non riguarda soltanto le vocazioni di una minoranza in movimento, ma raccoglie anche le invocazioni della maggioranza dei giovani in mutamento: in mancanza e in attesa di un certificato autentico da attore sociale, passare per lo stadio di finto attore teatrale fa comodo a tutti i camerieri di Londra e gli studenti di Perugia. Si ha cioè l’impressione che “essere attori” sia un possibile desiderio di tutti, ma si ha anche la sensazione che sia imposto come un imprescindibile imperativo per tutti. La “tratta dei giovani” è cominciata molti anni fa, passando per varie fasi di trattativa e di trattamento. La questione giovanile ha una storia lunga almeno sessant’anni, ma anche una breve filosofia che spiega (e separa in due successivi trentenni) gli atteggiamenti degli adulti verso le nuove generazioni: si è passati dal paternalismo autoritario dei giovani da guidare e poi temere e perfino reprimere al maternalismo dei giovani da incoraggiare e valorizzare e infine stimare, tanto più quanto più si facevano deboli le loro speranze e tristi le loro condizioni. Oggi siamo al culmine della loro disgrazia e non bastano i renziani o i grillini a smentire questa situazione. Eppure forse siamo anche nel colmo della grazia ricevuta, se è vero che i giovani vivono in un mondo sia globale che locale, sia reale che virtuale, pieno di consumi e servizi e nuovi linguaggi e magiche tecnologie, dove le contraddizioni possono travestirsi da opportunità: i giovani infatti hanno tutto e non sono niente, sono il futuro ma non hanno futuro, godono di una libertà per tutti pur senza indipendenza e soffrono una dipendenza da tutto, vissuta però in piena autonomia… Insomma, a conti fatti e a guardar bene, hanno già le stesse caratteristiche di un attore teatrale, ovvero hanno tutte le ragioni per diventarlo. Non so quanto sia attraente o conveniente per loro, ma so quanto conviene alla società dello spettacolo arrivata al suo terzo e ultimo atto: diventare attori è darsi da fare e farsi vedere, è accumulare esperienze e liberare espressioni, è metterci la faccia e occupare una scena purchessia. Diventare attore, anche quando non va di moda, è pur sempre un modo di diventare imprenditore di se stesso e per se stesso. E non c’è niente di più ambito ed elevato di “essere se stesso”, il comandamento più ripetuto e rispettato che ci sia, malgrado sia l’esatto contrario del “conosci te stesso” di socratica memoria e definitivo oblio. Cosa si chiede al giovane o all’attore se non di essere se stesso, di manifestare la propria autenticità, di recitare perfino la banalità come se fosse misteriosa profondità? Eppure sull’angosciosa stupidità di questo mantra della cultura di massa non c’è un adulto, un genitore o un insegnante o infine un governante che ci rifletta. Ecco perché si dice ai giovani che è meglio essere attore che spettatore: meglio impegnarsi che distrarsi, meglio praticare un attivismo espressivo anche cieco che coltivare una passività del guardare che rischia di diventare davvero riflessione. E depressione. E perfino critica. 6. La battaglia fra la creatività e la critica è una recente e fin troppo fortunata invenzione. Si fa credere, ma quel che è peggio si vuole credere alla loro contraddizione, pur di non aprire più il rapporto fertile della loro coniugazione. Nessuno come chi fa teatro conosce invece l’intensità e la necessità di questo rapporto, visto che in scena non si dà finzione ovvero creazione che non sia un “atto critico”. Anche i più giovani attori sanno che il “senso” si trova solo alla fine di una tormentosa pars destruens fatta di interrogazioni senza risposte e di ricerche impossibili. Ma, dall’altra, la voce e la moda del mercato battezza come creatività ogni irriflessa e compiaciuta espressione, premia ogni semplificazione e valorizza ogni consolazione. E tutto questo non avrà senso ma ha un peso che non si può non valutare e soprattutto non si può evitare. Sugli attuali “attor giovani” – teatrali o sociali che siano – preme dal basso non più una cultura di massa, ma una massa culturale mediatica commerciale e infine tumorale; non so quanto la sua pubblicità sulla facilità della vita e la felicità del consumo li influenzi o li orienti, ma so che conta molto di più del residuale cielo di ideologie e utopie che incombeva sui giovani attori di ieri e che, peraltro, ha prodotto non pochi equivoci e molti fallimenti. Inutile dire da che parte sto: ogni generazione è uno scarrafone bello per conto suo. Quello che posso avvertire da spettatore partecipante sia del teatro che della società, è che i giovani vivono diversamente l’attuale “mutazione antropologica” che tutti segnalano ma nessuno analizza con il rigore e il dolore necessari. C’è chi fra loro ne avverte tutta la confusione, ma anche chi la prende con filosofia e soddisfazione: “c’è una Mutazione ed è questa la nostra novità e la nostra opportunità” – molti giovani cominciano a dire con sconcertante orgoglio. Si è giovani non per l’esuberanza fisica o la rinnovata forza morale, ma per la disinvoltura e competenza con cui si sa vivere nel nuovo contesto di usi e costumi, di mode e consumi: “noi siamo il frutto della mutazione!”. Questo è l’errore. Quelli che sono “mutati” del tutto e per sempre sono gli adulti, ai quali davvero – dopo le tante trasformazioni festeggiate o subite – si può applicare il participio passato del verbo mutare. I giovani sono ancora dei “mutanti” che si sforzano di adeguare la loro natura alla cultura, e sostano e soffrono sulla soglia di quel conflitto inevitabile tra biologico e sociale, che un tempo si risolveva con riti di passaggio che non ci sono più. Forse allora la causa prima o più arcaica, che li spinge – ancora una volta – all’incontro con il teatro e all’impegno dell’attore, sta proprio nella possibilità di ribadire l’azione fisica e la relazione diretta. Ma intanto c’è anche un’altra causa nuova o nuovissima, se è vero che l’esercizio del teatro non è in sé arcaico ma solo anacronistico, e in qualche modo paradossalmente somiglia al corpo finto e al tempo sospeso e allo spazio vuoto della realtà virtuale. Forse allora oggi (ma non da oggi) il teatro regge o si rilancia perché –in virtù dei suoi limiti dimensionali e delle sue ambizioni relazionali – somiglia ai social media, più della televisione e del cinema, almeno per la solitudine con cui l’attuale attor giovane ama esporsi in una scena o in un sito insieme pubblico e privato, protetto dall’anonimato e tentato dalla notorietà. O viceversa. In un denso reportage di una scrittrice e giornalista slovena, Dubravska Ugresic, si ripercorrono le datate origini e i recenti trionfi di quella che lei chiama “la cultura karaoke”, madre di tutte le attuali illusioni, o meglio religioni della “rete”. Un passo decisamente blasfemo può suggerire anche ai meno critici un po’ di sana diffidenza verso il nuovo mondo e il nuovo modo di essere giovane e/o attore della cultura contemporanea: “…possiamo immaginare internet come un mega-karaoke con un milione di microfoni che un milione di persone si precipita ad afferrare per cantare la propria versione della canzone di qualcun altro. La canzone di chi? Questo non importa: l’amnesia sembra essere un sottoprodotto della rivoluzione informatica. L’importante è cantare.” (2) 7. Quanti sono i giovani che vanno a fare o vorrebbero fare o appena accettano di fare l’attore? Non si tratta di conoscerne il numero ma di indovinarne il volume. Non si tratta di considerare soltanto quelli che scelgono la professione (di fede) ma anche i moltissimi che, pur senza speranza, ne accettano l’occasionale carità. A colpi di animazioni scolastiche e di occasioni mediatiche non c’è nessuno che non abbia scagliato la prima o l’ennesima pietra, in un qualunque corso teatrale o gioco performativo. E’ anche vero che c’è corso e corso e c’è gioco e gioco, e però tutta l’erba fa un fascio da quando l’isolamento è un diritto individuale e la globalizzazione un dovere sociale. Pochi e sempre più rari sono gli esempi buoni e gli esercizi critici di un teatro ancora collettivo ed educativo che cerca altro e guarda alto, senza arretrare nella mondanità d’antan e senza affogare nella palude delle performing arts . Pochi e rari sono i giochi e i corsi che avversano il solipsismo dell’attore solo al comando della sua virtuale trappola per topi. Commentando in un convegno la resistenza ma anche la decadenza dell’animazione teatrale, Goffredo Fofi ammoniva che “il gioco in solitudine proposto dalla società post-moderna (videogiochi, computer, rete) è un grande inganno e un modo del dominio.” (3). Ma forse l’avvertenza è già scaduta, se è vero che la cultura del postmoderno è finita, perché era solo l’avvento di un incombente o già attuale “pseudomodernismo”. Il suo inventore, Alan Kirby, un professore di letteratura di Oxford, così spiega le nuove regole del nuovo gioco: “Questo mondo pseudomoderno, così spaventoso e in apparenza fuori controllo, nutre inevitabilmente il desiderio del ritorno al mondo infantile del gioco, che caratterizza anche il mondo culturale pseudomoderno. Qui la trance rappresenta uno stato emotivo tipico, quello di un’immersione completa dentro la propria attività che sostituisce radicalmente la consapevolezza dell’ironia. A differenza della nevrosi del modernismo e del narcisismo del postmodernismo, lo pseudomodernismo abolisce il mondo, creando il nuovo spazio inesistente e privo di gravità dell’autismo muto. Basta cliccare, premere un tasto, e vi trovate a essere “coinvolti”, inghiottiti, senza capacità di decidere. Voi siete il testo, non c’è nessun altro, non c’è “l’autore”, non esiste niente, nessun altro tempo o luogo. Siete liberi, siete il testo: il testo siete voi.” (4)
 NOTE
(1) C’è un capitolo intitolato Intermezzo sulla finzione: accenni a un’antropologia del ‘come se’ in un libro di Francesco Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio e del tempo e del potere (Bollati Boringhieri, Torino, 1993, pp.113 e ss.) in cui da Kant a Geertz si ripercorre l’importanza e infine la verità antropologica della “analogia drammaturgica della vita sociale”.
(2) Dubravska Ugresic, Cultura karaoke, Nottetempo ed., Roma 2014, cfr. p. 23
(3) G. Fofi, Il teatro salvato dai ragazzini (testo pubblicato nel libro omonimo curato da D. Pietrobono e R. Sacchettini, Ed. dell’Asino, Roma, 2011, cfr. p. 15).
(4) La frase e la teoria di Kirby è ancora nel libro della Ugresic, cfr. p. 25 e ss.

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