mercoledì 7 ottobre 2015

Euro Tunnel - Božidar Stanišić

Potrei scrivere che aspetto ha il confine terrestre tra Melilla e il territorio del Marocco, quanto è lunga e alta la “barriera tecnica” bulgara, quanto sarà lungo e alto il Muro ungherese, ma non lo farò.
 Potrei scrivere, appena nominati quei due Paesi dell’ex Est europeo, che cosa penso dei rappresentanti politici non solo di questi ma di tutti gli altri Paesi, da dieci anni membri della Comunità Europea – da Riga a Sofia – smemori dei tempi non lontani, in cui non potevano visitare né il Louvre, né la Cappella Sistina, né viaggiare liberamente senza permessi delle autorità comuniste, ormai senza memoria del passato come lo è la maggioranza dei loro elettori, ma non lo farò anche se in tutto ciò si nasconde un altro muro.
Potrei scrivere ponendo degli interrogativi se siamo nella Casa Europa o in un Euro Tunnel che incomincia dalle isole Lampedusa e Kos e finisce alla sbarre di quel tunnel vero che collega Calais con Dover, ma non lo farò.
Potrei scrivere di come sono attualmente le sponde del fiume Isonzo, dei parchi di Udine, della piccola stazione ferroviaria di Gevgelija (in Macedonia), dei parchi di Belgrado – tutti popolati da persone in fuga dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Libia, dalla Siria – fino a ieri benestanti, ma non lo farò.
Potrei scrivere perché mi chiedo come dormano quell’ex presidente francese e i suoi alleati che non molto tempo fa bombardarono Tripoli; e che sogni faccia l’attuale presidente degli Usa e la gente del suo entourage, ripetendo che il governo siriano debba crollare; e che sogni sognino gli altri diretti responsabili nel seminare caos nella parte del mondo ricca di petrolio, ma non lo farò.
Potrei scrivere anche di quel “nuovo filosofo” francese, l’istigatore alle soluzioni belliche laddove egli le ritiene necessarie e di cui, come d’altra parte della sua bella compagnia “filosofica”, Gilles Deleuze, uno degli ultimi pensatori della fine del Secolo Breve, nel lontano 1977 scrisse: “Penso che il loro pensiero sia uguale a zero” – ma non lo farò.
Potrei scrivere che il Parlamento Europeo di facciate ne ha, ma contiene ben poca sostanza politica – e ciò non solamente in riferimento al “caso delle migrazioni” – ma non lo farò.
Potrei scrivere quanto è necessario uscire al contempo sia dagli schemi xenofobi che buonisti – la sfida della migrazione dal Sud al Nord è troppo larga e profonda – ma non lo farò.
Potrei scrivere quanto le migrazioni si sono trasformate negli specchi delle nostre ipocrisie, non-sincerità e non-memorie, strumentalizzazioni politiche e affari per i vari soggetti di accoglienza, ma non lo farò.
Potrei scrivere che a volte credo di più nella bontà autentica di cittadini anonimi che da Lampedusa e Catania a Calais reagiscono con l’anima pura che alle parole di chi “professionalmente” usufruisce di quei 35 euro giornalieri per ospitare profughi, ma non lo farò.
Potrei scrivere che otto mesi fa, quando ho protestato pubblicamente contro i braccialetti per i profughi ospitati in quella cittadina friulana del turismo di portata industriale, nessuno ha reagito e che la stessa cosa poi si è ripetuta quando ho protestato contro il lavoro socialmente utile (gratis) dei profughi, ma non lo farò.
No, non lo farò perché le parole mi sembrerebbero consumate e inutili, le definirei addirittura spazzatura lessicale. Semplicemente, non ci servono più parole contro i muri, ma fatti – quelli di portata epocale; fatti – le prove di un cambiamento copernicano.
Il resto sono solamente chiacchiere.
Dissi tutto questo solo alcuni giorni fa, in risposta a un conoscente di nome Ferenz, ungherese originario di Szeged, che si lamentava della poca generosità dei suoi compaesani, di cui la maggioranza è concorde con la costruzione del Muro anti-immigrati. Amalgamarsi con la parte occidentale dell’Europa secondo lui ha sortito effetti negativi sul piano etico: il senso della solidarietà ha fatto passi indietro – anzi, si sta sciogliendo; il pragmatismo del due più due fa quattro (ma se fa cinque o sei va ancora meglio!) è fattore dominante; la non-memoria ormai fa parte della subcultura e della politica dei due fiorini… Che cos’altro potevo aggiungere, per consolarlo – almeno un po’? Dirgli che le radici di tutto ciò si trovano anche nell’Havel politico, autore di quel saggio sull’incubo del postcomunismo ovverosia nell’espressione di una mente che si era provincializzata nel dopo Muro? Oppure nella superbia intellettuale – “intellettuale” – di György Konràd, lo scrittore e connazionale di Ferenz, mentre negli anni novanta ridefiniva il concetto dell’Europa Centrale? Che la diagnosi del postcomunismo di Adam Michnik, intellettuale polacco, non ci consoli ma almeno sia una medicina amara: «La peggior cosa del comunismo è quello che arriva dopo»? 
        Dopo quel breve silenzio, volevo salutarlo. Però lui mi disse: «Che fare? Dormono anche le Nazioni Unite!».
… «Dovrebbero invece essere svegliate».
«Da noi? Esseri insignificanti? I cui messaggi non vengono letti nemmeno dagli assessori locali, né in Ungheria né in Italia?».
«E’ vero, però i milioni di insignificanti occidentali che vorrebbero un cambiamento epocale e una solidarietà attiva con i poveri del mondo, con la partecipazione attiva delle persone le cui parole hanno ancora un significato, non sarebbero insignificanti…».
«Me li nomini, per favore!».
«Gorbaciov, papa Bergoglio, Chomsky … Tutti i Nobel per la pace, per la letteratura, per le scienze, artisti dal cuore aperto – per dare inizio a una conferenza continua,
 in primis sull’Africa e sulla necessità di fermare le guerre, poi sul fenomeno dell’impoverimento dei due terzi della Terra… Dialogando, naturalmente, de rerum natura, ad una tavola rotonda con gli ultimi del mondo». 
  Da quel momento, fino al nostro saluto, Ferenz incominciò a osservarmi con lo sguardo da psichiatra (anche se lui è ingegnere informatico) a me conosciuto dai tempi in cui lavoravo come mediatore linguistico negli ospedali e negli ambulatori friulani. E’ uno sguardo interessante, che silenziosamente manda il suo messaggio: «Può essere che tu sia normale. Però non sei tu a fare la diagnosi ma l’esperto che ti osserva e ascolta …». 
  No, non gli dissi che solo attraverso la “pazzia” del coraggio umano e dell’apertura al dialogo potrebbe essere cambiata la sostanza delle cause che fuori dal loro ambiente economico e culturale portano milioni di disperati.
Tutto ciò accadrà un giorno?  E se accadrà… sarà prima che sia troppo tardi anche per il nostro Euro Tunnel?
(*) ripreso dal numero 49 si «El Ghibli» – rivista di «Letteratura della migrazione»: settembre 2015, direttore responsabile Pap Khouma, editore Provincia di Bologna.

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