giovedì 7 luglio 2016

La ragazza con l’ombrello - Doina Matei


2° classificato premio letterario Goliarda Sapienza “racconti dal carcere”(per la migliore storia e per la più intensa riflessione interiore)



Paura. Quell’ombrello, contro la paura. Me la portavo dentro, quella paura, come una pianta con radici profonde. E l’ombrello era lì, tetto, riparo, protezione, difesa.
(…)
Per me ebbe prima suoni confusi, la Paura. Suoni cupi e indistinti, fino a quando presero sostanza e corpo sul volto illividito di mia madre.
A Bucarest era la seconda metà degli anni Novanta, quando questo accadeva. E a Bucarest – dove ero nata nel 1985, quarta di cinque figli – la mia famiglia, insieme alla città tutta, sopravviveva in affanno.
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Non ci fu festa, in famiglia, per i miei quattordici anni: sono pochi all’anagrafe, quattordici, molti quando le difficoltà e i disagi invecchiano i tuoi giorni.
Com’ero io a quattordici anni? Molto carina, credo. Me lo diceva lo specchio. Me lo dicevano gli sguardi unti dei ricchi e noti maiali del quartiere. Un giorno prese a dirmelo, convincente e dolcissimo, anche un ragazzo. Ventidue anni, Valentin era carino e gentile, le sue attenzioni adulte mi facevano sentire grande e importante. Io forse non lo amavo, ma cosa ne vuoi sapere a quattordici anni dell’amore!
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Quando arrestano il tuo uomo e tu non sai perché, il cuore ti si ferma nel petto. Rubava, Valentin.
(…)
Avevo diciassette anni e due bambini da crescere, ma scelsi di rimanere sola in un mondo nel quale sapevo muovermi come un cieco senza il cane guida.
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Me li ricordo tutti, questi “amici”: così umani e gentili; così premurosi e solerti; così amorevolmente attenti ai miei problemi e al benessere mio e dei miei bambini: così partecipi della necessità assoluta che io avevo di possedere una casa tutta mia, per realizzare il sogno di tenere i miei figli con me. Un sogno che – bastava lo volessi! – era così facile, ma così facile e semplice da realizzare, da non meritare neppure il disturbo di sognare. Dai, vieni, ti portiamo in Italia!
(…)
Paura e orrore. Un’occhiata, un prezzo, un patto. E poi l’incognita perenne di un volto, forse maschera di un maniaco crudele. Vivevo le notti di marciapiede con lo strazio umiliato di una rinnovata violenza.
Fradicia di me stessa, ogni volta, ogni volto, ogni incontro volevo vomitare. Quelle mani sporche di sperma e di sprezzo mi insudiciavano il corpo, ma l’anima era altrove, volava alta e lontana. Quella melma, quel fango che mi scorreva addosso – mi ripetevo – erano cemento e calce per costruire il mio sogno più grande, la casa per i miei bambini. E quel pensiero forte, costante, un’ossessione quasi, mi aiutava a reggere l’umiliazione e la violenza di quel lurido mercato di carne.
(…)
Mi avevano raccontato piazza di Spagna, il trionfo di colore delle azalee, quella luce speciale che attraversa la grande scalinata. Un ricordo da non mancare. Con una compagna di lavoro, decidemmo di prendercela, quella mattinata, come due turiste svagate.
Il cielo brontolava di nuvole quella mattina. Avevo con me l’ombrello.
(…)
Folla nel vagone. Solita calca idiota davanti alla porta in prossimità di fermate. Serro la mano sulla sbarra che costeggia i gradini. Una ragazza sguscia veloce sotto il mio braccio, mi si piazza davanti. Stazione Termini, la metro si arresta.
(…)
Dentro ho l’eco di un urlo che lacera, vedo la ragazza mettersi la mano sul volto.
(…)
Era romana, Vanessa, aveva ventitré anni e il sorriso malinconico e buono. L’ho rubato da una foto su un giornale, quel sorriso, perché nulla di lei ricordo per quei minuti tempestosi nei quali le nostre vite si sono sfiorate, per saldarsi per sempre in un nodo violento.

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