giovedì 7 aprile 2016

La fine dello sviluppo che molti rifiutano - Piero Bevilacqua


Bisogna riconoscerlo, sin dalle origini il rapporto tra la sinistra e l’ambiente (e poi l’ambientalismo) non è stato facile. E forse in modo particolare nel nostro Paese. Un conflitto per così dire fondativo ha contrapposto il lavoro alla natura, l’umana operosità alle ragioni del mondo vivente, il movimento operaio agli equilibri degli habitat naturali. E per ragioni che hanno a che fare innanzi tutto con la dottrina. A partire da Marx. È vero, egli dichiara, sin dal Primo libro del Capitale:
«Il lavoro è prima di tutto un processo fra uomo e natura, un processo nel quale l’uomo, attraverso la propria attività procura, regola e controlla il suo scambio materiale con la natura».
Scambio materiale o organico, il famoso Stoffwechsel. Un riconoscimento importante del ruolo della natura, nella produzione della ricchezza. Ma tale visione rimane confinata sullo sfondo, perché nel pensiero di Marx ha poi il sopravvento la teoria del valore-lavoro. È la scoperta di Adam Smith (peraltro non del tutto sua) secondo cui il lavoro è la fonte di ogni valore: «l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose», come scrive nella Inquiry sulla ricchezza delle nazioni. A cui Marx aggiungerà il disvelamento rivoluzionario della creazione del plusvalore, l’origine dell’accumulazione della ricchezza in poche mani, fondata sullo sfruttamento operaio, e la riproduzione del capitalismo e della società divisa in classi.
Ma questa scoperta, che orienterà le lotte di tutti i movimenti di ispirazione marxista, e del movimento operaio in generale, dimenticherà le ragioni della natura. La centralità del lavoro e dei suoi interessi prevarranno su quelle del mondo vivente in cui questo pur si svolge. Non voglio ridurre il pensiero di Marx, capace ancora oggi di illuminarci, al marxismo. Questo è ovvio, le dottrine finiscono colo vivere di vita propria. Ma è importante osservare che tale curvatura così esclusivamente antropocentrica del marxismo diventerà ancora più rigida e dottrinaria nella sua trasmigrazione nella Russia preindustriale della Rivoluzione bolscevica. Esso diventerà, inevitabilmente una “teoria dello sviluppo industriale” dal punto di vista operaio. Non per niente Lenin poté definire il comunismo come « l potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese». Che cosa poteva importare del territorio, delle foreste, delle acque dei fiumi, dei grandi laghi della Russia di fronte alla necessità di costruire una nuova società attraverso l’espansione dell’industria? L’uomo nuovo sovietico era un lavoratore-titano che plasmava a sua immagine il mondo intorno a sé. Non ci dovremmo perciò stupire se in Unione Sovietica – come ha ricordato lo storico John MacNeil – nella seconda metà del ‘900 furono utilizzate piccole bombe atomiche per sventrare montagne e aprire miniere. In Cina da decenni vanno costruendo il comunismo provocando catastrofi ambientali.
Neppure miglior fortuna ha avuto il mondo naturale nel pensiero rivoluzionario italiano. Nel nostro teorico più grande, Gramsci, non c’è posto per le sorti della natura. Anche in lui il processo storico è pensato secondo la curvatura dello sviluppo industriale, leva dell’umana emancipazione. In uno dei suoi Quaderni più anticipatori, Americanismo e fordismo, di fronte all’organizzazione tayloristica del lavoro Gramsci ha uno sguardo di sconcertante provvidenzialità teleologica. «La storia dell’industrialismo – scrive – è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo, un progresso ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioé animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo».

D’altra parte l’Italia, Penisola di antichissima antropizzazione non ha una tradizione culturale favorevole allo sviluppo di una narrazione naturistica dell’umana vicenda. Dominata da mille città, che hanno assoggettato per millenni i loro contadi, non poteva certo generare élites sensibili ai problemi degli equilibri degli habitat, se non per fini di sfruttamento economico. Come è accaduto con le bonifiche. L’avvento delle società industriali – la fase storica a partire dalla quale è legittimo e non anacronistico aspettarsi sensibilità ambientale – non produce in Italia le reazioni protoambientalistiche che si verificano ad esempio negli Usa. Qui nell’Ottocento sterminati lembi diwilderness, di natura incontaminata apparvero minacciati dallo sviluppo industriale. In Germania i piccoli villaggi circondati da boschi – modello prevalente degli insediamenti umani in quel paese– furono sconvolti in pochi decenni alla fine dell’Ottocento, generando una vasta opposizione destinata a grande influenza sul pensiero politico ed ecologico tedesco. E non meno cura per il mondo naturale creò, per contrasto, la rivoluzione industriale nelle élites inglesi, a partire da quel secolo. Niente di tutto questo in Italia, che arriva tardi all’industrializzazione Uno sviluppo concentrato peraltro, nel Triangolo Milano-Torino-Genova, in gran parte manifatturiero e perciò di limitato impatto ambientale. Si comprende allora come sia potuto accadere che nel corso del Novecento è sorto accanto al fragile gioiello di Venezia, il Petrolchimico di Porto Marghera; in uno dei siti più incantevoli del Belpaese, a Bagnoli, l’Italsider, e poi l’Ilva nei due mari di Taranto, i vari stabilimenti petrolchimici a Brindisi, Gela, Priolo, ecc. cioé in località marittime con habitat delicati e ad alta vocazione turistica. E non stupisce, peraltro, che in un paese afflitto da disoccupazione endemica, le posizioni ambientaliste siano state minoritarie nel Pci e nel sindacato.
Solo dopo Cernobyl, non solo il ceto politico, ma anche gli italiani scoprono la fragilità della natura in quanto minacciata dall’inquinamento. E solo negli ultimi decenni, l’ambientalismo è diventato di massa – con le lotte contro gli inceneritori, le discariche, le centrali a carbone, ecc. – allorché le popolazioni hanno scoperto, tramite i danni prodotti dall’inquinamento alla salute, quella natura insuperabile che è in ognuno di noi. La natura è stata scoperta nel corpo vulnerabile degli uomini. È stata la malattia a mandare gambe all’aria il vecchio storicismo antropocentirico. Grandi masse di cittadini hanno scoperto che la storia ha cambiato il suo corso e la crescita economica non genera di per sé benessere e progresso. Il nuovo ambientalismo italiano oggi parla un linguaggio che non è più “sviluppista”, scopre il valore storico dei territori, della natura antropizzata e trasformata in paesaggio e bellezza, e il ceto politico.

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