sabato 2 gennaio 2016

Ritorno dalla Siria - Yousef Wakkas

Sono appena arrivato dalla Siria e mi piacerebbe soffermarmi un po’ su quello che sta succedendo nel mio paese  parlare di una guerra così efferata non è per nulla facile, dato le complicazioni geopolitiche e soprattutto i danni psicologici che noi individui abbiamo subito, assistendo direttamente o indirettamente a scene terribili di morte e distruzione.
Qui in seguito, vorrei fare un riassunto di quello che io ho chiamato, ma anche tanti altri come me, il viaggio della salvezza, rimandando, almeno ad un momento successivo, gli altri aspetti, tra cui la speranza di trovare un lavoro ed una sistemazione adeguata. In fin dei conti, si tratta sempre di un salto verso l’ignoto.
Dunque, ho intrapreso il mio viaggio alle tre di mezzanotte a bordo di un autobus colmo per lo più di anziani e bambini, e sono arrivato a destinazione, cioè al punto più vicino della frontiera con la Turchia, alle otto di sera, impiegando diciassette ore per attraversare un tratto di strada che prima della crisi, ci si faceva in meno di quarantacinque minuti.
Questo è dovuto al controllo ferreo imposto sia da parte del regime sia da parte dell’opposizione armata, e anche a causa degli scontri che scoppiano all’improvviso, facendoci vivere momenti carichi di tensione.
Ad ogni posto di blocco, che per la precisione erano cinquantatré, ci si provavano paure ed ansie che toccavano il punto del collasso, giacché, a parte il rischio di essere ricercato per un motivo o l’altro, c’era anche quello di essere omonimo di un’altra persona che si trovava sulla lista nera del regime o dei suoi oppositori.
Migliaia di persone sono spariti nel nulla, colpevoli soltanto di avere il nome e il cognome identici ad un’altra persona.
E il fatto che nessuno delle parti in lotta, era disposto di effettuare verifiche dettagliate, come la data di nascita oppure il nome del padre o della madre, potete immaginare le scene di disperazione delle famiglie mentre trascinavano via uno dei loro cari, che poteva essere il padre, il fratello, il figlio o il marito, sapendo che non l’avrebbero mai più visto, ne testimoniano le quarantacinquemila fotografie degli undici mila detenuti torturati fino alla morte nelle carceri del regime che Cesar, il nome in codice del fotografo dei servizi segreti militari, ha fatto arrivare in occidente.
Poi, c’è da aggiungere che incontrarsi anche per una sola volta con i miliziani dell’ISIS, ti lascia il segno per tutta la vita. Un trauma di cui sarà difficile guarire.
E Come Carmelo Bene che sognava di assistere al proprio funerale, ti viene spontaneo immaginare la tua testa mentre rotola tra i loro piedi!!!
Il sorriso beffardo che s’intravede dall’apertura della bocca del passamontagna, e le frasi brontolati in varie lingue, indicano provenienze diverse, ma anche un atto mancato, forse di un’integrazione rimasta a metà, o un odio ingerito fino all’ubriachezza chissà in quale periferia delle grandi metropoli del mondo.
È un approccio speculare, senza il minimo tentativo di provare l’opposto, e alla fine di un interrogatorio preso a prestito letteralmente dai tribunali degli inquisizioni, non potrai mai capire se il reato di infedeltà che ti hanno appena contestato, indica un’infrazione degli insegnamenti divini oppure delle regole terrestre!
Nel frattempo, mentre percorrevamo i paesaggi desolati, tra villaggi completamente distrutti e carcasse di mezzi militari, si poteva scorgere palesamene le scie di sangue che tracciavano con una simmetria impeccabile il percorso dei futuri oleodotti e gasdotti che dovrebbero partire dalla Penisola Araba e i paesi del golfo, fino alla sponda orientale del mediterraneo, ovvero la Siria.
Dunque, il gioco vale cinquecento mila morti, sei milioni di sfollati e cinque milioni di profughi dispersi fra i vari paesi del mondo?
Questa ed altre domande ti frullano in testa, ma la realtà non ti lascia andare oltre, eccoci di nuovo davanti ad un altro posto di blocco e di colpo regna un silenzio allarmante: sono I servizi segreti dell’aviazione, I più temibili di tutti. E lì che mi hanno levato la chiavetta dentro la quale conservavo tutti i miei scritti. Stai per lasciare la zona controllata dal regime e quindi non devi portare via qualsiasi cosa che potrebbe compromettere la sicurezza del paese!
Il giorno prima di lasciare Aleppo, sono sceso come al solito prima dell’alba per procurare il pane. Il rito che si ripete da quattro anni, è trasformato in un routine noioso.
Mi veniva in mente, quando salutavo i miei familiari ed uscivo di casa tra preghiere ed invocazioni mistiche perché ritornassi sano e salvo con i panini rotondi stretti al petto, altrimenti avrei perso la nomina di eroe del giorno, a meno che non fossi diventato il martire di turno, giacché le frazioni in lotta, erano solite   prendere di mira i pochi forni rimasti in funzione.
E lì, durante la lunga attesa per ottenere il pane quotidiano che puzzava di gasolio semiraffinato, gli occhi potevano essere colpiti da qualcosa di orribile: l’orrore di un mortaio sparato da una postazione vicina, o di un’autobomba guidata da un kamikaze spedito chissà di quale forza oscura!
All’inizio, quando scoppiò la cosiddetta Primavera Araba, colmi di speranze e prospettive promettenti, siamo scesi nelle strade inneggiando ad un sogno atteso per lunghi anni. Ma con la caduta dei primi ragazzi, sparati o malmenati fino alla morte da parte degli aguzzini del regime, abbiamo capito che ci attendevano giorni ancora più duri.
E così ebbero inizio massacri ed arresti di massa, specie tra gli studenti, con una maratona impressionante di condanne, accordi e riforme mai rispettati, ed inviati speciali che sembravano avere un unico compito, quello di prolungare la nostra agonia.
Poi, dinanzi all’impotenza della comunità internazionale, la guerra prese una piega molto pericolosa, perché oltre alle centinaia di migliaia di vittime civili e milioni di profughi, ha prodotto un fenomeno che il mondo finora non sa come affrontare, vale a dire il terrorismo.
Quando l’ISIS ha occupato il mio paese che si trova a ridosso del confine con la Turchia, la gente si è meravigliata nel vedere combattenti ben addestrati, con uniforme ed equipaggi degni di un esercito moderno.
Tutto questo è successo dal presupposto, come affermano i sociologi, che noi non ci sentiamo così vivi come nel momento in cui prendiamo parte ad una catastrofe senza subirne nel concreto conseguenze! Ma il fuoco, se non viene fermato in tempo, potrebbe estendersi fino a luoghi e posti impensabili.
Prima di lasciare il mio paese, ho riflettuto a lungo sul viaggio che intendevo fare. Ero rimasto solo, dormivo in una casa vuota, tranne poche cose per sopravvivere ed alcuni libri, tra cui i romanzi di Luigi Pirandello che stavo traducendo in arabo.
Mi sono soffermato spesso sul senso che può esserci nell’avere una passione e che forse tutto quello che si stava passando aveva un significato molto più profondo di quanto lo sia in realtà.
Difatti, un giorno, mentre raccontavo una storia appassionante ai miei nipoti, fummo travolti dalle schegge dei vetri e dei detriti caduti dal soffitto. Il missile era caduto a poco più di cento metri dall’abitazione dove eravamo radunati dopo avere lasciato la nostra casa in seguito ad un bombardamento simile.
E questo che senso ha? A che cosa servono le parole? Non forse per questo abbiamo perso tutto? I miei nipoti erano indignati, ma negli loro occhi vedevo la forza improvvisa di un lottatore, di una nuova emozione, schizzi di una passione che scuoteva l’intera loro esistenza, esattamente come mi era capitato quando avevo preso la penna in mano per scoprire la bellezza e la magia della parola, scegliendo la lingua italiana per comunicare col prossimo che, all’insieme, costituisce l’intera umanità.

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