venerdì 9 settembre 2016

GRAZIE HABIBUL, FRATELLO MUSULMANO – Il terremoto per imparare ad essere popolo – Don Nandino

Vedo sul cellulare che è il numero di Habibul ma sono in Palestina e non posso rispondere ora. “Chissà cosa vorranno chiedermi loro…”.

Solo ora capisco e mi interrogo, incrociando il mio fratello Imam della Cita qui in quartiere: “Don Nandino, ti avevo cercato perché volevamo pregare insieme per le vittime del terremoto.”
Quella frase e quella proposta, come una mano tesa che non ho stretto, un desiderio rimasto disatteso, mi hanno fatto tanto pensare. Grazie, fratello Habibul, perché devo farne di strada per imparare ad abitare insieme a te la nostra stessa città e per capire una volta per tutte che non siamo “NOI” e “VOI”, NOI cristiani e VOI musulmani, NOI italiani e VOI stranieri.

Ma che fatica a capirlo! Anche stavolta è stato un fratello musulmano a ricordarmi che siamo parte della stessa famiglia perché abitiamo da cittadini la stessa Italia e lo stesso quartiere. Quante volte continuo a ragionare come se voi foste sempre e comunque “altro” da me, “stranieri” rispetto alla “mia” terra, “ospiti” anche se siete qui da una vita. D’altra parte arriviamo perfino all’assurdo di non riconoscere come italiani perfino i ragazzi che sono nati qui e quindi sono esattamente italiani come lo sono io.
Quant’è profonda e radicata in me questa idea razzista che mi fa continuare a pensare che debba essere sempre io ad insegnare a “voi”, secondo quell’odioso ritornello: “siete voi che dovete integrarvi e stare alle nostre regole!”, invece di sforzarmi di rispettarvi nella ricchezza di tradizioni e culture diverse dalla mia. Al massimo rendete più “etnica” una bella cena o più “interreligiosa” e “internazionale” una iniziativa. Ma continuo a pensare che siate “voi” a frequentare i “nostri” negozi e i “vostri” figli le “nostre” scuole.

E’ terribile pensare che mi ci voleva un terremoto per capirlo. Ma quando stamattina, carissimo fratello Habibul, con la più grande naturalezza mi hai confidato il desiderio dei fratelli musulmani di “pregare insieme” per i terremotati, davi per scontato che io non ragionassi come se le vittime del terremoto fossero “dei nostri”, cioè italiani. Voi che da decenni vivete in Italia, dovrebbe esser logico che vi sentite italiani.

Che lezione straordinaria, mi hai dato, fratello Habibul! Non ci avevo pensato quando tanti musulmani sono venuti a luglio a Messa, nella nostra chiesa, per pregare contro il terrorismo, ma ci ho pensato quando il veleno razzista è stato iniettato nei social, pochi minuti dopo le prime scosse:
“Prima «noi», poi «loro». «Noi» non siamo razzisti. Anzi, «noi» siamo fin troppo buoni e «loro» se ne approfittano. Mettiamoci «loro» nelle tende», «noi» andiamo nelle strutture dove sono ospitati; prendiamo per «noi» i 34 euro e i fondi stanziati per «loro»”
Un brivido di disgusto mi aveva preso leggendo questo odio per l’altro (profugo o musulmano poco conta). E mi scandalizzavo che usassero il lutto dell’intero popolo italiano per giocare a «noi» e «loro». Ma ora prendo atto che il virus mi ha attaccato ed anche un habituè del pulpito non è immune da quel senso di superiorità che ci sta distruggendo.

Non basterà allora constatare che venendo giù un pezzo d’Italia la falce implacabile del terremoto ha mietuto le sue vittime senza chiedere il passaporto o il permesso di soggiorno. Non sarà sufficiente leggere nei giornali che tanti richiedenti asilo sono stati tra i volontari della prima ora a scavare e soccorrere. Adesso che gli sfollati siamo noi, tutti noi, cioè con «noi» anche «loro», adesso è il tempo di sconfiggere il razzismo con la reciproca cura, ad Amatrice come a Marghera, a Parigi come in medioriente.

Dio misericordioso, che noi cristiani nel vangelo di questa domenica ti riconosciamo come un padre sempre e solo buono e che i miei fratelli della moschea del quartiere invocano come il padre di tutti i credenti, o Dio padre di tutti abbi pietà di noi e convertici insieme alla gioiosa appartenenza all’unica famiglia umana.
Don Nandino


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