giovedì 9 giugno 2016

movimenti in Tunisia

La svolta della Tunisia, tra islam e democrazia - Armando Sanguini

Perché l'ultimo Congresso di rifondazione del partito Ennahda è stato fondamentale -
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Avrei voluto esserci, a Tunisi, per assistere al Congresso di rifondazione del partito “islamico” Ennahda, il decimo della sua lunga storia, a opera il Rached Gannouchi, il suo leader indiscusso.
Avrei voluto esserci per mescolarmi tra le migliaia di tunisini che ne hanno seguito i lavori e toccare con mano quella che mi è stata descritta come una straordinaria tensione emotiva sprigionatasi nel momento in cui sono apparsi assieme, sul palco, lo stesso Gannouchi e Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica e portabandiera dell'europeizzante schieramento avverso, Nidàa Tunes.
E poi quando si sono rivolti all'auditorio con parole marcate da un 'patriottismo' per noi forse desueto ma in sintonia col clima politico e sociale di un Paese che dopo i cinque anni più traumatici della sua storia, sta facendo ancora tanta fatica nel perseguimento di un orizzonte di sicurezza, di stabilizzazione e di ripresa economica e sociale ragionevolmente rassicurante.
TRA L'INDIFFERENZA DEI MEDIA. Avrei voluto esserci perché quel Congresso, lasciato nelle retrovie dell’attenzione mediatica italiana, europea e internazionale, focalizzata sui ben più inquietanti scenari Nord-africani (Libia, Egitto) e Medio-orientali (Siria, Iraq, Yemen) e migratori, potrebbe rappresentare un punto di svolta altamente significativo non solo per la Tunisia, ma per altri Stati del cosiddetto mondo islamico del nostro intorno geopolitico.
La ragione di questo mio interesse sta nel fatto che a Tunisi si è consumato il passaggio della trasformazione di Enahda da 'partito islamico' a 'partito civile' come l'ha voluta semplificare lo stesso Gannouchi; il passaggio della separazione della sfera politica da quella religiosa.
Non si tratta di una decisione estemporanea e ancor meno di una posizione dettata dalle circostanze, ha sottolineato lo stesso Gannouchi, ma il frutto di un processo storico lento e travagliato verso l’abbandono dell’impostazione di fondo per la quale è l’islam che determina la politica e ne definisce la linea di condotta a favore dell’affermazione dello spazio proprio della “politica” nei suoi termini etimologici della polis e dunque ai valori e alle regole dell’assetto costituzionale dello Stato.
L’islam resta, naturalmente, perché il Paese vi si riconosce, ma è chiamato a esprimersi nella sfera personale dei cittadini.
RINUNCIA ALLA VIOLENZA. Di quel processo ha voluto ricordare i passaggi più significativi riandando al momento iniziale del suo movimento basato inizialmente su una declinazione teologica con preoccupazioni di natura identitaria - da Azione islamica a Movimento della tendenza islamica negli Anni 80 - a una formazione protestataria e di lotta contro il regime di Ben Ali venata di islamismo tunisino e infine a una organizzazione - Ennahda (rinascita) per l’appunto - che rinuncia alla violenza e poi alla collateralità col salafismo ed evolve in un partito deciso a porre gli interessi della Tunisia davanti a tutto (prima la Tunisia e poi l’islam) e agire nei termini ed entro i confini marcati dalla Costituzione.
Certo che ne ha fatta di strada questo leader tunisino, condannato a morte da Bourghiba (1987), salvato da Ben Ali che poi proscrive il partito e lo costringe all'esilio (1991), capace di mantenere e anzi far crescere negli anni il consenso attorno al suo programma politico-religioso; poi il rientro in patria nel 2011, la vittoria elettorale, l'opacità dei rapporti con l'area salafita, poi il governo di coalizione (Troika), disastroso nei risultati e puntualmente punito dall'elettorato; poi il travagliato ma rivoluzionario parto della Costituzione, esempio di equilibrio tra islam e valori occidentali dove è sancita l’uguaglianza uomo-donna e la libertà di coscienza di fede e del libero esercizio del culto; infine la partecipazione minoritaria nel governo occidentalizzante di Nidàa Tunes.
Il tutto in un clima politico di crescente frammentazione e litigiosità, in un contesto di preoccupante crisi economica e quindi anche sociale sulla quale si è andato accanendo il terrorismo con le sue persistenti e sanguinose incursioni, dall’interno e dall’esterno.
UNA SFIDA PESANTISSIMA. Insomma, in una dinamica che sta mettendo a dura prova la tenuta stessa del sistema politico tunisino chiamato a una sfida pesantissima che se sollecita uno sforzo straordinario di convergenza attorno ai pilastri costituzionali che il Paese è riuscito a darsi nel 2014, richiede anche una strategia di ripresa economica e occupazionale che stenta ancora a emergere con chiarezza e determinazione. Complice l’inadeguatezza della collaborazione esterna, europea e internazionale.
Certo non sarà questa evoluzione di Ennahda a sciogliere i nodi in cui si trova stretta la Tunisia, ma vi potrà contribuire in maniera concreta: per abbassare la soglia della polarizzazione politica come rispecchiato del resto dalla presenza al Congresso di molti leader del frastagliato scenario partitico del Paese - e di riflesso propiziare le mediazioni sul versante economico-sociale di cui la Tunisia ha urgente necessità - per trovare più solidarietà nella regione e sul piano internazionale e in definitiva per sottrarre alimento ai principi attivi dell’estremismo.
E il suo contributo potrebbe rivelarsi di notevole valenza se, come appare assai probabile, questa evoluzione farà crescere ulteriormente il consenso, già alto del resto, verso questo partito e con esso anche il suo peso effettivo nella partecipazione al governo del Paese, indebolito dalla crisi che si è consumata all’interno del raggruppamento occidentalizzante di Nidàa Tunes, il grande azionista dell’attuale esecutivo.
ALL'AVANGUARDIA DELL'ISLAM. Questo lo vedremo, ma intanto non sfuggirà il fatto che con questa scelta di campo compiuta da Ennahda la Tunisia si pone nuovamente all’avanguardia del mondo arabo-islamico e islamico in generale, non rinunciando all’appartenenza all’islam, ma rendendola compatibile con la democrazia, i suoi principi e i suoi valori fondanti.
Si tratta di un messaggio forte, una sfida percuotente, soprattutto in un momento come questo in cui quello che si vuole definire “islam politico” sta evidenziando le sue derive più devastanti nella declinazione che passa dalla totalizzante marca politico-religiosa della Fratellanza musulmana alla versione terroristico-millenaristica del Califfato.
In Tunisia e altrove non sono pochi coloro che ritengono questo passaggio di Gannouchi fondamentalmente fittizio, strumentale alla riconquista del potere.
Io non nutro questo sospetto e temo anzi che coltivare questo pregiudizio sul piano interno e internazionale possa finire per risultare controproducente e rafforzare proprio la spinta alla sua strumentalizzazione da parte dei nostalgici dell’islamizzazione della politica, che certo ancora ci sono, nel partito.
Penso in buona sostanza che occorra sfidare Gannouchi proprio sul terreno delle indicazioni politiche di cui si è reso protagonista. E penso pure che Europa e Italia debbano sostanziare la sfida anche assicurando a questo Paese a noi tanto vicino maggiore sostegno e incoraggiamento. Anche a beneficio della tanto auspicata stabilizzazione della Libia e della non meno necessaria normalizzazione politica egiziana.


Ennahda, prima tunisino e poi Fratello - Riccardo Fabiani

 

In Tunisia, la principale declinazione della Fratellanza musulmana è rappresentata da Ennahda, il maggiore attore politico del dopo-Ben Ali. Il ritorno dall’esilio di Rasid Gannusi (o Ghannouchi), leader del movimento islamista, il 30 gennaio 2011, suscitò un’ondata di panico nell’élite laica del paese. Dopo vent’anni di esilio, Gannusi venne accolto da migliaia di sostenitori in delirio all’aeroporto – una scena che molti tunisini non esitarono a equiparare al ritorno dell’ayatollah Khomeini in Iran nel 1979. Eppure, due anni dopo, la Tunisia continua a seguire una traiettoria politica ben diversa dal paventato scenario iraniano e appare lontana persino dalla contemporanea esperienza egiziana. Sotto assedio su più fronti, Ennahda ha trovato un percorso unico nello scenario regionale, sottolineando ancora una volta l’eccentricità del modello tunisino.
«La legittimità dello Stato poggia sulla scelta del popolo. Siamo assolutamente d’accordo su questo.E noi siamo per la libertà di coscienza, (…) per le libertà politiche». Così dichiarava Gannusi in un’intervista del 1993, in netto contrasto con quanto predicato al tempo da altri leader islamisti della regione. La vittoria elettorale di Ennahda nel 2011 ha rappresentato il coronamento di una lunga marcia politica cominciata negli anni Ottanta, caratterizzata dalla dura repressione da parte del regime di Habib Bourguiba. Linea perseguita successivamente anche sotto Ben Ali (Zayn al-‘Abidin Bin ‘Ali) e caratterizzata da un processo di moderazione e ripensamento concettuale dell’ispirazione islamista del movimento.
Fondato nel 1981 e inizialmente noto come Movimento della tendenza islamica (Mti), nel volgere di pochi anni il partito islamista tunisino acquisì la reputazione di principale forza d’opposizione al regime, a scapito del Movimento dei democratici socialisti di Ahmad al-Mistiri(1). L’Mti sfruttò così un breve periodo di liberalizzazione dello spazio politico che coincise col crepuscolo del regime di Bourguiba, quando il sistema politico tunisino andò incontro a una fase di stallo decisionale condizionato dal peggioramento della salute del ra’is e dalle crescenti difficoltà economiche. In questo contesto, l’Mti si presentò come un’alternativa radicale a un regime autoritario e laico da sostituire con un nuovo sistema politico di stampo islamista – analogamente a quanto accadeva negli altri spazi arabi del Mediterraneo. E proprio come nel resto del mondo arabo, le autorità tunisine risposero inizialmente a questa sfida in maniera incerta, alternando misure di cauta liberalizzazione politica alla repressione.
Fu così che nel 1987 il colpo di Stato «medico» con cui Ben Ali spodestò Bourguiba venne salutato da molti militanti islamisti come un’opportunità unica per salire finalmente al potere sfruttando l’apertura politica inaugurata dal nuovo presidente nelle settimane successive alla sua ascesa al vertice dello Stato. Tuttavia, nel giro di pochi mesi divenne chiaro a tutti come nel nuovo regime di Ben Ali non ci fosse spazio per l’Mti (che più tardi si trasformò in Harakat al-Nahda, o più semplicemente Ennahda, il Movimento della rinascita). Negli anni Novanta e Duemila Ennahda si scontrò con la durissima repressione poliziesca di Ben Ali, che costrinse una parte della leadership del partito all’esilio per sfuggire al carcere – sorte che invece toccò a gran parte dei militanti. Tuttavia, tali eventi contribuirono a creare quella fama di serietà, integrità e determinazione che rese Ennahda il principale e più rispettato movimento d’opposizione al regime nell’immaginario collettivo del popolo tunisino e nelle narrative di resistenza ad esso connesse.
In questo contesto, non è stata certamente una sorpresa che la caduta del regime di Ben Ali all’inizio del 2011 abbia spalancato le porte al ritorno in grande stile di Ennahda e della sua leadership esiliata. Tuttavia, a differenza di Khomeini di ritorno dall’esilio parigino nel 1979, sin dall’inizio Gannusi è stato attento a non spaventare gli ambienti laici del paese e a rassicurare la classe media evitando ogni contrasto con gli altri partiti d’opposizione, accennando a un programma elettorale privo di riferimenti specifici alla legge islamica (sari‘a). Questo approccio è servito infatti ad aumentare la popolarità di Ennahda anche presso quei settori della società tunisina non appartenenti allo spazio ideologico islamista di cui Ennahda rappresentava il centro di gravità politico, culturale e ideologico.
Grazie a questa strategia, per mesi Gannusi è riuscito a evitare i temi più controversi e scottanti (come quello dei diritti delle donne o del ruolo dell’islam in politica), riuscendo a raggiungere sia le constituencies più oltranziste sia quelle non islamiste e costruendo un blocco sociale ampio ed etereogeneo capace di fare di Ennahda il principale partito del paese. Nell’ottobre 2011 Ennahda ha così ottenuto il 37% dei voti, seguito da due partiti laici, il Congresso per la Repubblica e Ettakatol (al-Takattul) con il 9% e il 7% rispettivamente (i quali sono diventati poi suoi alleati al governo). Grazie a questo risultato, Ennahda ha conquistato un ruolo determinante nel delineare gli assetti futuri della Tunisia e nel definirne la costituzione. Eppure, il successo decretato dalle urne non è stato sufficiente per permettere agli islamisti di governare da soli, costringendoli a scendere a patti con il Congresso e con Ettakatol. La maggioranza solo relativa ottenuta da Ennahda si è rivelata fondamentale nel delineare la traiettoria della transizione politica tunisina.
Nei mesi successivi al trionfo elettorale di Ennahda, infatti, si è lentamente delineato il nuovo scenario politico tunisino, rivelando una transizione ben diversa dai caotici processi avviati quasi in contemporanea in Egitto e poco più tardi in Libia. Tre elementi si sono affermati prepotentemente, condizionando così il panorama post-elettorale: la maggioranza assoluta dei partiti di ispirazione laica, sebbene profondamente divisi e in guerra l’uno con l’altro; la lenta crescita di un nuovo attore politico alla destra di Ennahda, ovvero la nebulosa salafita; e l’emersione di diverse linee di frattura interne a Ennahda, principalmente come conseguenza delle opposte pressioni esercitate a sinistra dai partiti laici e a destra dai salafiti.
Per quanto riguarda la maggioranza laica, non essendo riuscita a unirsi è stata politicamente sconfitta, ma è rimasta in grado di influenzare in maniera determinante il dibattito costituzionale e i processi decisionali, rappresentando anche un freno per eventuali tentativi di Ennahda di spingere l’acceleratore a destra. Di fronte ad ogni tentativo di Ennahda di ridisegnare i confini del rapporto religione-politica o dei diritti delle donne, la mobilitazione dei laici è stata fondamentale per frenare le spinte islamiste più radicali, complice la maggioranza solo relativa di Ennahda nell’assemblea costituente. Sicché Ennahda si è limitato a consolidare il proprio potere in questa fase, per rimandare a un non meglio precisato futuro la possibilità di introdurre misure controverse come, ad esempio, il divieto della blasfemia.
Tuttavia, il fenomeno politico più originale e inatteso è stata la spettacolare emersione del salafismo come attore rilevante. L’apertura dello spazio politico e la legalizzazione di comportamenti personali e movimenti collettivi precedentemente repressi sotto Ben Ali hanno creato infatti un vuoto politico alla destra di Ennahda, accentuato anche dalla svolta pragmatico-centrista del movimento. È dunque emersa una pletora di predicatori e di gruppi estremisti di stampo salafita, un’alternativa estremamente interessante per i settori più conservatori della società tunisina, spiazzati dalla moderazione mostrata da Ennahda negli ultimi due anni. Grazie ad alcuni atti provocatori capaci di innescare una spirale di paura e violenza che ha condizionato il clima sociale e politico in Tunisia per mesi, essi sono riusciti a occupare in maniera sempre più vistosa lo spazio mediatico tunisino, amplificando la propria presa su alcuni settori della società.
Inoltre, gli islamisti di Gannusi si sono trovati per la prima volta in concorrenza con altri soggetti religiosi tunisini. L’agguerrita minoranza salafita ha introdotto un elemento cruciale di sfida all’egemonia di Ennahda nel campo conservatore, evidenziando come esista anche in Tunisia un settore della società pronto a entrare in azione qualora gli islamisti al potere si mostrino troppo timidi con i laici.
Ennahda ha reagito assumendo un atteggiamento profondamente ambiguo nei confronti dei salafiti: da una parte, gli islamisti di Gannusi sanno di aver bisogno dei salafiti per vincere le prossime elezioni; dall’altra parte, Ennahda non può far vedere di essere troppo vicino ai salafiti, pena la perdita di consensi a sinistra, fra gli elettori moderati e non islamisti. Tale dilemma è il più importante problema strategico per Ennahda, incapace di risolvere quest’ambiguità senza perdere pezzi a destra o a sinistra. Inoltre, a causa di questo dilemma sono emerse svariate linee di frattura all’interno di Ennahda. Gannusi ha cercato di coprire le crepe usando un linguaggio impreciso e vago, a volte avanzando proposte più radicali – salvo ritirarle in seconda battuta davanti alle veementi proteste dell’opposizione laica. Tuttavia, questa tattica non è stata sufficiente a nascondere le molteplici divisioni all’interno del partito, fra moderati (come il primo ministro Hamadi Gibali) e conservatori (come Sadiq Suru) o fra leadership in esilio e in carcere: i primi sono quelli che hanno trascorso gli ultimi vent’anni a Londra o nel Golfo e pertanto tendono ad assumere posizioni più concilianti verso i partiti laici, mentre gli altri hanno scontato lunghe pene nelle prigioni di Ben Ali e sono a più stretto contatto con i duri e puri del partito. O ancora fra Gibali e Gannusi, quest’ultimo velatamente accusato di manovrare contro il primo con l’obiettivo di sostituirlo alla guida del governo con il più fedele ministro della Salute ‘Abd al-Latif Mikki. Lungi dallo spaccare in due Ennahda, questi scontri personali e ideologici tendono invece a sovrapporsi, evidenziando la natura complessa del fenomeno islamista tunisino. Un elemento, però, è emerso con precisione: finché Gannusi resterà in sella, le divisioni non rischieranno di esplodere in maniera drammatica, mettendo a repentaglio l’unità del partito. I dubbi seri riguardano la capacità di tenuta di Ennahda nel futuro post-Gannusi.
Questo delicato equilibrio politico ha prodotto un aspro dibattito costituzionale. Solo dopo vari mesi l’Assemblea costituente è riuscita a presentare un progetto di costituzione condiviso più o meno dalla maggior parte delle forze politiche e sociali. Grazie a estenuanti trattative e dopo alcune mini-crisi, le autorità tunisine hanno raggiunto un compromesso sulla forma di governo semipresidenziale, sui diritti delle donne eccetera. Nonostante le tensioni sociali e politiche restino alte, la Tunisia ha imboccato una strada consensuale dalla quale non si è mai allontanata, evitando gli strappi e i traumi che hanno caratterizzato la transizione egiziana.
Il percorso nettamente diverso seguito dalla Tunisia rispetto all’Egitto non è una sorpresa. La «primavera araba» ha infatti trovato qui un terreno ben più propizio: la Tunisia è un paese piccolo, economicamente aperto e rivolto verso l’Europa, al riparo dalle pressioni geopolitiche dello scontro fra i giganti maghrebini Algeria-Marocco e sufficientemente lontano dal Mashreq (Masriq). Inoltre, grazie a un lascito coloniale meno duro rispetto ad Algeria o Libia e alle limitate risorse petrolifere e minerarie, il paese ha potuto sviluppare un’ampia e ben istruita classe media che ha tratto giovamento dall’economia relativamente diversificata della Tunisia. In questo contesto, l’esperienza islamista di Ennahda si è sviluppata seguendo un percorso decisamente moderno e originale nel panorama mediorientale e nordafricano. Non è un caso infatti che Gannusi ami esibire il proprio status di intellettuale guida nell’universo islamista, nonostante lo scarso peso politico dei tunisini nello spazio globale della Fratellanza, e spesso ribalti l’immancabile domanda su quale sia il modello di riferimento di Ennahda sostenendo invece che siano i suoi libri ad aver ispirato altri movimenti islamisti.
L’islamismo tunisino si è così adattato alla realtà sociale ed economica del paese, in maniera simile all’Akp in Turchia, facendo propri i princìpi democratici e liberali condivisi dalla maggioranza della popolazione. In questo senso, da un punto di vista geopolitico Ennahda, più che un fratello minore dei Fratelli musulmani egiziani, è diventato un fenomeno largamente autonomo e scarsamente influenzato dal Cairo. Al contrario, la parabola egiziana viene vista con un certo distacco a Tunisi. Il modello di riferimento viene cercato altrove, in Turchia o addirittura nell’esperienza dei cattolici democratici in Europa. L’autopercezione di Ennahda è pertanto quella di un partito forte, culturalmente influente, politicamente avanzato e relativamente autonomo rispetto ad altre esperienze islamiste nel mondo arabo, nonostante lo scarso peso demografico e geopolitico della Tunisia.
Questo non significa però che Ennahda sia immune dalle pressioni geopolitiche regionali o che la sua autonomia sia assicurata. La realtà è infatti più complessa della narrativa elaborata da Gannusi e dal suo entourage. Innanzitutto, la parabola dell’islamismo tunisino è profondamente influenzata da due attori: la longa manus dei paesi del Golfo e in particolare del Qatar; poi, il lungo esilio a Londra di alcuni fra i suoi leader, che ha lasciato in loro un’impronta culturale e politica di stampo anglosassone (ad esempio nella concezione dei rapporti fra religione e Stato) che fa di Ennahda un movimento politico assolutamente atipico per la Tunisia. Di questi due elementi, però, è il primo a essere nettamente più importante dal punto di vista geopolitico. Il Qatar infatti ha ospitato per anni vari dirigenti in esilio del partito (come l’attuale ministro degli Esteri nonché genero di Gannusi, Rafiq ‘Abd al-Salam), ne ha finanziato le attività e ha fornito al momento opportuno pieno sostegno economico e mediatico (mediante Aljazeera). Sebbene i dirigenti di Ennahda si sforzino di ridimensionare questa fonte d’influenza, negli ultimi mesi sono emerse varie accuse riguardanti il sostegno fornito dal Qatar al partito in campagna elettorale.
Questi legami acquisiscono un significato particolare se posti nella prospettiva dell’incontro-scontro con la minoranza salafita e sullo sfondo della concorrenza geopolitica fra Qatar e Arabia Saudita in Medio Oriente e Nordafrica. Non è infatti un mistero che molti predicatori salafiti abbiano ricevuto e ricevano tuttora sostegno finanziario e ideologico dalla galassia wahhabita saudita, suscitando notevole preoccupazione negli ambienti laici tunisini. Sebbene Qatar e Arabia Saudita mantengano rapporti stretti e positivi, soprattutto sul dossier siriano, il rispettivo sostegno a Ennahda e ai salafiti in Tunisia ha già creato qualche tensione.
Nell’ambito arabo della Fratellanza musulmana, Ennahda rappresenta oggi l’esperimento più avanzato e ambizioso. Il partito islamista tunisino gode di simpatie e sostegni diffusi, negli Stati Uniti, in Europa e nei paesi del Golfo. È anche per questo che l’assalto all’ambasciata statunitense di Tunisi, il 14 settembre 2012, ha lasciato uno strascico di recriminazioni e paure fin lì sconosciute, spingendo alcuni parlamentari americani a chiedere la sospensione di ogni forma d’aiuto alla Tunisia islamista. L’intreccio di coperture, simpatie, competizione e ambiguità che lega la nebulosa salafita ai Fratelli musulmani tunisini è infatti motivo di preoccupazione, sebbene negli ultimi mesi Ennahda sia riuscita ad allontanare parte di quei sospetti.
Il destino della Tunisia è oggi più che mai legato al completamento dell’evoluzione di Ennahda in un moderno partito conservatore rispettoso della separazione fra Stato e religione e fermo nella collocazione geopolitica del paese. Proprio le particolari condizioni sociali, economiche e geopolitiche della Tunisia possono permettere a questo paese laboratorio di indovinare una formula di successo che potrebbe essere successivamente adattata al resto della regione, soprattutto nel momento in cui l’Egitto sbanda pericolosamente, suscitando angosce in molti osservatori interni e internazionali. Per fare questo, però, la Tunisia dovrà accelerare l’uscita dalla lunga fase di transizione iniziata nel 2011. E, soprattutto, dovrà adottare in tempi ragionevolmente rapidi quella costituzione che tutti i principali settori della società reclamano ormai da mesi.

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