martedì 27 ottobre 2015

La Nato va sciolta - Marinella Correggia

Un modello di riferimento inarrivabile, per un’azione diretta durante un conferenza stampa? Munthazar al Zaidi, il giornalista iracheno che a Baghdad lanciò le sue scarpe a George W. Bush urlando «in nome delle vedove, degli orfani e del milione di uccisi in Iraq». Finì in carcere, e torturato, per quasi un anno: vilipendio di capo di Stato estero.
Bisogna dire che l’organizzazione della Nato è criminale e va dissolta. Ma qui, all’aeroporto militare di Trapani, sotto il tendone della conferenza stampa che presenta le esercitazioni Trident Juncture dell’Alleanza atlantica, quali conseguenze avrebbe avuto il lancio di una scarpa – senza mirare bene, per carità – contro l’ignaro vicesegretario generale della Nato Alexander Vershbow? Chissà. Ad alzare un cartello contro la Nato criminale, non succede nulla. Te lo tolgono e basta. Sarebbe stata efficace e forse ugualmente non sanzionata una pioggia di monetine da 5 cent. O come sarebbe stato accolto uno schizzo con la stella a 4 punte (il simbolo dell’Alleanza) trasformata facilmente in svastica? Troppo tardi per pensarci. Non ci sarà un altro accredito stampa, ormai! Non alla Nato, almeno.
Andiamo per ordine. Vershbow ripete quel che ha detto poco prima, alla cerimonia di apertura. La solfa è «le esercitazioni della Nato sono vitali per la sicurezza, la democrazia nel mondo, l’autodifesa»; infatti, «ogni giorno ci sono nuove sfide; così dimostriamo che possiamo difendere ogni alleato». Grandi minacce contro i valorosi Paesi membri si addensano infatti cupe e infingarde. Vengono da Est, «la Russia si è annessa la Crimea», da Sud, «la Russia è entrata in guerra in Siria» (non importa che Mosca sia l’unica a combattere con successo contro il califfato e a farlo autorizzata dal governo locale come richiede l’Onu – lo ha detto forse meglio di tutti “Famiglia Cristiana” giorni fa). E l’Alleanza è estremamente impegnata contro il terrorismo, visto che «gli Stati falliti come la Libia e la Siria fanno sì che i gruppi estremisti avanzino».
Dopo alcune domande falso-provocatorie da parte di testate italiane ed estere («Perché non dite che la Trident guarda alla minaccia da parte della Russia?») e le risposte («ma no, non è così») ha inizio l’azione diretta. Intanto il microfono ottenuto per fare la domandina diventa occasione per un sermoncino – scritto sul notes – rivolto al vicesegretario; quindi in inglese, inutile parlare ai responsabili italiani. Ecco qua (e chissà se ne è rimasta traccia): «Lei ha detto che la Nato combatte il terrorismo, ha anche nominato la Libia e la Siria come Stati falliti. Ha parlato di autodifesa collettiva dei membri. Ma in realtà fu proprio, nel 2011, la guerra della Nato in Libia, travalicando il mandato dell’Onu, a trasformarla in Stato fallito, a mettere al potere jihadisti e a contribuire al diffondere di gang terroriste. E sono i Paesi membri della Nato a fare in modo diretto e indiretto guerre che rovinano nazioni e distruggono; altro che autodifesa. Di recente poi, il bombardamento per mezz’ora e più dell’ospedale a Kunduz, in Afghanistan. Allora, nonostante questi tragici record, questa storia tragica, come mai la Nato non viene mai incriminata? Al massimo paga una piccola mancia ai familiari delle vittime… ». Il parlato è meno chiaro di così, vista la concitazione, ma è lungo così. Loro lasciano parlare. Devono mostrarsi buoni, non far scoppiare il caso. L’Italia è democratica, la Nato di più.
Prima che Vershbow risponda, ecco il cartello alzato, per lui lì davanti e per le telecamere lì dietro. Su carta quasi velina per nasconderla meglio in borsa, la scritta è con pastelli a cera ma oleosi, mal calcolati (sbavano, l’acquerello rende meglio). Su un lato, in inglese, «Nato must dissolve»; sull’altro «Nato never pays for crimes» (monco, in effetti, ma chiaro). Ovviamente le mani di un soldato di vedetta si allungano subito e strappano via l’inelegante intrusa cioè la carta mentre l’attivista sotto mentite spoglie viene lasciata lì seduta, la Nato è democratica e protegge i civili, anche quelli ottusi.
Vershbow risponde compito, come a una vera domanda: «La Nato in Libia ha protetto i civili, abbiamo agito per evitare una strage» (ormai si sa che è tutto falso, ma chi protesta?). Per giustificare il casino successivo: «Quel che è successo dopo, è frutto forse di giudizi approssimativi….» (mis-judgements). Quanto all’Afghanistan, «ci scusiamo tantissimo per il tragico errore» (quasi un’ora di errori?); naturalmente «è in corso un’approfondita inchiesta, e siamo sicuri che non si ripeterà più».
Mentre si avvia all’uscita, l’impassibile vice-segretario generale viene omaggiato, con un altro “blitz”, della poesia Il mondo dopo la Nato, «scritta da un profugo iracheno», le copie disponibili per i giornalisti vengono invece sequestrate, «la leggo io la poesia».
Impatto mediatico? Contenti i russi. Qualche foto è stata fatta. Alcuni giornalisti locali nella fretta non hanno visto ma vengono a informarsi. Il reporter di un’agenzia internazionale che in passato ha coperto manifestazioni pacifiste a Roma senza però riuscire a farsi trasmettere, osserva: «In altri tempi questo dissenso sarebbe costato. Adesso rimbalza. Anzi, aiuta a parlare dell’evento Nato!». Eppure, se gesti così si ripetessero ogni volta, come zanzare disturberebbero. Del resto, non è nel farsi arrestare il senso di un’azione diretta con la quale si irrompe «a casa del diavolo», proprio sotto il naso dei guerrafondai e della supponente stampa mainstream. Il senso è far vedere che sappiamo. Nel racconto di Andersen Gli abiti nuovi dell’imperatore, il bambino è l’unico a dire all’imperatore che è nudo, a dirglielo in faccia.
Fine della storia della piccola azione diretta nonviolenta.
    Ma forse a qualcuno interessa anche uno sguardo dal di dentro sulla mattinata alla base militare fra cerimonie ed esibizioni statiche e in volo. Visto che non erano presenti giornalisti anti-Nato. O almeno non si sono espressi.
   Ecco qua, per la serie «ho visto cose…». In fondo troverete la poesia.
Antefatto. Tutti hanno sempre detto che un ente dannoso va sciolto.
«Nato, rest in peace», «Nato, riposa in pace». L’augurio più geniale rispetto al destino della macchina da guerra atlantica risale al 1967: un libro di Paul Martin per la «Campagna dei giovani per il disarmo nucleare». E se in Italia tutto sommato possiamo puntare a un «Visto che è Nato, morirà», non era male neanche «The Coming Dissolution of Nato» («Il prossimo scioglimento della Nato») titolo di uno scritto dell’attivista statunitense Albert Weisbord pubblicato da «La parola del popolo» nel 1977. Weissbord sbagliò in pieno. Tempo prima, era stato invece preveggente l’economista gandhiano J. C. Kumarappa. Pochi anni dopo la nascita dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato) nel 1949 – dunque precedente il Patto di Varsavia – egli così scrisse: «Con il pretesto dell’autodifesa, viene istituita la Nato: per dividere il mondo in due blocchi. Grazie alla Nato, uno Stato aggressore riesce a far dichiarare ‘aggressore’ la vittima e a usare contro questa le armi unificate del grosso energumeno e dei suoi alleati» (pubblicato in «Economia della condivisione», Centro Gandhi).
In effetti si proclama organizzazione per l’autodifesa collettiva ma fa tutt’altro: negli ultimi anni ha disfatto la Libia, distrutto la Jugoslavia, fatto danni in Afghanistan. Divora risorse e distrugge. Non è semplicemente un ente inutile. E’ un ente disutile. E gli enti disutili vanno cancellati.
La Nato festeggia in questi giorni i quattro anni dall’uccisione del leader libico Gheddafi, coronamento di sette mesi di bombardamenti in appoggio ai «partigiani rivoluzionari». La Libia ridotta a failed state esporta terrorismo. Ma la Nato non paga mai per i danni. Nessuno va in prigione se per conto della stella a 4 punte uccide e rade al suolo. E al massimo le vittime ottengono qualche migliaio di dollari di mancia. Immunità, impunità.
Ecco perché il cartello preparato per l’azione diretta non violenta davanti alle facce dei kapò della Nato e dei remissivissimi media aveva due messaggi: da una parte «La Nato va sciolta» (o dissolta), dall’altro «La Nato non paga mai per i crimini».
19 ottobre, accredito alla mega-celebrazione di Trident Juncture. Giornalismo di pace: purché si possa citare qualche testata (anche nient’affatto mainstream) ci si può far accreditare come free-lance alle conferenze stampa della Nato, che essendo buona non può censurare volgarmente. Durante la guerra contro la Libia nel 2011 gli incontri mediatici si tenevano a Napoli e a Bruxelles. Un’occasione per porre domande scomode, ottenendo risposte che erano praticamente autodenunce. Occasione sprecata. Peccato che i mediattivisti non pensino o non sappiano di questa possibilità. Una sola domanda cattiva non basta. Farebbe la differenza una sfilza di “astuti” da parte di cinque-dieci giornalisti, ogni volta, in successione. Si chiama giornalismo di pace.
Ovviamente se oltre alle domande scomode si alzano anche cartelli di protesta e si distribuiscono poesie post-Nato, non si otterranno ulteriori accrediti dallo stesso ente. Dunque, occorrerebbe essere, a turno, in molti.
Arriva via email dall’Allied Joint Force Command con base a Brunssum (Paesi bassi), la risposta positiva alla domanda di accredito per la «giornalista indipendente». L’evento sarà il 19 ottobre 2015, aeroporto militare di Trapani, cerimonia di apertura delle manovre congiunte che uno dei militari quel giorno definirà «tremendous display di forze». Da Roma, pare, la Nato ha messo a disposizione un aereo per i giornalisti. In tanti devono averne approfittato, atterrando direttamente vicino al tendone della cerimonia. Infatti la mattina del 19 (tutto sommato il viaggio in corriera Roma-Marsala non è stato male!) ad aspettare fuori dai cancelli dell’aeroporto ci sono solo giornalisti locali, due documentaristi russi e un cane di strada che dev’essere fresco di abbandono, ancora bello e bianco, bisognoso di carezze; volentieri accetta l’unico cibo a disposizione, mandorle. Il soldato di piantone non risponde alla domanda: «Ve ne prendete cura voi spero?».
Il cartello è in borsa, piegato, dissimulato in un ingenuo faldone di materiali su sicurezza alimentare e caos climatico (ma con la guerra, tutto c’entra). «Lasciate le borse aperte lì in quella tenda», è l’istruzione ai giornalisti. Ahi! Basta uno sguardo veloce lì dentro e l’azione diretta andrà a monte. Invece no. La Nato – anzi meglio l’esercito italiano – o non si aspetta o non teme il dissenso. Si cautela invece contro gli attentati: metal detector e cani anti-esplosivo non sono pagati per evitare le proteste verbali e scritte.
La cerimonia, la mostra e il volo dei salvatori di civili indifesi
La cerimonia di inaugurazione precede la conferenza stampa. Enorme tendone attrezzato, tappeto blu Nato a terra. Presenti militari assortiti di ogni ordine e grado, politici, uffici stampa; e stampa. Entrano le bandiere dei trenta Paesi che si eserciteranno. Purtroppo anche i partner non membri, quelli che non partecipano alle guerre della Nato: Svezia, Austria, Finlandia… Sugli spalti dei media, un cronista di Radio Cuore è in brodo di giuggiole; è nel suo elemento: accompagna passo passo le fasi, con voce baritonale e intenta. Una signora tacco 16 si fa un autoscatto. E scattano tutti in piedi i media alle prime note del guerrafondaio inno di Mameli. Scrutandoli dal basso, dal sedile, paiono soldatini. La tentazione di estrarre adesso il cartello è forte, ma sarebbe impossibile fare il discorsetto di spiegazione e il placcaggio da parte di qualche addetto stellettato sarebbe così rapido da non far percepire niente, se non che «una pazza si è lanciata contro le bandiere». In questi contesti la conferenza stampa è l’unica che offre un po’ di tempo. Accadde anche a Roma nel 2013 per l’azione contro Kerry & Terzi & gli altri di fatto sostenitori di gruppi jihadisti.
I discorsi sono a base di «La Nato lavora per la soluzione pacifica dei conflitti, ma certo quando questa non funziona, abbiamo la capacità di intervenire militarmente, nel quadro dell’Onu», «le più importanti esercitazioni degli ultimi anni sono un segnale importante che i Paesi danno». Vershbow dice quel che ripeterà poi ai media. Un comandante spiega che appunto si tratta di «combattere terrorismo e sovversione» e le «sfide di regimi autocratici». Insomma «la Nato si adatta alle nuove minacce». Trident è un «tremendous spiegamento di forze per rispondere a minacce da Nord, Est e Sud».
Poco dopo, la conferenza stampa; e in seguito tutti nuovamente sui 4 pullman dei media, per un’altra tappa. Sulla pista aerea di cemento adiacente al prato stanno fermi e disciplinati diversi aerei ed elicotteri da guerra. Neri, grigi, marroncini, chiazzati. Le telecamere si mescolano ai soldati, grande curiosità, le ferraglie quasi si possono toccare! Poi ecco la sfilata aerea. Sfrecciano rumorosi, arrivano di colpo, in rapida successione, come i fuochi artificiali. Gli elicotteri si posano un po’ più in là, sul prato. Sarebbe di impatto mettersi a correre sotto e contro quei rumori con uno striscione arcobaleno; o almeno agitare un cartello, per qualche fotografo attento. Ma manca la materia prima. La locandina «Nato Killing machine», scarabocchiata in fretta sul pullman, fa appena in tempo a comparire che subito un giovane soldato la strappa via. Inutile provare a scriverne un’altra sul prato. «E’ entrata come giornalista, faccia la giornalista».
L’ultima occasione di protesta sarebbe il buffet, sotto un’altra tenda. Esporre un cartellino tipo «La Nato mangia tanto»? Inutile, taccuini e telecamere sono a riposo. Intanto un reporter della zona dice che a causa della guerra in Libia l’astuta compagnia Ryan Air fu risarcita con 3 milioni di euro (il Comune molto meno) per aver subito una riduzione dei voli da e verso Trapani, a causa dei continui voli militari a due tiri di schioppo dalle piste civili.
Comunque nel ripartire in pullman – finalmente senza militari e senza media – verso Palermo in un pomeriggio di fresco sole, e poi in nave per il continente, viene in mente «Hanno fatto la manifestazione» nell’epica canzone «I treni per Reggio Calabria» di Giovanna Marini. Ma, a parte i cartelli scritti a mano, si parla di altri tempi, il 22 ottobre1972. Allora si rischiava molto anche a manifestare pacificamente. Nell’Italia del 2015 invece andare alla marcia No – Trident Juncture per le vie di Napoli, il 24 ottobre, è un obbligo senza spine.
Ecco infine la poesia di Elias, sfollato iracheno
    IL MONDO DOPO LA DISSOLUZIONE DELLA NATO (ma in realtà si chiama «Il sogno di un uomo»)
La guerra finirà
pianteremo alberi
perché rimangano
non perché siano legna da ardere
con i nostri bambini e giovani e
anziani pianteremo fiori
alle frontiere
e grano nei campi dei soldati
trasformeremo le prigioni in musei.
La guerra finirà
faremo pace fra di noi
insieme sradicheremo le mine
come i contadini sradicano le infestanti
al ritmo dei suoni del raccolto
chiuderemo le fabbriche di armi
diventeranno ospedali e scuole materne
e i veicoli militari
diventeranno bus scolastici
una volta ridipinti con arcobaleni a onde.
La guerra finirà
alzeremo la bandiera dell’amore e della tolleranza
cantando per gli umani e la natura
applaudendo insieme
con risate e sorrisi puri
metteremo vasi di fiori alle nostre porte
ogni fiore da una parte diversa del mondo
ordiremo un arazzo colorato
ogni filo da una nazione.
La guerra finirà
ciascuno benderà le altrui ferite
pianteremo gelsomini
sulle tombe delle nostre vittime.

Nessun commento:

Posta un commento