domenica 17 maggio 2015

Il semenzaio - Gustavo Esteva

La tormenta segnalata dalle sentinelle zapatiste si intensifica e attacca. Pericoli immensi ci minacciano, le cose non torneranno alla “normalità”, inutile aggrapparsi ai percorsi abituali. Dal 3 al 9 maggio s’è tenuto il seminario intitolato “Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista”. Seminario, aveva spiegato l’Ezln, vuol dire semenzaio, il luogo dove crescono i semi. Quello del Caracol di Oventic è stato solo l’avvio, perché il semenzaio non è pensato per un solo luogo e un solo momento. Tornato a Oaxaca, Gustavo Esteva ci racconta le prime impressioni: “Il compito più urgente è moltiplicare i semenzai, perché altri semi possano crescere secondo un proprio calendario e una propria geografia”. Gli zapatisti ci hanno tolto la voglia e la capacità di idealizzarli, aggiunge, non dobbiamo imitarli. Portiamo un gran peso sulle spalle ma sono spalle rinnovate e piene di coraggio

Il seminario stava per finire. In piena cerimonia di chiusura, sabato 9 maggio, ci è arrivata la notizia della repressione sui compagni di San Quintín. Trovava conferma, nel modo peggiore, ciò che avevamo appena analizzato. Il subcomandante Moisès lo aveva messo in evidenza: forse non abbiamo più il tempo che credevamo di avere. La tormenta si intensifica e ci attacca. Si accumulano le sofferenze. Non siamo ancora guariti da Ayotzinapa, siamo ancora in attesa dei nostri 43, e già succede questo. E questo richiede una reazione immediata, se abbiamo imparato qualcosa nel semenzaio, per trovare il modo di avvertirci, di prenderci cura l’uno dell’altro, di … tessere le nostre storie.
Credo che a nessuno sia tremata la penna o la parola quando si è trattato di descrivere l’orrore. Eravamo carichi di emozione, però anche di rigore analitico e storico. Eravamo riusciti a mostrare, senza ambiguità, molte delle teste dell’idra e anche il modo in cui nel tagliarle se ne moltiplica il numero. Ci era anche chiaro che, nonostante le brillanti, molteplici e solide analisi, siamo ancora molto indietro: abbiamo appena cominciato. Per lo meno, però, è stato possibile stendere il terreno teorico e pratico nel quale poter deporre i semi della conoscenza che abbiamo appreso, per poterlo coltivare, ognuno a modo suo, nei vivai che possiamo aprire ovunque.
Il compito più pressante è chiaro: tornando a casa, senza irresponsabili precipitazioni, ma con la consapevolezza dell’urgenza, dobbiamo moltiplicare i semenzai. Quelli di noi che partecipano a collettivi, ad assemblee, a loro spazi di riflessione, a forme autonome del pensare e dell’agire, devono mettere in comune in esse quello che hanno appreso, sia per avventurarsi sulle nuove strade che si sono aperte, sia per percorrere nuovamente, con rinnovati sguardi, quelle che hanno percorso mille volte. Coloro che non hanno di questi spazi, devono crearne, anche fosse … con due amici o amiche prossimi.
Tra le cose più importanti del semenzaio c’è stata la concordanza puntuale sulla gravità del momento. Dalle posizioni più diverse, in un ampio ventaglio in cui sono state rese evidenti differenze importanti, abbiamo riconosciuto pericoli immensi che gravano su noi tutti, nessuno è escluso.
E si, è stato affascinante. Ma la verità è che all’incontro siamo arrivati inquieti. Che fare di fronte a questa situazione tanto opprimente, minacciosa, immediatamente catastrofica, una condizione che non lascia alcuno spazio all’ottimismo e ne lascia appena un po’ alla speranza?
Continuavamo a farci e rifarci la vecchia domanda, perché sapevamo che le vecchie risposte non funzionano più ma pesano ancora: l’immaginazione si paralizza se vengono abbandonate radicalmente.
Non abbiamo ottenuto una risposta. Ne abbiamo ascoltate molte. E’ questa la natura delle resistenze e delle ribellioni di oggi. Non consistono solamente nell’opporsi a qualcosa, per resistere all’aggressione di una qualsiasi delle teste dell’idra. E’ stato chiaro, per molte e molti dei partecipanti al semenzaio, che l’unico modo efficace di agire è quello di moltiplicare i No, i rifiuti radicali a quello che ci minaccia e ci opprime, e in quella stessa operazione, moltiplicare i Sì, i diversi modi di costruire il mondo nuovo.
Credo che molte e molti di noi abbiano imparato anche una lezione essenziale: non avvinghiarsi a una posizione su ciò che potrebbe essere meglio.
Molte volte, nelle parole ripetute del subcomandante Moises, gli zapatisti ci hanno tolto la voglia e la capacità di idealizzarli e ci hanno fatto capire che non dobbiamo nemmeno imitarli. Era necessario sottoporci a questa operazione quasi chirurgica. L’emozione di essere nel territorio zapatista, l’impronta che la escuelita ha lasciato in tanti partecipanti, le gesta di questi 30 anni, la vitalità di un’iniziativa che sembra essere la più radicale e importante al mondo, e persino il fatto stesso che gli zapatisti ci abbiano convocato questo semenzaio con il loro tradizionale senso della opportunità politica, tutto questo portava a una perdita del senso della realtà. Anche fosse stato possibile e sensato riprodurre questa esperienza tale e quale, ciascuno nei suoi territori, non abbiamo più il tempo che hanno avuto loro.
Una delle sfide più difficili, tra le tante che ci portiamo a casa, è quella di condividere queste riflessioni e perfino il senso dell’urgenza con compagni e fratelli che sembrano distratti, che non percepiscono né sentono la gravità del momento attuale, che hanno ancora speranze che le cose tornino alla normalità e che, per questo, possano aggrapparsi ancora ai percorsi abituali. Come trovare le parole semplici che consentano di condividere senza offendere e di aprire al risveglio le altre menti e gli altri cuori con i quali abbiamo bisogno di diventare fratelli?
Portiamo un gran peso sulle spalle. Ma sono spalle rinnovate e piene di coraggio. Possiamo camminare e persino andare al trotto con questo nuovo peso.

Fonte: la Jornada   traduzione per Comune-info: Camminar domandando

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