martedì 20 maggio 2014

dalla parte dei lavoratori dei call center

Chi di noi non manifesta quotidianamente la propria solidarietà ai lavoratori vittime della crisi? Chi di noi non esprime vicinanza a quelle famiglie su cui cala implacabile la scure della disoccupazione? Tutti, immagino.
Bene quella che vi racconto brevemente è una storia di lavoratori. Di 90.000 donne e uomini che da qui a qualche mese potrebbero precipitare nel baratro della disoccupazione, della povertà. E’ la storia dei lavoratori dei call center, forse quelli verso cui questo paese è in più in debito. Gli si è imposta precarietà, sottosalari, sfruttamento.
Molti di loro hanno iniziato a lavorare in un call center a venticinque anni e oggi ne hanno quaranta. Come i minatori di fine ottocento raccontati nel “Germinal” di Emile Zola, hanno conquistato un salario stabile dopo anni di lotte, presidi, scioperi. E oggi si ritrovano aggrappati a quell’unica fonte di reddito. Mentre fuori, qualcuno, ancora pensa che l’operatore telefonico sia una specie di hobby. Non lo è: i lavoratori hanno vincoli, orari, doveri e qualche diritto ed esercitano un’attività emotiva che nel tempo può divenire usurante. Sono operai di una catena di montaggio immateriale…
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In queste settimane, per il libro a cui sto lavorando, mi capita di intervistare molti esponenti – parlamentare non – del Pd e della sinistra più radicale, che quando parlano delle “nuove forme di lavoro” mi fanno quasi sempre lo stesso esempio, cioè quello dei call center.
È un mondo che marginalmente conosco, per motivi non professionali. Non è certo il solo in cui si declina la piaga del nuovo sfruttamento, ma è uno di quelli più robusti per numeri e più impressionanti per accadimenti: so di call center in cui la paga è arrivata sotto i 3,5 euro all’ora, sempre con la stessa minaccia: sennò ce ne andiamo in Albania, in Romania, in Serbia eccetera…

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