giovedì 14 gennaio 2016

Scogliera - Olivier Adam

un trentunenne fa i conti con il suo passato e i suoi fantasmi, gli sono accadute cose terribili, e in Bretagna, davanti a una scogliera, riappaiono.
una madre che sparisce presto, ma sempre presente, un fratello che scompare e riappare e scompare ancora, amici e amiche di un'adolescenza che non è stata uno scherzo che spariscono, in modi più o meno traumatici,  un padre da evitare, e da cui fuggire al più presto, qualche lavoro per mantenersi, una vita di stenti, un'amica con cui non c'era bisogno di tante parole e poi appare Claire e hanno una figlia, Chloé, e un futuro che li aspetta.
una scrittura "cinematografica", con una serie di scene che si susseguono.
vale davvero la pena, non si smette di soffrire mai, ognuno potrà trovare qualche fantasma che ha incontrato.

ps: Olivier Adam è stato sceneggiatore di Philippe Lioret, per due film grandissimi, Welcome e Je vais bien ne t'en fais pas, quest'ultimo tratto da un suo libro, e purtroppo mai apparso un sala.





Inizia così:
Qui la notte è profonda e buia come il mondo. Oltre i vetri, separata dall’esterno e dalle scogliere, al riparo dal rumore del mare e dalla compagnia degli uccelli, Claire dorme e chissà dove andiamo. Chloé è tra le sue braccia, quieta e leggera contro il suo petto. Accendo qualche candela nella notte. Infilo la mano nel sacchetto trasparente, ne estraggo alcuni tondini di alluminio pieni di cera bianca. Accendo un fiammifero. Mia madre è morta da vent’anni. Esattamente vent’anni fa. Le scogliere si stagliano sul tessuto del cielo. In loro contemplo fantasmi, corpi che precipitano nella luce…

…Quasi sublime la descrizione del tentativo di fermare il tempo con il ricordo: «Ne ero convinto anch'io: mio fratello faceva finta di dormire. Non per rompere le scatole alla gente, come pensava mio padre. Ma per essere lasciato in pace. Solo con il suo dolore. Per tenere gli occhi chiusi e conservare sulla retina delle immagini intatte di mia madre. Non dimenticare nulla. Custodire tutto quanto dentro di sé senza che nulla sfugga».
Dolori precoci per due ragazzini alle prese con la depressione di una madre stanca che sceglie di volare fra le onde che s'infrangono su un'alta scogliera; scogliera che sarà poi il rifugio del protagonista. Divenuto un adulto in balìa anch'egli, se non dei marosi, delle tragedie quotidiane di una vita segnata invariabilmente. Con Adam sono qui dolorosi anche i giochi di bimbo, i primi amori consumati anzitempo e segnati dalla anoressia della giovane amante. Denso di nubi e caliginoso l'amore maturo, sfociato in un suicidio; tragica l'amicizia per il compagno di scorribande.
Esistenze periferiche tutte vergate d'angoscia e illuminte dalle fredde luci bluastre dei neon della Parigi estrema. Esistenze che però sfociano in tenerezze pienissime nelle complicità silenziose dei due fratelli, nel caldo e protettivo amore di un uomo che con la paternità scopre e rende un senso al proprio vivere. Intensissimo è poi l'amore per la compagna della vita, per colei che sa capire anche le fughe di un uomo alla ricerca di un senso smarrito da sempre…

...Il libro è pieno di autocompiacimento. L'autocompiacimento arriva a livelli tali che spingono al disgusto, come quando mangi qualcosa eccessivamente condito, imburrato, zuccherato. Di esageratamente costruito.
Ammettiamo che quella sia proprio l'esatta sequenza degli accadimenti autobiografici di olivier: sarebbe difficile da credere perché suonano così costruiti, così lamentosi. Olivier sembra uno che abbia deciso di far commuovere una decina di belle quindicenni e una decina di altrettanto belle quarantacinquenni, guardandole con i suoi occhioni e raccontando un mucchio di banalità.
perché storie così e scritte meglio, se ne trovano a decine fra gli autori del 20 esimo e ventunesimo secolo. Olivier pare fare il verso a loro e a se stesso. pare fare più affidamento al sentimento protettivo e materno (istinto) delle signore e signorine che alle sue doti (?) di scrittore.
autocelebrativo, banale, costruito ( con arte da impiegato di concetto). Insomma quando sono arrivato alla fine mi sono detto: olivier è nato nei quartieri alti, da famiglia agiata, sua madre è viva e vegeta, suo padre lo porta ancora a vedere le partite allo stadio, suo fratello non esiste perchè lui è figlio unico. Non mi sembra un gran risultato per quello che voleva dire il libro.
Carver, lui, è proprio un'altra cosa. Lui anche se scrive in prima persona non pensi che parli di se stesso, ma di tutti quelli che hanno avuto accadimenti simili ai suoi. Non vi è compiacimento , non senti il finto lamento di chi magari ha sofferto ma in fondo ce l'ha fatta ( cose che invece induce la laettura di olivier) e ora può mettere a mestiere le sofferenze che per altri sono ancora pastoie e tagliole e depressione e annullamento.

…Le pagine che Adam dedica alla madre e alla figlia neonata sono struggenti come solo le emozioni vere sanno essere, soprattutto quando sono mediate da una scrittura tersa, elegante, minimalista come la sua. Che ci affonda in un crepuscolo vibrante, ancestrale, dove "(...) tutto si riduce al mare, al battito delle onde, al cielo oscuro".

…Inizio con i punti a sfavore.
1. La disperazione, la morte, la sofferenza sono troppo presenti. Bagnano ogni foglio, rendendolo pesante perfino da girare. In centocinquanta pagine si suicidano tre persone care al protagonista. La madre –il suo suicidio darà inizio alle inevitabili conseguenze disastrose della sua vita-, uno dei migliori amici di suo fratello Antoine, Nicolas, e infine Lèa, una delle donne di cui si innamora. Tutti gli altri protagonisti annegano nell'alcool, vengono consumati da tumori nel silenzio e nella solitudine, rischiano di morire di anoressia. Solo per citarne alcuni. Ora, io non sono affatto per il lieto fine e l’allegria forzata, amo Carver e le sue short stories depressive, ma qui la concentrazione di fantasmi –ciò che realmente sono nel romanzo- è forse eccessiva  e appare un filino forzata. È una lunga lista di lapidi. Molto lunga per un ragazzo di trentuno anni. Anche la realtà –se di realtà si tratta- risulta troppo pesante se concentrata in centocinquanta pagine.
2. Alcuni personaggi secondari sono costruiti secondo cliché fin troppo evidenti, come Nicholas o Lorette.
3. La morte di Lèa è un trucchetto che Carver definirebbe da quattro soldi. Nomina la sua morte sin dai primi capitoli e poi ce la ripropone spesso, senza accennare ad altro se non al nome. È solo negli ultimi capitoli che ci dice chi è e cosa è successo. Cerca quindi di creare questo tipo di tensione per incollare il lettore alle pagine spingendolo a chiedersi: chi è Lèa? Come sarà morta? Ma poi si gioca tutto in poche pagine. Non ce ne spiega fino in fondo l’importanza, se ce ne è una. Il trucco del mago è svelato, si vede lo specchio e la magia…beh, non è più magia. Peccato.
4. Usa in quasi tutti i capitoli degli elenchi infiniti. In particolare, il capitolo su Lorette è quasi un album fotografico: uno scatto dietro l’altro. La cosa a me piace, beninteso, ma andrebbe centellinata, mentre lui se ne approfitta, spezzando la prosa fin troppe volte, rendendola una di quelle danze “robotiche” che andavano tanto negli anni ottanta. Stona con la sua particolare voce malinconica, che avrebbe bisogno di più descrizioni, di una prosa più rilassata e meno di...elenchi.

Dall'altra parte dello specchio giocano le stelline e i pollici alzati.
1. A tratti usa delle belle immagini. E le descrizioni del mare, delle scogliere, della moglie e della figlia che giacciono addormentate l’una accanto all’altra, sono dolci, calde, sincere. Ci sono frasi che mi hanno colpito, come ad esempio “il sole che gli morde la guancia” mentre dorme in auto o la figura della nonna che “affiora e si stende su tutto come un balsamo”. Solo per scriverne alcune.
2. I sentimenti per Claire –moglie- e per Chloè –figlia- sono belli, puri, onesti, senza troppi sentimentalismi. Le rende reali e vivide, sebbene stiano dietro il palco per tutto il tempo.
3. La sua voce mi piace. Mi piace molto. È come se la sentissi profonda e stanca, ma capace di raccontarti ancora mille storie prima di dormire. È una voce che è un abbraccio. Ed è una voce che vorresti abbracciare.
4. La trama in sé, l’idea di ripercorrere l’ infanzia e l’adolescenza attraverso i suoi fantasmi, che talvolta vede davvero come quello della madre, è molto buona. Un romanzo-ricordo, che si spalma sul presente e influenza il futuro. Una domanda che nasce dal profondo –come ho fatto a sopravvivere?, come ho fatto a rimarne sempre in equilibrio e non cadere tanto da uccidermi?
L’ultimo capitolo è molto appassionato e, anche grazie all'anafora, fa chiudere le pagine con un certo dispiacere.

Mi resta in bocca un sensazione strana, indefinita. Come qualcosa di gustoso che è stato mal cucinato.
Posso sempre attendere di leggere gli altri suoi romanzi. E vediamo stavolta come va…

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