venerdì 11 dicembre 2015

Né rifugiati, né migranti - Raúl Zibechi

Nel seminario “Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista”, realizzato lo scorso maggio dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), il subcomandante insurgente Galeano ha spiegato che nei prossimi decenni fino al 40 per cento della popolazione mondiale sarà formato da lavoratori migranti, vale a dire circa tre miliardi di persone, “senza lavoro, senza terra, senza patria, [che andranno] vagando da un posto all’altro”. Intere zone verranno distrutte e spopolate per poter essere ristrutturate e ricostruite dal capitale.
Non tutti né tutte attraverseranno le frontiere. Una gran parte sono migranti interni. “Indigeni e contadini si stanno trasformando in migranti senza lasciare la loro terra d’origine”, ha detto Galeano nel seminario citato. Tutto indica che né i muri né i controlli, e neppure la minaccia di morte, saranno sufficienti a fermare tanti milioni [di persone].
Si calcola che quest’anno siano arrivati in Europa circa 350 mila rifugiati. Alcune previsioni, però, stimano che nella prossima ondata saranno 3-4 milioni, vale a dire dieci volte tanto. È la conseguenza delle guerre in corso, guerre militari e guerre economico-finanziarie. A questi si aggiungono i rifugiati ambientali.
Si può immaginare l’impatto che una tale ondata avrà sull’Europa. Soprattutto, però, dobbiamo pensare all’impatto che queste guerre, “guerre di quarta generazione” secondo gli zapatisti, stanno avendo in quelle regioni dove l’obiettivo per appropriarsi dei beni comuni sono i popoli.
Migranti o rifugiati? È una discussione importante. Il vantaggio del termine rifugiati è che politicizza, mentre quello di migrante è più neutro. In entrambi i casi, tuttavia, la nota dominante è che coloro che si spostano da un luogo all’altro, non ci appaiono come soggetti delle proprie vite bensì come vittime di una situazione creata e gestita da altri. È l’immagine che i politici e i grandi media vogliono dare: esseri indifesi, passivi, che si spostano contro la propria volontà, che meritano compassione. Per questo, l’immagine del bambino siriano morto sulla spiaggia, ha avuto tanta risonanza mediatica.
La realtà dice il contrario. Ci sono tre aspetti che mi sembra necessario sottolineare.
Il primo è che i rifugiati/migranti prendono decisioni, sono soggetti delle proprie vite. Molte volte sono soggetti collettivi, perché la famiglia o la comunità scelgono colui o coloro che devono spostarsi e qual è la loro destinazione finale. Contrariamente all’immagine che si tenta di dare, si tratta di decisioni preparate a lungo, prese in ampie consultazioni di famiglie numerose. Insomma, sono decisioni comunitarie; [quelli che partono] non sono oggetti maneggiati da fili che non controllano.
La seconda questione è che quelle sono decisioni razionali, né disperate né individuali, per dura che sia la situazione che si lasciano alle spalle. Chi si mette in viaggio fa una valutazione delle convenienze, dei vantaggi e degli svantaggi della decisione che vanno a prendere. Rimangono sempre i familiari, i vicini, gli amici, le comunità, con cui continueranno a mantenere rapporti e, nella maggioranza dei casi, invieranno risorse, un modo di dimostrare che l’impegno preso quando hanno deciso di andarsene, rimane valido a tutti gli effetti.
Il terzo aspetto è che, lungi dall’essere un problema per i paesi, le città o le regioni dove arrivano, quelli che giungono e quelli che già erano lì, incarnano la possibilità di iniziare una nuova vita, di scrivere una storia inedita. Lo spostamento di persone verso altre terre è di solito doppiamente arricchente: per coloro che migrano e per le società che li accolgono. Lo testimonia la storia recente dell’America Latina.
I milioni di persone quechua e aymara che sono arrivati a Lima, El Alto e La Paz, ad esempio, hanno ricominciato la loro ancestrale lotta per la terra in un altro luogo. Hanno costruito nuove città, hanno superato le città coloniali e oligarghiche per creare mondi nuovi, quartieri popolari come Villa El Salvador nella zona sud di Lima, la meraviglia di El Alto, con la sua storia di insurrezioni e un’esemplare lotta per la dignità. Hanno adattato la cultura andina alla città, arricchendo entrambe, creando musiche, balli e carnevali altri.
Le “villas” di Buenos Aires, dove convivono argentini del nord, paraguaiani, boliviani e peruviani, sono un crogiolo di culture, un magma di creazioni collettive così forti che non hanno potuto essere sfrattate né dalla dittatura militare negli anni ’70 né, negli ultimi anni, dal governo neoliberale della città.
Non voglio minimizzare il dolore di coloro che prendono la decisione di abbandonare la terra dove sono nati. Sappiamo per esperienza diretta che sono momenti difficili ma sappiamo anche che sono dolori di parto. Guardiamo ai rifugiati/migranti che in Catalogna appoggiano le liste elettorali di Unidad Popular, a quelli che hanno messo in piedi iniziative come il Movimiento por Justicia del Barrio a New York, e tanti altri casi.
Siccome le persone di cui abbiamo parlato sono soggetti, dobbiamo trovare altri modi per nominarli. Sappiamo che viaggiano per migliaia di chilometri cercando mondi nuovi; sappiamo che creano mondi nuovi lungo la scia del loro tragitto e nei luoghi dove si stabiliscono, assieme ad altri e ad altre come loro. E sappiamo che rafforzano e ringiovaniscono le culture de abajo, una condizione essenziale nei processi di emancipazione.

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