mercoledì 1 luglio 2015

La scommessa di Tsipras - Luciana Castellina

appare stamattina una controproposta di Tsipras (qui) nella quale si (ri)propongono, a Juncker, Draghi e Lagarde, cinque punti, tra cui aumento delle imposte per i redditi più alti e riduzione delle spese militari, due tabù intoccabili per lorsignori.
(avrei aggiunto la requisizione dei capitali degli evasori fiscali depositati presso le banche dei paesi che aderiscono alle istituzioni di quei tre, così, per sputtanarli un po')
adesso vedremo con quale faccia insisteranno a schiacciare la Grecia, quelli lì - franz



Nono­stante l’amichevole gesto con cui Mat­teo Renzi, rega­lan­do­gli una cra­vatta, accolse la prima volta il neo eletto primo mini­stro greco, è pro­prio lui che, arri­vati al dun­que, ha ora reso il peg­gior ser­vi­zio a Ale­xis Tsi­pras. Dicendo che il refe­ren­dum di Atene avrà per oggetto un pro­nun­cia­mento a favore dell’euro o della dracma.
Pro­prio il con­tra­rio di quanto il governo greco si è sfor­zato di spie­gare. E cioè che non intende affatto optare per un ritorno alla moneta nazio­nale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre una discus­sione – che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in mate­ria la poli­tica europea.
Final­mente qual­cuno che, anzi­ché cer­care riparo die­tro la fati­dica affer­ma­zione “ce lo chiede Bru­xel­les”, come ci hanno abi­tuato i gover­nanti euro­pei, pre­tende di dire la sua sulle scelte lì compiute.
E’ certo vero che nella stessa Gre­cia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vor­rebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è que­sto l’oggetto della con­sul­ta­zione. Tsi­pras chiede più forza per nego­ziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il pos­si­bile even­tuale e depre­cato esito di un fal­li­mento defi­ni­tivo del negoziato.
Un’eventualità che in que­ste ore sem­bra forse scon­giu­rata, seb­bene il signor Tusk, il più rude delle isti­tu­zioni, abbia all’ultimo appun­ta­mento but­tato fuori dal tavolo i nego­zia­tori greci, dichia­rando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il con­tra­rio). E’ una spe­ranza fle­bile, ma già dimo­stra che rifiu­tare i ricatti è giu­sto.
Pur­troppo tutta la lunga trat­ta­tiva è stata accom­pa­gnata da un fra­stuono media­tico che ha creato grande con­fu­sione. E così la gente meglio inten­zio­nata con­ti­nua a chie­dere se è pro­prio vero che i greci hanno una ple­tora di dipen­denti pub­blici, quando invece ne hanno, pro­por­zio­nal­mente, la metà della Germania.
Se è vero che vanno tutti in pen­sione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è supe­riore a quella dell’Unione euro­pea e la spesa pub­blica per il pen­sio­na­mento, sem­pre pro­por­zio­nal­mente, metà di quella fran­cese e un quarto di quella tede­sca. La pro­dut­ti­vità è bassa ma è cre­sciuta assai di più che in Ita­lia e per­sino che in Germania.
Se poi si guar­dano nei det­ta­gli i punti sui quali la squa­dra greca ha trat­tato e si è rifiu­tata di acco­gliere le pro­po­ste delle isti­tu­zioni euro­pee è dif­fi­cile rima­nere insen­si­bili alle sue ragioni: rifiu­tare un aumento dell’Iva sui generi di prima neces­sità (cibo, pro­dotti sani­tari, elet­tri­cità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turi­smo; respin­gere la richie­sta di varare una legge che con­senta licen­zia­menti di massa. Rifiuto, anche, a can­cel­lare i pre­pen­sio­na­menti esi­stenti, ma biso­gna ben tener conto che una quan­tità di gente è stata licen­ziata e non ha altre fonti di sosten­ta­mento. E invece è Bru­xel­les che ha rifiu­tato la richie­sta greca di un aumento del 12 % di tasse sui pro­fitti che supe­rano i 500.000 euro.
Si con­ti­nua a ripe­tere osses­si­va­mente che la Gre­cia deve fare le riforme, ma, come del resto in Ita­lia, non si dice mai esat­ta­mente di quali riforme si tratti e in che modo quelle pro­po­ste, o attuate (vedi job act o Ita­li­cum da noi) pos­sano in qual­che modo aiu­tare una ripresa eco­no­mica.
L’austerità, è forse una riforma, o non invece una poli­tica tanto miope da impe­dirla? Que­sta è la lezione che viene dalla Gre­cia: se invece di insi­stere su que­sta come sola ricetta già dal 2010 si fos­sero invece sacri­fi­cati pochi soldi per con­sen­tire gli inve­sti­menti neces­sari alla moder­niz­za­zione del paese non saremmo a que­sto punto.
I greci oltre che fan­nul­loni sareb­bero anche imbro­glioni per­ché hanno preso i soldi e non li resti­tui­scono. Se qual­cuno avesse memo­ria, un bene che sem­bra ormai raro, ci si ricor­de­rebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scop­piò il dramma del debito accu­mu­lato dai paesi del terzo mondo da poco arri­vati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vit­time di quelli che allora non si ebbe timore di chia­mare “spac­cia­tori”. Per­ché è così che si inde­bi­ta­rono oltre il ragio­ne­vole: per l’insistente offerta di acce­dere a un modello di con­sumo super­fluo e dan­noso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto per­ché così con­ve­niva ai pre­sta­tori che poi pas­sa­rono a chie­dere il conto.
La Gre­cia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accu­mu­lata pro­prio così, per colpa di ban­che e di imprese senza scru­poli. Che peral­tro sono state oggi — erano tede­sche sopra­tutto ma non solo — feli­ce­mente ripa­gate con danaro pub­blico europeo.
Quando, poco dopo l’ingesso della Gre­cia nella Comu­nità Euro­pea, nell’81, si arrivò al seme­stre di pre­si­denza affi­dato per la prima volta ad Atene, l’allora mini­stro degli esteri del governo di Andreas Papan­dreu, Cha­ram­po­pu­los, dichiarò: «Non pos­siamo restare silen­ziosi di fronte a una linea poli­tica che non prende in con­si­de­ra­zione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ric­chi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il pros­simo ingresso di Spa­gna e Por­to­gallo, sof­frirà di un dram­ma­tico gap nord-sud per affron­tare il quale sarà neces­sa­rio un vasto tra­sfe­ri­mento di risorse pub­bli­che e di un piano sta­tale inteso a con­di­zio­nare le sel­vagge regole del mercato».
Si trattò di una sag­gia pre­vi­sione. Di cui tut­ta­via anche il governo socia­li­sta greco finì per dimen­ti­carsi, sic­ché anche quando i governi socia­li­sti furono in mag­gio­ranza nel Con­si­glio euro­peo non ci fu alcuna modi­fica sostan­ziale nella linea poli­tica dell’Unione. Fu pro­prio allora che fu decisa la libera cir­co­la­zione dei capi­tali senza che alcuna misura di con­trollo e di uni­fi­ca­zione fiscale fosse assunta.
Renzi avrebbe avuto una buona occa­sione per ripren­dere il discorso e far valere le ragioni dei paesi euro­pei del Medi­ter­ra­neo, con­tro la logica assur­da­mente e fal­sa­mente omo­lo­gante che pre­tende di adot­tare linee di poli­tica eco­no­mica ana­lo­ghe per realtà così diverse. Fa comodo, natu­ral­mente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli strac­cioni del sud. Per di più comu­ni­sti. «Un’Europa senza il Medi­ter­ra­neo sarebbe — come ha scritto Pere­drag Mat­ve­je­vitch — un adulto pri­vato della sua infan­zia». Cioè un mostro.
Quando l’altro giorno ho sen­tito nel corso di un mede­simo gior­nale radio che le ultime noti­zie da Bru­xel­les riguar­da­vano un for­mag­gio senza latte, un cioc­co­lato senza cioc­co­lata, e sopra­tutto un ter­ri­to­rio senza immi­grati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.
Ma non si può. Con la glo­ba­liz­za­zione abbiamo per­duto quel tanto di sovra­nità che gli stati nazio­nali ci con­sen­ti­vano. A livello mon­diale è quasi impos­si­bile costruire isti­tu­zioni che ce ne resti­tui­scano almeno una parte. La sola spe­ranza è di rico­struirle ad un livello più ampio del nazio­nale e più limi­tato del glo­bale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa arti­co­larsi. L’Europa è una di que­ste. Ma il discorso vale solo se lo spa­zio comune non è solo un pezzo di mer­cato, ma una scelta, un modello di pro­du­zione e di con­sumo diversi, una rivi­si­ta­zione posi­tiva di una comune tra­di­zione. Il nego­ziato di Atene ci aiuta, in defi­ni­tiva, ad andare in que­sta dire­zione. Ed è per que­sto che va sostenuto.
da qui (e da qui)

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