martedì 27 gennaio 2015

lettera a Primo Levi

Caro dott. Levi,

c’è voluto il mare azzurro della mia Mondello e il calore avvolgente della lucente estate siciliana, per compiere il mio viaggio virtuale nel Lager. Una laica e impegnativa Via Crucis, alle cui stazioni ho dovuto spesso fermarmi, prendere fiato e guardare il mare: quasi che il mare potesse lavare e lenire il dolore di quegli incontri.

Prima dell’undici aprile ’87, di Lei avevo solo il vago sapore suggerito dagli spicchi acerbi di occasionali letture. Forse è stato meglio così. Se avessi letto le sue pagine da ragazza, avrei corso il rischio di banalizzare il Lager. O, al contrario, di scappare via spaventata. E Lei sarebbe rimasto da solo, nella baracca n.45.
Nei lenti pomeriggi della scorsa estate, l’ho finalmente incontrata. Ogni sua pagina mi regalava una sua particella preziosa: la sua inquietudine, il suo calvario, la sua fragile resurrezione; la sua acuta sensibilità e intelligenza, il suo delicato pudore, il suo amore per la chimica, la sua passione etica, il suo legame forte e fecondo con la scrittura.

La discesa agli Inferi
Del suo racconto sul Lager, conservo indimenticabili frammenti.
Penso a Hurbinek: tre anni, gambette paralizzate, a cui nessuno aveva insegnato a parlare. I cui occhi però “saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava (…) premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”. Guardo i miei garruli figli e penso a Hurbinek, “che non aveva mai visto un albero; Hurbinek che aveva combattuto come un uomo (…) per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek, che morì ai primi giorni del marzo 1945, libero, ma non redento.”

Penso a Sòmogyi, chimico ungherese, suo compagno nell’infermeria, nel gennaio del ‘45, nei giorni intercorsi tra la fuga dei tedeschi e l’arrivo dei russi. Sòmogyi che, “Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare ‘Jawoh’l ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, ‘Jawohl’ ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola.”

Penso ai suoi sogni, in quell’incubo interminabile che era il sonno nel Lager.
Il sogno del racconto: “Essere nella mia casa, fra persone amiche e avere tante cose da raccontare: ma (…) i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.” Il sogno di Tantalo: “Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. E’ un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa si che l’atto non vada a compimento. Allora il sogno si disfa (…), ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno.”

Penso al suo viaggio notturno verso la latrina. Vestito solo di camicia e mutande e con suole di legno ai piedi, in mezzo alla neve: per svuotare il secchio pieno dell’orina notturna dei prigionieri. Secchio “disgustosamente caldo”, che andava svuotato almeno venti volte a notte.
Penso all’angoscia nel momento della sveglia, quando la guardia “Pronunzia la condanna di ogni giorno:-‘Aufstehen’ o più spesso in polacco: ‘Wstawàc’(…). La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi (…) Incomincia un giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano.”…

2 commenti:

  1. Grazie di questa condivisione. Primo Levi, a mio avviso, è un gigante della storia e della letteratura. Grazie ancora.

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    1. avevo pubblicato anche la tua lettera ad Alex Langer, entrambi non sono più riusciti a vivere in questo mondo, eppure fra quelli che hanno provato a rendere il mondo migliore, con le loro azioni e parole.

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