venerdì 20 maggio 2016

Ci vuole molta Resistenza per sopportarli - ilsimplicissimus

Ieri vedendo Mattarella salire all’altare della patria per celebrare il 25 aprile mi è venuto di chiedermi cosa c’entri il monumento al milite ignoto della prima guerra mondiale con la Resistenza. Forse la cosa mi è balzata agli occhi con più forza rispetto al passato per la presenza di un presidente in cartone ondulato che firma senza fiatare ogni controriforma costituzionale ed elettorale rispetto all’idea di Repubblica e di società nata dalla battaglia contro il nazifascismo, ma anche se non soprattutto  – e a settant’anni di distanza lo si può cominciare a dire – contro i suoi fiancheggiatori occulti e silenziosi, i suoi alleati inconsapevoli, i suoi ambigui nemici, i suoi reticenti cappellani.
La risposta è che l’altare della patria non c’entra proprio nulla perché l’arida e cinica nomenklatura politica e istituzionale che scende in piazza per mostrarsi nel giorno di festa, tenta semplicemente di sussumere e confondere i valori e gli ideali della Resistenza con quelli più generici delle guerre patrie come se si fosse trattato solo e soltanto di liberare  l’Italia da un’invasione straniera e dalla sua quinta colonna e non di liberare il Paese dai suoi incubi interni, di risvegliarlo dal suo sonno lungo vent’anni e infranto fuori tempo massimo dalla monarchia complice quando si è resa conto che rischiava il trono. Come scenario solenne sarebbe assai meglio il Sacrario delle fosse Ardeatine (quello che il ministero della difesa chiama significativamente “mausoleo” dimostrando di non saper difendere nemmeno la lingua) o qualche altro luogo di strage. Ma è proprio questo che non si vuole: la classe dirigente erede di quella complice del fascismo che fu salvata in blocco per volontà degli Usa, timorosi che l’Italia finisse nel campo avverso, cerca di nascondere il senso e la verità della Resistenza, dissolvendola dentro un calderone di generico patriottismo. Al punto che qualche emerito imbecille di quelli che la politica sforna in serie, ha cercato persino di mettere in mezzo la squallida vicenda dei marò.

La verità è che si vorrebbe celebrare una sorta di Resistenza di fantasia quando invece essa ha assunto caratteri peculiari ed unici nella vicenda europea, almeno per ciò che riguarda i grandi Paesi del continente, collegando strettamente, almeno nella sua maggioranza, la salvezza del Paese alla sua trasformazione. Ciò è stato possibile anche grazie alle vicende tragiche e allo stesso tempo cialtrone in cui il Paese è stato trascinato dalla sua razza padrona. E ora i suoi eredi, impegnati apertamente e senza più remore nella distruzione della Repubblica nata dalla lotta contro il nazifascismo, la vogliono dissolvere dentro una lettura conforme e anodina. Eppure è proprio alla Resistenza italiana che si ispirò Thomas Mann  nella prefazione alla Lettere dei condannati a morte della resistenza Europea, un’idea tutta nostra, nata in casa Einaudi e poi tradotta nelle altre lingue: “Sarebbe vana, dunque, superata e respinta dalla vita, la fede, la speranza, la volontà di sacrificio di una gioventù che non voleva semplicemente “resistere”, ma sentiva di essere l’avanguardia di una migliore società umana? Tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte? No non può essere”. Era il 1954, uno degli anni in cui il maccartismo cominciava a far dubitare del mondo nuovo e negli spiriti più liberi ispirava una nuova idea della democrazia. Oggi ci accorgiamo che potrebbe essere se diamo credito alle anime morte e se a cominciare dal referendum non diremo di no.

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