giovedì 22 settembre 2016

Il ‘concorsone’ di chi ce l’ha fatta: “La mia generazione inadeguata” - Maurizio Cocco


Latina è chiaramente uno di quei posti dove vai solo se ti ci mandano. E a Latina ci mandano (a noi, docenti sardi di filosofia e storia), una chiara mattina di maggio, per svolgere la prova scritta del concorso a cattedre. Premetto che un po’ ce la siamo cercata: un concorso per l’immissione in ruolo l’anno dopo l’abilitazione richiede un po’ di fortuna, di quella fortuna che il cosmo deve chiederti qualcosa in cambio: vedere Latina, per l’appunto.
Ho pure provato a leggermi Canale Mussolini, prima di partire, ma era noioso e la sorte mi preservava un tiro mancino che suonava così: troppo facile essere bravi quando si è studiato. Ci si mette a tavolino, sui libri, si soffre, ci si annoia. Ma volete mettere l’irresponsabile felicità del successo improvvisato?
Quando ci sediamo al computer per svolgere il compito di filosofia quelle parole tornano alla mente. I quesiti sono sei, ai quali si aggiungono due brevi testi in inglese con relativi quesiti a risposta multipla di comprensione del testo (dieci in totale). I minuti però sono solo 150, due ore e mezza: quel tanto che basta a dedicare una ventina di minuti a domanda. Sono domande vaste e non troppo circoscritte a cui puoi rispondere correttamente in tanti modi ed è lì che ti puoi affidare all’improvvisazione. Peschi nel tuo bagaglio culturale, traduci nel linguaggio della didattica e della pedagogia le tue pratiche e maledici il fatto che sulla tua lista dei desideri hai un libro di Pierre Hadot che non hai comprato proprio perché dovevi studiare per il concorso, e che invece viene citato proprio in una delle domande.
Lo scenario si ripete due giorni dopo per la prova di storia. Un percorso sull’Islam dal VII al XXI secolo ti fa tremare le ginocchia, un altro percorso sugli afroamericani in chiave culturalista ti fa ringraziare che il tuo libro preferito sia Il falò delle vanità. Quando finiamo e ci raduniamo all’aeroporto di Fiumicino per tornare a casa, nessuno sa davvero dire come ha svolto la prova. Bene? Forse. Almeno non ho lasciato nessuna domanda in bianco.
Pochi giorni dopo, i più ansiosi cominciano già a monitorare le news dell’Ufficio scolastico regionale. Io sono meno ansioso, e meno fiducioso dei tempi burocratici, e lascio andare. Nel torrido caldo di agosto una notifica al cellulare: non è un sms, è una mail targata MIUR: la S.V. ha ottenuto il punteggio di… e quindi dovrà presentarsi il 31 agosto a sostenere ecc. Dei trenta candidati sardi passiamo solo in tre, i posti banditi erano nove. Non ancora capaci di spiegarci esattamente perché abbiamo passato la prima selezione, una certezza in più la abbiamo: quello che abbiamo scritto è piaciuto e per la prova orale questa deve essere la nostra bussola.
Il 30 agosto estraiamo l’argomento della lezione simulata che avremmo dovuto svolgere il giorno successivo e guardiamo negli occhi i commissari che avevamo immaginato in tanti modi diversi, magari pure con dei tratti mostruosi quando li sentivamo falcidiare candidati in tutta Italia e in tutte le classi di concorso e quando leggevamo delle condizioni economiche in cui erano costretti a lavorare. Passo tutta la giornata in albergo, tranne una pausa per pranzo, a prepararmi per la prova. La mattina successiva piove a dirotto a Latina. Uno dopo l’altro veniamo convocati per la nostra esposizione, poi aspettiamo che gli esiti vengano appesi. Una collega romana che concorre per la regione Lazio ripercorre il cammino fino a qui. Le selezioni per accedere all’abilitazione (Tirocinio formativo attivo, TFA), gli esami durante il TFA, la tesi e infine il concorso. Facciamo due calcoli: se consideriamo i candidati ai due cicli del TFA e quanti di questi sono passati di ruolo, la percentuale sul totale è dell’1,5%. «Ne parlavo con una mia collega l’altro giorno» mi dice lei, «e noi tutto questo l’abbiamo fatto per fare gli insegnanti, non gli astronauti!»
Non so, né riesco a comprendere, cosa mi abbia permesso di passare il concorso e cosa soprattutto abbia lasciato fuori tanti colleghi già selezionati e preparati. La fortuna ha sempre la sua parte nelle performance individuali, però ci devono essere ragioni più profonde. Il formato inedito del concorso ha sicuramente spiazzato tutti: e dopo lo spiazzamento iniziale, avere a disposizione un tempo ridotto per la mole del concorso richiedeva di riprendersi subito e cominciare a scrivere con sicurezza. Quale approccio scegliere era un’altra questione di improvvisazione: concentrarsi più sui contenuti o sulle metodologie? Lavorare di fino o per grandi tematiche? E quando venivano richiesti brani e libri da utilizzare durante le lezioni, o da consigliare agli studenti, si riusciva a ripescarli nel grande archivio della nostra mente? Forse, a scombussolare più di ogni altra cosa, era il conteggio caratteri in fondo a ogni quesito. A vederlo lì in basso ci si poteva sentire sicuri, darsi un limite, capire se non cosa, almeno quanto bisognasse scrivere. Invece, per ogni singolo quesito, erano decine di migliaia di caratteri, cifre da saggio su rivista scientifica. Come a dirti: se vuoi, dilungati pure, se riesci a noi sta bene.
Forte di una certa praticità con la lingua inglese avevo lasciato alla fine i quesiti relativi. I testi però non sono dei più semplici e soprattutto le domande sarebbero già di per sé efficaci per una comprensione del testo in italiano. Di riffa e di raffa credo di aver risposto correttamente, ma mezz’ora se ne va così. Sono punti che si rosicchiano e dato che i voti, questo è tipico però dei concorsi pubblici, non sono troppo alti, sono punti che pesano sul totale, per raggiungere almeno quel 28/40 che vuol dire andare avanti.
Al netto di queste considerazioni di forma, resta un problema di sostanza. Sotto esame ci siamo trovati, per la maggior parte, tutti docenti già filtrati e formati e questo, più di ogni altra cosa, cozza con le percentuali di bocciature che toccano l’80% e in alcuni casi perfino il 100%. Per la mia generazione, nata negli anni Ottanta, la strada è stata in salita. L’avere passato l’infanzia nell’opulenza di quel decennio, nelle promesse di poter realizzare ogni nostro sogno solamente con l’impegno, non ci aveva preparato a essere la prima generazione più povera di quella dei propri genitori. Quando ho svolto l’abilitazione e le prove del concorso, mi sono accorto di avere intorno persone con ottimi risultati accademici, dottorati di ricerca, pubblicazioni e conferenze: io stesso rientro in questa categoria. Abbiamo passato quei quindici anni che ci separano dal nostro primo grande esame a passare selezioni: test di ingresso, esami universitari, dottorati, borse di ricerca, abilitazioni, concorsi. Un continuo essere esaminati, selezionati, filtrati, alla ricerca di quel qualcosa che ci avrebbe permesso di costruire il primo mattoncino di un’esistenza autonoma e dignitosa. Quando però a un esame ne segue sempre un altro, quello che ti senti addosso è che il mondo ti comunica la tua inadeguatezza, il tuo non essere ancora pronto.
In questo scenario ci è stato detto che siamo mammoni, fannulloni, choosy e non ricordo bene gli altri insulti, ma l’antifona è chiara. E ora, da docenti, ci sentiamo dire (perché nella categoria ci rientro pure io, a prescindere dai risultati del concorso) di essere ignoranti. Come amava ripetere qualcuno: la situazione è sempre un po’ più complessa. È necessario prendere una consapevolezza di gruppo (o di classe, se preferite) ed evitare quelle logiche — certo più comode — per cui il sistema mette persone incolpevoli ma capaci le une contro le altre. Chi se la prende con i vincitori di concorso perché dice di aspettare il ruolo da vent’anni, chi accusa i colleghi bocciati con spocchia e sufficienza, chi rinfaccia ai promossi di aver dimostrato solamente di essere veloci a battere sulla tastiera. I problemi della scuola sono di carattere strutturale e se pure la legge 107 avrà favorito la mia immissione in ruolo non posso ignorare le sue carenze. L’autonomia, ad esempio, ha già mostrato all’università quali limiti e problemi possa scatenare. In un libro che comprai in preparazione al concorso, contenente le cosiddette «avvertenze generali» si legge — senza alcuna denuncia — che con la legge 107 le scuole diventano come delle aziende, pronte a competere sul mercato, offrendo servizi a studenti che sono degli utenti e che quindi devono essere soddisfatti.
Quando si entra in una qualsiasi scuola italiana si può sentire un grido di dolore unanime: riducete il numero di studenti per classe. È il vecchio problema della relazione programmatica di Jerry McGuire: meno studenti (per classe) più rapporti umani. C’è un grosso numero di insegnanti abilitati e capaci, che i risultati del concorso non possono farci ignorare. Forse è ora di impiegarli davvero in questo senso. Verrà il momento in cui lo Stato (perché la scuola è lo Stato) si fiderà di se stesso e deciderà che le persone che ha filtrato siano finalmente pronte per svolgere un ruolo autonomo?
Per tanti passati di ruolo, quest’anno non ci sono le cattedre disponibili, anche a fronte di un numero di promossi nettamente inferiore al numero di posti banditi. La legge parla di assunzione scaglionata per tre anni scolastici, senza precisare l’entità dei singoli scaglioni. Certo, è un finale effimero, perché l’esperienza pregressa continua a dettare quel messaggio. Il ruolo dovrebbe essere qui davanti e ancora dà l’idea di scivolare un pochino più in là. Dovrebbe però riguardare, in un futuro non lontano, anche chi ora è rimasto indietro.

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