mercoledì 27 luglio 2016

Da Nizza al Medio Oriente: l'unico modo di sfidare l'ISIS - Ramzy Baroud



Ho visitato l’Iraq nel 1999. All’epoca non c’erano i cosiddetti ‘jihadisti’ che aderivano ai principi del ‘jihadismo’, qualunque possa esserne l’interpretazione. Alla periferia di Baghdad, c’era un campo di addestramento militare, non per ‘al-Qaida’, ma per il ‘Mojahedin-e-Khalq’, un gruppo iraniano militante in esilio che operava, con finanziamenti e armi straniere, per rovesciare la Repubblica iraniana.
All’epoca, il defunto presidente iracheno, Saddam Hussein usava quella organizzazione che era stata esiliata,  per saldare i conti con i suoi rivali a Teheran, dato che anche loro abbracciavano le milizie governative anti-irachene per ottenere esattamente lo stesso scopo.
L’Iraq non era certo in pace allora, ma la maggior parte delle bombe che esplodevano in quel paese, erano americane. Infatti, quando gli iracheni parlavano di ‘terrorismo’, si riferivano soltanto ‘Al-Irhab al-Amriki’ – il terrorismo americano.
Gli attacchi suicidi erano difficilmente un evento quotidiano, anzi non erano mai un evento, in nessuna parte dell’Iraq. Non appena gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan nel 2001 e poi l’Iraq nel 2003, si scatenò l’inferno.
Nei 25 anni precedenti al 2008 si era assistito a 1.840 attacchi suicidi, secondo i dati raccolti dagli esperti del governo americano e citati sul Washington Post. Di tutti questi attacchi, l’86% si erano verificati dopo le invasioni statunitensi dell’Afghanistan e dell’Iraq. Invece, tra il 2001 e la pubblicazione dei dati nel 2008, ci sono stati 920 attentati suicidi in Iraq e 260 in Afghanistan.
Un quadro più completo emerse nel 2010, con la pubblicazione di una ricerca più imponente e dettagliata, condotta per il Progetto sulla Sicurezza e il terrorismo, dell’Università di Chicago.
Era emerso che “più del 95% di tutti gli attacchi suicidi sono in reazione all’occupazione straniera.”
“Quando gli Stati Uniti hanno occupato l’ Afghanistan e l’Iraq…il totale degli attacchi suicidi in tutto il mondo è aumentato sensibilmente – da 300 tra il 1980 e il 2003, a 1.800 tra il 2004 e il 2009,” ha scritto Robert Pape sula rivista Foreign Policy.
Si è anche concluso, fatto significativo, che “oltre il 90% degli attacchi suicidi in tutto il mondo sono ora anti-americani. La vasta maggioranza dei terroristi che si suicidano provengono dalla locale regione minacciata dalle truppe straniere, e questo è il motivo per cui il 90% di coloro che compiono un attacco suicida in Afghanistan, sono Afgani.”
Quando visitai l’Iraq nel 1999, ‘al-Qaida’ era semplicemente un nome che si sentiva sui notiziari televisivi iracheni in riferimento a un gruppo di militanti che operavano per lo più in Afghanistan. Era stato dapprima istituito per unire  i combattenti arabi contro la presenza sovietica in quel paese e all’epoca fu in gran parte non considerato una  minaccia alla sicurezza globale.
E’ stato anni dopo che i sovietici lasciarono l’Afghanistan, nel 1988, che ‘al-Qaida’ divenne un fenomeno globale. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, le reazioni sbagliate degli Stati Uniti – invadere e distruggere dei paesi – crearono proprio quel ricettacolo che oggi ha accettato la militanza  e il terrore di oggi.
In men che non si dica, in seguito all’invasione americana dell’Iraq, ‘al-Qaida’ estese le sue ombre scure su un paese che era già sopraffatto da un numero di morti che superò le centinaia di migliaia.
Non è certo difficile seguire il filo della formazione dell’ISIS, il più letale di tutti questi gruppi che hanno avuto origine soprattutto da ‘al-Qaida’in Iraq, esso stesso causato dall’invasione statunitense.
E’ nato nell’ottobre 2006 dall’unione di vari gruppi militanti, quando ‘al-Qaida’ in Mesopotamia si è aggregato alle fila del ‘Consiglio della Shura dei Mujahidin  in Iraq, dello ‘Jund al-Sahhaba’ (Soldati del cielo) e dello Stato Islamico dell’Iraq’(ISI).
L’ISIS, o ‘Daesh’, è esistita da allora, sotto varie forme e con varie abilità, ma è diventata famosa come organizzazione orrendamente violenta con ambizioni territoriali, quando un’insurrezione in Siria si trasformò in una piattaforma mortale di rivalità regionali. Quello che esisteva come ‘stato’ a livello virtuale, cerebrale, si era di fatto trasformato in uno ‘stato’ con una reale regione,  giacimenti petroliferi e di legge marziale.
E’ facile, forse comodo, dimenticare tutto questo. Collegare i proverbiali puntini può essere costoso per alcuni, perché svelerà una traiettoria di violenza radicata nell’intervento straniero. Secondo molti commentatori e politici occidentali è molto più facile – certamente più sicuro – discutere dell’ISIS in contesti improbabili, per esempio l’Islam, piuttosto che assumersi una responsabilità morale.
Compatisco quei ricercatori che hanno passato anni a esaminare la tesi dell’ISIS come teologia religiosa oppure l’ISIS e l’apocalisse. Si guardano i dettagli ma non tutto il quadro completo. Che cosa vi ha portato di buono, comunque?
Gli interventi militari e politici americani sono stati sempre accompagnati dal tentativo di intervenire anche nei curricula scolastici dei paesi invasi. La guerra all’Afghanistan si è unita anche a una guerra alle sue ‘madrase’ (la scuole coraniche) e ai suoi ‘ulema’ ribelli (i dotti musulmani di scienze religiose, n.d.t.). Nulla di questo è stato utile, semmai  ha avuto un effetto boomerang, perché ha messo insieme la sensazione di minaccia e il senso di persecuzione tra diecine di milioni di musulmani in tutto il mondo.
ISIS non è che un nome che può essere rinominato senza che si noti e trasformato in qualcosa di completamente diverso. Anche la sua tattica può cambiare, in base al tempo e alle circostanze. I suoi seguaci possono infliggere la violenza usando una cintura esplosiva, una macchina carica di esplosivo, un coltello o un camion che si muove a grande velocità.
Quello che è realmente importante, è che l’ISIS è diventato un fenomeno, un’idea che non è neanche limitata a un singolo gruppo e che non richiede nessuna adesione ufficiale, trasferimento di fondi o di armi.
Non è un fatto comune, ma, con un approccio più sensato, dovrebbe rappresentare il punto cruciale della lotta contro l’ISIS.
Quando un autista franco-tunisino di camion si è buttato contro una folla di persone che stavano facendo festa nelle strade di Nizza, la polizia francese si è data rapidamente da fare per trovare dei collegamenti tra l’uomo e l’ISIS o un altro gruppo combattente. Nessun indizio è stato rivelato immediatamente e tuttavia, stranamente, il Presidente François Hollande ha rapidamente dichiarato le sue intenzioni di reagire militarmente.
Che stupidità e ottusità! Che cosa ha ottenuto di buono l’avventurismo militare della Francia in anni recenti? La Libia si è trasformata in un’isola di caos dove ora l’ISIS controlla intere città. L’Iraq e la Siria rimangono luoghi di violenza assoluta.
Che dire del Mali? Forse i francesi hanno avuto una sorte migliore in quel paese.
In un articolo per Al-Jazeera, Pape Samba Kane ha descritto la terribile realtà che il Mali è diventato, in seguito all’intervento francese del 2003. La loro cosiddetta ‘Operazione Serval’ *si è trasformata nella ‘Operazione Barkhane’**: il Mali non è diventato un posto in pace e i francesi non hanno lasciato il paese.
I francesi, secondo Kane sono ora Occupanti, non liberatori e secondo tutti i dati razionali – come quelli sottolineati qui sopra – sappiamo tutti che cosa fa un’occupazione straniera.
Kane ha scritto: “La domanda che devono farsi i maliani, è: “Preferiscono dover combattere contro i jihadisti per molto tempo, oppure che la loro sovranità sia contestata e che il loro territorio venga occupato o suddiviso da un vecchi stato colonialista allo scopo di soddisfare un gruppo alleato con una potenza coloniale?”
Tuttavia, i francesi, come gli americani, i britannici ed altri, continuano a evitare questa ovvia realtà a proprio rischio. Rifiutare di accettare il fatto che l’ISIS è soltanto una componente di un percorso molto più ampio e inquietante di violenza che è radicata nell’intervento straniero, vuol dire permettere che la violenza si perpetui dovunque.
Per sconfiggere l’ISIS è necessario anche che affrontiamo e sconfiggiamo la teoria che ci ha portato a questa soglia: sconfiggere la logica dei  George W. Bush, dei Tony Blair  e dei John Howards che ci sono in questo mondo.
Non importa come siano violenti i membri dell’ISIS o i loro sostenitori: è sostanzialmente un gruppo di giovani uomini arrabbiati, alienati, radicalizzati che
cercano di modificare loro situazione disperata facendo spregevoli atti di vendetta, anche se questo significa perdere la vita nel corso dell’azione.
Bombardare i campi dell’ISIS può forse distruggere alcune delle loro strutture militari, ma non sradicherà  proprio l’idea che ha permesso loro di reclutare migliaia di giovani in tutto il mondo.
Essi sono il risultato del modo di pensare violento che si è generato non soltanto in Medio Oriente, ma, inizialmente, in varie capitali occidentali.
L’ISIS si affievolirà e morirà quando i suoi leader perderanno la loro attrattiva e la capacità di reclutare dei giovani che cercano risposte e vendetta.
L’opzione della guerra finora si è dimostrata la meno efficace. L’ISIS resterà e si trasformerà, se sarà necessario, fino a quando la guerra resterà nei programmi.. Per porre fine all’ISIS dobbiamo porre fine alla guerra e alle occupazioni straniere.
E’ molto semplice.

Il Dottor  Ramzy Baroud scrive da 20 anni di Medio Oriente. E’ un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, consulente nel campo dei mezzi di informazione, autore di vari libri  e fondatore del sito PalestineChronicle.com.  Tra i suoi  ci sono: Searching Jenin [Cercando Jenin] The Second Palestinian Intifada [La seconda Intifada palestinese] e quello più recente: My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story(Pluto Press, Londa).  [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza che non è stata raccontata]. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace

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