domenica 18 settembre 2016

Gogna, web, giornali, Sircana - Francesco Giorgioni

Giornali e televisioni stanno somministrando da giorni pillole di saggezza e umanità, sul caso della ragazza napoletana suicidatasi per la vergogna di un peso insostenibile.
Pongono il problema della violenza in rete, una rete che non sembra la somma caotica di chi scrive e commenta ma un’entità incorporea, astratta, eppure materialmente capace di condannare a morte una persona e di bollarla a vita per la leggerezza di una serata sbagliata.
Quindi i giornali accusano la rete descrivendola come una fogna, un luogo dove è concessa la parola anche a gente irresponsabile e spietata.
Fin qui ci siamo.
Nei due anni in cui ho lavorato al Giornale di Sardegna, nella redazione di Olbia, quasi sempre uscivo di notte per andare a comprare una cena volante: un panino o una pizza, in una rosticceria di via Roma.
Al portone dello stabile che ospitava la redazione, a quell’ora, mi capitava spesso di incontrare due ragazze nigeriane, poco più che adolescenti.
Erano prostitute.
Me le ricordo stringersi intirizzite nei giubbotti, nelle notti invernali, oppure ridere tra di loro, forse per farsi coraggio a vicenda.
Io le salutavo e mi ci fermavo a parlare, quando le incontravo, una volta ricordo di aver anche offerto loro la pizza.
Non sono mai stato con una prostituta in vita mia e ci parlavo non in quanto prostitute, ma in quanto esseri umani. Cercavo di regalare loro un sorriso e una parola gentile, niente altro.
Avrei fatto lo stesso con uno spazzino o una guardia giurata, forse anche per quella misteriosa forma di empatia che nasce tra la gente costretta a lavorare di notte.
Mi sembrava un’abitudine innocente.
Senonché, in quello stesso periodo, esplose lo scandalo di Silvio Sircana. Forse nessuno se lo ricorda più, ma Silvio Sircana è stato il portavoce del presidente del Consiglio Romano Prodi.
Nel marzo del 2007, Sircana venne investito da uno scandalo surreale.
Alla guida della sua auto nel centro di Roma, peraltro con un’amica accanto, accostò ad un marciapiedi su cui stazionava un transessuale.
La sosta durò qualche istante, forse il tempo di una battuta, poi l’auto ripartì lasciando il trans dove l’aveva trovato.
Il caso, o forse no, volle che la scena fosse stata seguita da un paparazzo, alla ricerca di vip in atteggiamenti compromettenti nella notte capitolina.
Di compromettente non c’era assolutamente nulla, ma il portavoce del capo del governo che si ferma davanti ad un travestito era merce pregiata per un certo giornalismo.
Considerate che era lo stesso periodo dell’harem di villa Certosa e della rottura tra Berlusconi e Veronica Lario, con la conseguente tempesta mediatica che aveva messo in discussione l’integrità morale del signore di Arcore.
Ebbene, la foto di quell’auto ferma davanti al trans venne sbattuta su tutte le prime pagine, ad iniziare da quelle dei quotidiani antigovernativi.
Ne segui un dibattito grottesco, nel corso del quale Giampaolo Pansa – dalle colonne di Libero – arrivò a chiedere le dimissioni immediate di Sircana perché inadeguato a ricoprire la carica assegnatagli.
Tenete conto che i più fermi erano gli stessi che, tre anni dopo, si sarebbero mostrati molto più indulgenti con un presidente del Consiglio che riceveva le visite di minorenni.
Quella contro Sircana fu una campagna indegna, violentissima, con punte di follia pura. Uno di quei periodi in cui mi vergognavo, nel mostrare la mia tessera di giornalista.
Sircana messo alla gogna, principalmente davanti alla propria famiglia, per aver abbassato il finestrino davanti ad un trans, come se quello non fosse un essere umano ma un mafioso o un camorrista.
E andasse evitato come la peste.

Giunsi alla conclusione che, se qualcuno avesse voluto farmi del male, avrebbe potuto fotografare me mentre parlavo con le due prostitute nigeriane, al portone del palazzo di redazione, far girare le immagini e far credere che chissà cosa avevo contrattato in cambio della pizza offerta alle due ragazze.
Questo scempio del rispetto umano lo fecero i giornali, non la rete.
Silvio Sircana fu processato da giornalisti tenuti a rispettare una deontologia, non dalla rete.
Per questo i giornali sono gli ultimi a poter dare lezioni di correttezza.

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