sabato 25 giugno 2016

E poi se ne vanno. Storia di professoresse, esami, alunni e addii – Mariangela Galatea Vaglio


Ci sono quelle classi che sono così: tue. Che hai sgridato e cazziato per tre anni, come la peggio arpia, perché ti ci eri affezionata manco se fossero dei figli, e quindi tu, tu sola potevi dire loro di tutto, e glielo dicevi, ma se qualcun altro si azzardava a dirne male, uh, mamma, ti incacchiavi come se ti avessero malmenato i cuccioli, diventavi un tigre, un’orsa madre, una furia scatenata.
Ci sono quelle classi che sono tue, perché anche se non sono i più “bravi”, e anzi, per carità, alle volte proprio no, dentro c’erano dei ragazzini così particolari che non potevi fare a meno di adorarli, perché anche quelli più difficili avevano qualità umane che levati, che non si trovano così facilmente: erano teneri, svegli, allegri, pigri, incasinati, volubili, testardi, generosi, tutto assieme e gli hai voluto bene.
Sì, ad alcune classi vuoi bene.  A tutte, in realtà, ma ad alcune in particolare: perché sono tutt’altro che perfette, e anzi spesso sono scalcagnate. Ma è proprio quello che te le fa amare più delle altre. La perfezione non è di questo mondo, e loro invece in questo sono perfettamente calati. Vedi in loro in nuce quello che potranno diventare da adulti, ma in quel momento in cui è ancora tutto una meravigliosa possibilità, in cui i difetti ci sono ma ancora allo stadio in cui non inficiano nulla, e possono trasformarsi in punti di forza, addirittura in risorse. Li cogli nell’attimo in cui stanno per andare incontro alla vita e si slanciano con entusiasmo: quando ancora le delusioni devastanti non li hanno toccati, quando non sono ancora diventati amari o cinici, quando ancora l’ottimismo infantile è troppo forte e radicato per arrendersi alle brutture del mondo o considerarle inevitabili.
Tu li accompagni lì, sulla soglia della adolescenza. E poi ti devi ritirare, perché il tuo compito è finito, e la loro vita di giovani comincerà e si svilupperà lontano da te. Lo sai, ci sei abituata, lo hai fatto tante volte, eppure con loro è più difficile, perché sai che ti mancheranno. Sai che il prossimo anno cercherai i loro visi in classe entrando, e ti verrà da domandarti cosa fanno, e come stanno, e come affrontano il nuovo e il mondo dove sono stati proiettati lontano da te.
Ogni anno è il piccolo strazio che noi docenti affrontiamo, questo, ma alcuni anni è più duro perché ti sembra che ti portino via anche un po’ di te. Ma non puoi farci niente. Il mestiere ti ha insegnato che questo lutto è una parte della professione, ci devi fare la scorza, non commuoverti quando ti salutano per l’ultima volta, non pensare, mentre ti abbracciano e ti promettono di farsi sentire e di venirti a trovare, che alcuni di loro, non per cattiveria ma per fatalità, non li vedrai mai più, dopo averli avuti con te tutti i giorni per anni.
E niente, ricacci indietro i lacrimoni, fingi che sia tutto normale, li costringi ad abbracciarti anche se loro sono un po’ imbarazzati nel farlo perché in tanti anni tu sei sempre stata quella che espansiva non riusciva ad essere mai.
Sorridi perché loro stanno sorridendo al mondo e scalpitano per entrarci, e tu stai diventando già quel puntino che presto ricorderanno a stento, o non ricorderanno più, ed è giusto così perché questo è l’ordine delle cose.
E pensi: ragazzi, vi ho voluto bene, la vita è là fuori, ed è vostra: andate a prendervela, su!

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