domenica 25 settembre 2016

Hei, c'è un cane che ha morso un uomo - Emanuele Giordana



Ci sono notizie di serie A e notizie ritenute di serie B che non leggeremo mai anche se riguardano milioni di lavoratori indiani nello sciopero quantitativamente più grande del mondo. Milioni di bambini in fuga. Milioni di afgani sfollati. Milioni di risarcimenti che non arrivano. Oscurati dall’arrivo sul mercato del nuovo iPhone o dalla somiglianza con una star 

Dice un vecchio adagio che se un cane morde un uomo non è una notizia ma solo un fatto logico e abitudinario. Se invece un uomo morde un cane allora c’è quell'elemento di “notiziabilità” che le fa meritare un titolo. Anche in prima pagina. Ma non è vero. Se, come dicono i manuali di giornalismo, una notizia è tale se è una novità, se è importante per il grande pubblico, curiosa, stimolante e numericamente consistente, allora c’è qualcosa che non va nell’informazione mainstream. Forse è sempre stato così, perché dietro alla pubblicazione di una “notizia”, c’è sempre una scelta umana, ma oggi può bastare la nascita dell'ultimo telefonino per oscurare 150 milioni di indiani in sciopero o la somiglianza con Angiolina Jolie per far apparire la giovane curda Asia Ramazan Antar la clone di una star e non una combattente che ha sacrificato la vita per difendere la sua gente. Moralismo? No, solo senso della realtà e… della notizia. Facciamo qualche esempio. Esempi che hanno – non sempre – scatenato di recente sane e furiose reazioni in Rete, nel mondo virtuale dove girano valanghe di bufale ma anche un’attenzione critica che prima non aveva canali per esprimersi

Iphone e cortei

Il 2 settembre scorso in India, qualcosa come 150 milioni di lavoratori sono scesi in sciopero. 150 milioni (180 secondo altre fonti) non sono pochi nemmeno per un Paese che conta oltre un miliardo e 250 milioni di anime, considerato che nell’Unione, tra l’altro, i lavoratori sindacalizzati sono solo il 4% della forza lavoro. Il17mo sciopero generale indiano, da che nel 1991 l’economia è stata liberalizzata, sarebbe stato il più numericamente importante nella storia del Paese. Ma, notava il sito Alertnet, la vicenda non ha “bucato il video” come si dice in gergo: «La sensibilità dei singoli giornalisti – scrive il professor Vijay Prashad - solo raramente sfonda il muro di cinismo costituito dai proprietari dei media e dalla cultura che vorrebbero creare... Per loro le lotte dei lavoratori sono un inconveniente… lo sciopero è un disturbo, un fastidio trattato come arcaico, un residuo d’altri tempi e non il mezzo necessario per esprimere frustrazioni e speranze. Bandiere rosse, slogan e discorsi son vissuti con imbarazzo. Ed è come se, girando lo sguardo altrove, in qualche modo si riuscisse a farli sparire». Lo sciopero per altro è andato benissimo: dai lavoratori del Gujarat, dove il premier Narendra Modi ha iniziato la sua scalata politica, ai tessili del Tamil Nadu o ai metalmeccanici del Karnataka; bancari, autisti, operai delle aziende elettriche, impiegati. Ma senza copertura o con giusto qualche richiamo con foto. L’obiettivo non era secondario: a parte le rivendicazioni locali, l’insieme degli scioperanti rivendicavamo maggior democrazia e tutele ambientali sul posto di lavoro e una miglior distribuzione della ricchezza. Con un manifesto in 12 punti di cui, alla viglia dello sciopero, il governo aveva accettato qualche minima richiesta. Non sufficiente a fermare la chiusura delle fabbriche.


C’è chi fa le pulci

Fair, un’associazione americana che dal 1968 si occupa di censura, accuratezza e parzialità dei media, ha fatto le pulci anche ai giornali non indiani: non una menzione dai network americani Abc, Cbs, Nbc, Cnn, Fox, Msnbc. Npr. Anche giornali importanti come New York Times, Washington Post o USA Today si sono limitati a riprendere note d’agenzia, per altro scarse. Nessuno aveva sentito il bisogno di far muovere inviati o corrispondenti. In Italia? Lasciamo perdere.

Se si esclude qualche sito specializzato (anche italiano), 150 milioni di persone in sciopero semplicemente non c’erano. Oscurate. Da cosa? Fair fa un parallelo con la notizia dell’imminente uscita dell’ultimo iPhone di Apple. «Questo – scrive il direttore di Fair.org, Jim Naureckas - fa notizia»: per Cbs nel suo programma Money Watch e così per Npr nelle rubriche Morning Edition e All Things Considered. Iphone guadagna un titolo di prima in USA Today e nel Wall Street Journal o nella business section del New York Times.

Bambini in fuga

Anche i minori, nonostante sia un tema che suscita almeno compassione, sono abbastanza oscurati. Poca luce per l’ultimo rapporto su bambini e adolescenti “sradicati” appena pubblicato dal Fondo dell’Onu per l’infanzia che spiega come quasi 50 milioni di ragazzi e bambini attraversino frontiere o scappino dai conflitti. E’ un calcolo “prudente” dice un rapporto che segnala come 28 milioni di ragazze e ragazzi di età compresa tra 0 e 18 anni abbiano dovuto scappare da violenza e insicurezza, mentre altri 20 milioni – accompagnati o soli – hanno comunque dovuto abbandonare le loro case: «Rifugiati, sfollati interni o migranti – scrive Unicef – però, prima di tutto, bambini: senza eccezione e senza che sia importante chi siano e da dove vengano». Nel 2015 la maggior parte fra loro proveniva da dieci Paesi ma il 45% di tutti quelli sotto mandato dell’Acnur hanno origine da due sole nazioni: Siria e Afghanistan. Della Siria siamo abbastanza consci ma dell’Afghanistan assai meno perché quella guerra è ormai uscita dai riflettori. Oscurata dall’indifferenza per un conflitto considerato chiuso. Eppure ogni giorno alle frontiere afgane si affacciano migliaia di persone, bambini compresi, che la nuova politica pachistana sta cacciando dal Paese dove, dall’invasione sovietica, si sono installati 2,5 milioni di afgani, un milione dei quali senza documenti.

Sfollati afgani


Secondo il sottosegretario generale per gli Affari umanitari (Ocha) Stephen O’Brien è necessario un intervento urgente per far fronte a quello che si pensa potrebbe presto essere il numero degli sfollati che attraversano la frontiera col Pakistan : un milione di persone entro dicembre. L’inverno, ha detto O’Brian, rischia di vedere centinaia di famiglie esposte con un flusso dalla frontiera pachistana di 5mila persone al giorno (già 245mila dall’inizio del 2016) che si aggiungeranno al milione di sfollati interni, in una situazione in cui 2,7 milioni di persone sono malnutrite: fra queste, un milione di bambini sotto i 5 anni. 120mila tra loro rischiano di morire di fame. Uscita se non altro su alcuni giornali locali, la notizia ha fatto rimandare a marzo la scadenza che i pachistani avevano fissato per i rimpatri. Il milione di sfollati è per ora rimandato a primavera.

Talebani sempre cattivi

Se restiamo in Afghanistan c’è anche un’altra notizia che è stata completamente oscurata. Anche dalla stampa locale: la smentita dei talebani sull’azione di commando che lunedi 5 settembre ha semidistrutto un ufficio dell’Ong “Care” a Kabul, dove alcuni militanti, con l’aiuto di un autobomba, avevano preso d’assalto Sharenaw, zona di ambasciate e Ong, sventrando diverse strutture. Care aveva messo le mani avanti sostenendo che a loro avviso l’obiettivo era altro e i talebani hanno chiarito che il target era «un centro di intelligence militare gestito dall’ex capo dell’intelligence dell'amministrazione di Kabul nella quale c’è anche una branca dello spionaggio straniero… la Ong ha sede in una strada della zona militarizzata e non aveva nulla a che vedere col piano. L’obiettivo – scrivono - non era Care International». Vero o falso che sia, la guerra afgana è anche una guerra di bugie visto che per il ministero dell'Interno l’obiettivo era senza dubbio Care pur se la Ong aveva smentito. I talebani hanno polemizzato anche con Amnesty, accusata per aver definito la loro azione un “crimine di guerra”. Amnesty però ha chiesto un’indagine indipendente per chiarire le responsabilità anche se purtroppo questo genere di proposte non vengono mai messe in opera. Restano, con tutte le altre, oscurate.

Incidenti ignoti


Anche l’esplosione alla Tampaco Folis in Bangladesh del 10 settembre è passata quasi inosservata. Come sempre in questi casi, il numero dei morti è andato aumentando sino ad arrivare a 26, un bilancio che potrebbe crescere. Il fuoco è divampato a Tongi, una quindicina di chilometri dalla capitale Dacca e c’erano almeno tre elementi di “notiziabilità”: il numero appunto delle vittime che, nel caso di esplosioni, tende sempre ad aumentare in seguito alle ustioni. Il fatto che la fabbrica lavorava per colossi internazionali come Nestlé o British American Tobacco. Il fatto che si tratta del più grave incidente da quello che nel 2014 uccise oltre mille persone nel collasso del Rana Plaza, un edifico che conteneva diverse fabbrichette tessili e che crollò perché la proprietà aveva deciso di innalzare l’altezza del palazzo. A ben vedere in realtà, nemmeno la vicenda Rana Plaza ebbe, soprattutto in Italia, una grande copertura mediatica. Figurarsi un incendio con “solo” 26 vittime. Fortunatamente del caso di sono occupate diverse associazioni e organizzazioni sindacali locali e internazionali che ormai tengono il Bangladesh sotto stretta sorveglianza. Worker Rights Consortium, International Labor Rights Forum, Clean Clothes Campaign, Maquila Solidarity Network hanno preso subito posizione chiedendo conto a Nestlé e Bat del perché facciano lavorare per loro azienda che non hanno standard adeguati di sicurezza. E’ per altro un caso  comune - come nella Tampaco Foils - l’esplosione di boiler e l’incendio che ne consegue che divora rapidamente strutture spesso fragili e inadeguate. Il problema è che che l’accordo sulla prevenzione degli incendi non prevede la prevenzione di queste esplosioni (Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh). Il caso Tampaco potrebbe essere la spinta a rivederlo.

A che serve una campagna

Stampa, televisione, radio possono fare molto. Ma ciò che fa davvero sono le mobilitazioni di associazioni e sindacati. Che a loro volta hanno però bisogno che i media si accorgano delle loro battaglie. I risultati si vedono. Grazie a una campagna durata quattro anni e dopo mesi di negoziato – raccontano alla Campagna “Abiti puliti” -  è stato raggiunto finalmente un accordo per il pagamento di altri 5 milioni di dollari di risarcimenti ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime del più grande disastro industriale del Pakistan, avvenuto l’11 settembre 2012. Vi persero la vita più di 255 lavoratori e oltre 50 rimasero feriti nell’incendio divampato nella fabbrica tessile Ali Enterprises a Karachi. Alcuni lavoratori arsero vivi dietro finestre sprangate e porte bloccate mentre altre rimasero inferme dopo essersi lanciate dai piani più alti. Adesso, il distributore tedesco KiK, unico acquirente conosciuto della Ali Enterprises, ha accettato di versare una quota aggiuntiva di 5,15 milioni di dollari nel fondo per la perdita di reddito, cure mediche e costi di riabilitazione per i feriti e i familiari delle vittime. Precedentemente KiK aveva pagato un milione. La nuova decisione si deve alla campagna promossa da National Trade Union Federation, Piler, IndustriALL Global Union, Clean Clothes Campaign e altre alleanze tra cui UNI Global Union. All’accordo hanno contribuito anche IndustriALL, l’International Labour Organization (ILO) e una richiesta del Ministro dello sviluppo e della cooperazione economica tedesco. Poche settimane prima dell’incendio, l’azienda aveva ricevuto la certificazione SA8000 dalla società di revisione Sai (Social Accountability International) che aveva affidato l’incarico all’ente di certificazione italiano Rina: Teoricamente la fabbrica aveva presumibilmente soddisfatto gli standard internazionali in nove aree, compresa salute e sicurezza. Teoricamente.

Nessun commento:

Posta un commento