sabato 9 luglio 2016

Dissenso egiziano in & out - Paola Caridi

Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato. Non si può neanche dire che lo abbia dovuto lasciare, perché non tutti i giovani egiziani protagonisti della rivoluzione di Tahrir hanno scelto di lasciare il proprio paese. Nonostante l’altissimo rischio di essere arrestati, torturati, uccisi. O fatti sparire nel nulla, com’è successo da oltre un anno a questa parte a più di duemila persone. Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato, è andato a vivere e a lavorare in Svezia. Come lui, una schiera sempre più folta di “ragazzi” ha attraversato il confine, ha preso un aereo, ha una borsa di studio, lavora, vive in Europa. O negli Stati Uniti. Sono, forse, una diaspora politica Ramy Essam ha lasciato l’Egitto, ma non la rivoluzione che lo aveva reso famoso. Il suo “Irhal, Irhal” era diventato virale, nell’epopea di piazza Tahrir. “Irhal, Irhal”. “Vattene, vattene”, cantato e urlato all’indirizzo di Hosni Mubarak. Ramy Essam, il musicista Ramy Essam era uno degli artisti della rivoluzione, insomma, come gli autori dei graffiti che avevano riempito i muri della downtown del Cairo, prima che anche quelli – come qualsiasi simbolo della rivoluzione del 2011 – venissero coperti o inghiottiti dal regime di Abdel Fattah al Sisi. E la rivoluzione la continua a cantare, Ramy Essam, ma a Stoccolma.
Niente di nuovo, sin qui. L’emigrazione politica, nella storia contemporanea, ha avuto le sue fasi, i suoi colori, le sue latitudini. C’è chi, giovane, riempie i ranghi degli esuli. E chi, soprattutto giovane, rimane in una patria sotto smacco. “Sotto occupazione. E un popolo addormentato. La notte è caduta su di voi, e gli avvoltoi governano il paese”: così la descrive il rocker Ramy Essam in uno dei suoi ultimi brani dal titolo indicativo, Segn bel Alwan, Carcere a colori.
Ecco, la prima differenza col passato, con la storia dell’emigrazione politica del Novecento, si trova nel legame quotidiano tra chi sta dentro e chi sta fuori. Tra il Centro Estero e l’Interno. Passa attraverso la realtà virtuale (che è via, autostrada, tessuto, legame, soprattutto comunità). Nonostante la comunicazione sia ora più difficile a causa di un’attenzione spasmodica del regime egiziano ai nuovi connettori (social, whatsapp e via elencando), la comunità del dissenso continua a produrre giornalismo d’inchiesta, arte, analisi politologiche, rapporti e denunce. Il dissenso ha, cioè, ancora capacità di disseminare informazioni, e soprattutto di attraversare la frontiera, di sconfinare per investire la comunità internazionale dei suoi doveri di protezione dei diritti.
Le rivoluzioni, certo, non si fanno con un clic. Né con una bella canzone, un mix tra pop e rap. E i social, se non tradotti e interpretati a dovere, creano illusioni ottiche che talvolta provocano delusioni cocenti. Nella storia della dissidenza giovanile egiziana, però, ciò che accade (o non accade) nell’agorà virtuale è segno di quello che sta per accadere. Che accadrà. O che, come in questo caso, non si è concluso. Anzi, è il prodotto di oltre dieci anni di dissidenza che si è consolidata via web, e poi si è unita in una comunità del tutto fisica, reale.
Intimoriscono i manifestanti (pacifici) che si sono ritrovati per strada al Cairo. Intimoriscono gli avvocati, come Ahmed Abdallah, uomo di punta della Commissione egiziana per i diritti e la libertà, consultato anche dai legali della famiglia di Giulio Regeni. Intimoriscono, e molto, i giornalisti contro i quali il ministero degli Interni aveva addirittura stilato un rapporto pieno di strategia di comunicazione e contromisure.
Il dissenso egiziano, incarnato dalle giovani generazioni, è una rivoluzione. Una rivoluzione perché i cambiamenti al vertice – prima la presidenza fallimentare del capo dello Stato democraticamente eletto Mohammed al Morsi, poi il golpe militare di Abdel Fattah al Sisi – non hanno normalizzato e neanche eliminato un’opposizione attiva, tenace, quotidiana che deve contare decine di migliaia di persone, se decine di migliaia di persone sono in carcere. Fatti salvi i tanti casi in cui, a essere dietro le sbarre, sono persone che non avevano un interesse politico.
Il regime egiziano, in sostanza, non riesce a rispondere al paniere colmo di richieste che Piazza Tahrir aveva consegnato al sistema di potere guidato da Hosni Mubarak, e poi reiterato a coloro che erano saliti al vertice dello Stato egiziano. Nessuno, in questi cinque anni, è stato capace o ha voluto affrontare i nodi strutturali, etici, politici, economici, sociali che hanno provocato la rivoluzione. Diritti umani, diritti di cittadinanza, diritti sindacali, dignità, equità sociale, trasparenza, pari opportunità: le richieste del 2011 erano talmente chiare da far comprendere, al regime di allora, che nulla avrebbero potuto dare a chi era sceso in piazza, se non al prezzo di una caduta del sistema. Il ritorno nel 2013 del regime in altre forme, ancora più autocratiche di prima, significa che non esiste per ora una possibile mediazione, una possibile transizione che metta attorno al tavolo i diversi attori, il regime e il dissenso, la gerontocrazia militare, burocratica, economica e, dall’altra parte, chi ne ha chiesto l’esautorazione per giungere a un sistema di potere nuovo.

E se i numeri non sono bastanti a spiegare la forza reale di un dissenso che si oppone a un regime, possono comunque sorprenderci, tanto da porci alcune domande. I numeri sono numeri virtuali. Mezzo milione di visualizzazioni in un mese e mezzo per uno dei brani politici di Ramy Essam. Mezzo milione di clic, per un brano che parla di carcere, di detenuti politici in Egitto, di attivisti dietro le sbarre con tanto di nome e cognome. Mahienour El Masry, Ahmed Douma, Sana Seif.
La prima domanda, una domanda che non è solo curiosità, riguarda il “chi è” di coloro che hanno visto il video di Segn bel alwan. Tutti egiziani? Oppure Ramy Essam ha fan in tutto il mondo? Sarebbe importante saperlo, certo. E forse i suoi estimatori sono ormai ben oltre i confini dell’Egitto. Molti, però, sono ancora lì dentro, confinati in una scatola, un campo in cui i diritti richiesti nel 2011 non sono stati difesi. Semmai, sono stati vilipesi soprattutto negli ultimi due anni e mezzo. Centinaia di migliaia di persone, si suppone in gran parte giovanissime, hanno visto e canticchiato una videoclip in cui si contesta al regime di Abdel Fattah al Sisi di aver messo in carcere e torturato gli oppositori, come denunciato da tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani e civili. Una videoclip in cui si dice che l’unica reazione è la rivoluzione.
La seconda, cruciale domanda è, dunque, se quella in corso al Cairo sia stata e sia ancora una rivoluzione. Io credo di sì. Per il mezzo milione di clic a un brano di Ramy Essam, icona pop della canzone di protesta egiziana? Anche. Quel mezzo milione parla di un disagio forte, all’interno di un settore sociale e generazionale che comprende la maggioranza degli egiziani: è un disagio che diviene concreto nonostante una repressione considerata peggiore di quella del regime di Hosni Mubarak. Il mezzo milione di clic dice anche che una potenziale base di dissenso è ampia quanto lo era ampia cinque anni fa, quando la pagina “Kollena Khaled Said”, cioè “Siamo tutti Khaled Said” in onore di un ragazzo ammazzato di botte dalla polizia egiziana ad Alessandria, aveva raccolto ottocentomila “mi piace”.
Allora, nel 2010-2011, il social era stato l’aggregatore di un dissenso/disagio reale che non poteva scendere in piazza a causa di una immediata repressione da parte delle forze di sicurezza. Le manifestazioni contavano al massimo cinquanta, cento persone accerchiate da un imponente apparato di sicurezza. I cordoni di polizia, insomma. E oggi? Oggi la repressione è ancora più dura, più diffusa, più arrogante. Non risparmia alcuna organizzazione e categoria professionale. Non risparmia gli avvocati specializzati nella difesa dei diritti umani, né i giornalisti. Non risparmia ragazzi di 19 anni, di 23 anni, i giovani uomini di 28. E la durezza della repressione è lo specchio patente della fragilità del regime egiziano, così come la spia che ben poco sia normalizzato nel paese. Basti pensare che, nel momento di massima repressione, il regime egiziano ha arrestato oltre mille persone prima, durante e dopo le manifestazioni dello scorso 25 aprile contro la decisione, da parte del Cairo, di cedere all’Arabia Saudita le due isolette di Tiran e Sanafir.
A fronte di una repressione conclamata, denunciata, e della quale si sa moltissimo, il dissenso non si tira indietro. Tanto meno ora, in una situazione che sembra la più delicata dal tempo del golpe militare del luglio 2013. Gli attivisti si fanno arrestare. Alcuni si consegnano addirittura spontaneamente ai commissariati di polizia. Affrontano la giustizia e sfidano al tempo stesso il regime in condizioni di assenza di uno Stato di diritto che protegga i diritti individuali. Se i numeri anche in questo caso sono la spia che si accende, il segno di altro, allora come si dovrebbero interpretare le decine di migliaia di detenuti politici? Oltre ventimila per le stime più basse. Oltre quarantamila per altre associazioni. Sono o non sono, questi numeri, al tempo stesso la conferma di una repressione e il segno di una rivoluzione?
Intanto, a Stoccolma, Ramy Essam canta che la “rivoluzione è la soluzione”. Né l’Islam, come dicevano i Fratelli musulmani. Né la democrazia, come scriveva Alaa al Aswany. No, non sono solo canzonette. In fondo, nella storia musicale araba, non lo sono mai state.



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