martedì 17 settembre 2013

La musica è finita - Giorgio Maimone

pubblico nella sua totalità un articolo di Giorgio Maimone su una questione interessante e importante, molti abbiamo pensato più di una volta alle cose che dice Giorgio Maimone, ma mai le avevo viste scritte con tanta chiarezza e disillusione.
come si da a dargli torto, quello che dice vale anche per il calcio, secondo me, chi ha visto giocare Maradona e Baggio e Zola, come fa ad appassionarsi al calcio di oggi, chi ha visto l'Olanda del '74 come fa a riprovare gli stessi entusiasmi oggi?
torno alla musica, penso alla Francia, dopo Jacques Brel, George Brassens, Yves Montand, Leo Ferrè, Aznavour (cito solo loro, ma penso che ne sarebbero anche altri, mi sa) questi anni c'è stato qualcun'altro di quel livello?
poi è vero, come dice Maimone, che ce n'è diversi bravi, ma sono e restano nani, troppo spesso, davanti ai giganti che sono spesso morti o hanno lasciato - franz





La musica è finita, sì. La gioia che mi dava ascoltare a turno la voce di Bob Dylan, di Fabrizio De André, di Francesco De Gregori o di Van Morrison è sfumata in un silenzio che sa di morte, di funerale , di De profundis. La musica è finita nel senso che sono finite le canzoni, che non ci sono più spinte vitali, che nessuno scrive niente che possa interessare. Alcuni parlano del mondo, altri di sé. I primi hanno per referente le pagine dei giornali, i secondi il proprio ombelico. La musica è però finita, perché non sa più raccontare la società, non ci sa dire chi siamo, non ci sa fotografare. Sì, ogni tanto qualche bagliore emerge, ma mancano i cantautori eponimi, manca chi, con un endecasillabo ben temprato sappia (o voglia, o possa) trovare il modo per raccontarci. Fate mente locale: le prima canzoni di De André non erano un magnifico ritratto dell'Italietta degli anni '60? Così ipocrita, meschina, stretta tra le sue mille ipocrisie e le sue puttane di alto e basso bordo? È Bob Dylan non ci ha forse saputo dare appieno la luce ed i bagliori di una diversa cultura, in maturazione sul l'altra sponda dell'Atlantico? O forse De Gregori non ci ha raccontato gli anni di mezzo, da quelli di piombo a quelli di niente attuali. La storia siamo noi. O meglio, la eravamo. Ora ci sentiamo esclusi. Ora guardo fuori e vedo un mondo incattivito e smarrito, una società alla deriva, con valori etici allo sbando e una cattiveria di fondo irrecuperabile. Homo homini lupus, molto più di prima. Eppure ... tutto questo nelle canzoni non c'è. Non c'è internet, non ci sono i social network, gli smartphone, un mondo del lavoro che sta chiudendo per fallimento, rapporti umani onerosi, onusti e consumati, dove, anche lì, non si sa più dove andare. Se è solo sesso è fatto male. Sostenuto chimicamente, praticato atleticamente, ma perso anni luce lontano da amore, progetti, stili di vita da reinventare. Se è possesso invece diventa negazione della vita, tormento, femminicidio. La musica è finita. Non ci sa raccontare l'Italia di Berlusconi, di Grillo, dei politici imbelli, degli zimbelli televisivi, dello strapotere di You Tube, del cyber-ululato, dal vuoto dei valori. È finita come parole, ma è finita anche come musica. L'unica novità dagli anni '90 in qua, indipendentemente da qualsiasi valore gli si voglia dare, è stato il rap. L'unica. Poi il silenzio. Niente di nuovo sul fronte occidentale, niente a levante, niente a occidente. Il rock, il progressive, il grunge, l'hard rock, il talking blues, il country, il folk, la New wave avevano tutti portato qualcosa, avevano tutti gettato semi che sono germogliati o meno, in modo più o meno fruttifero, ma ogni tanto il vento del nuovo scuoteva le piazze e divideva figli e genitori, nonni e nipoti. Ora è stasi. La forma canzone è invecchiata senza sapersi reinventare, seguendo un processo che la musica classica ha compiuto nelle secolo scorso: crisalide cristallizzata in un bozzolo da cui mai più uscirà una farfalla, una pupa, un bruco. Insomma, non in grado di andare né avanti né indietro. Ora è tutto melassa pop. I più onesti lo dicono, lo ammettono di fare pop. Altri, la maggioranza, no. Ma non si capisce cosa facciano e cosa vogliano fare. Di sicuro fanno canzoni che non emozionano. È che, nella maggior parte dei casi non interessano.

Volete fare un gioco molto cattivo? Segnatevi dieci grandi canzoni del secolo scorso (oh, guardate che non parlo della preistoria! Dagli anni '60 ai '90. Tagliamo fuori gli anni zero, che non contano, e confrontatele a dieci canzoni che vi piacciono adesso. Su, è semplice: dividete il foglio in due, a sinistra scrivete:
Creuza de ma
Una notte in Italia
Mimi sarà
Un uomo a metà
La stazione di Zima
Un altro giorno è andato
Sad eyed lady of the lowlands
And the healing has begun
I'm a walrus
Festa di piazza
Ho scritto le prime dieci che mi sono venute in mente, rigorosamente una per ogni grande autore (e ho lasciato fuori Conte, Cohen, Endrigo, Springsteen etc etc etc). Ecco, io nella colonna di destra non saprei cosa metterci. Che ci metto? Cosa dovrei metterci? Pacifico o Niccolò Agliardi? Che pure sono dignitosissimi autori? O il futuro della musica sono altrettanto abili autori però più che 40enni come Alessio Lega, Federico Sirianni, Giambattista Galli, Luigi Maieron. Ma valgono Dylan? Parlano del mondo come De André? Conoscono gli imperscrutabili labirinti dell'animo umano o la povera gente o la rivolta di classe, di ceto, di tensione politica? Ci sono solo due grandissimi nella nostra epoca, in Italia che non si sa per quanto continueranno a fare il loro mestiere: Davide Van De Sfroos e Max Manfredi. Il primo ha portato aria diversa, pur su una base ritmico-armonica totalmente americana, il secondo, disgustato e un po' cinico, osserva e poco si mischia. Negli anni-zero speranze avevo coltivato ne La luce della centrale elettrica, rabbia e disperazione metropolitana, ma un grande disco è stato seguito da un clone. Zibba, di Zibba non si può dire che bene, ma ancora non ha dato quello che potrebbe e forse, forse, si badi bene, non vuole darlo. Lo so che c'è tanta brava gente che scrive e fa canzoni, anche troppa. Forse sulle canzoni bisognerebbe meditarci più a lungo prima di farle uscire. Personalmente ho scritto più di 800 canzoni e nessuna mai vedrà la luce, perché non ne vale la pena, perché il loro ambito è la cameretta o qualche raro amico. Sarebbe bene forse se anche i nostri si tenessero più in caldo le canzoni prima di farle uscire, pubblicandole solo quando e se esse stesse si impongono con forza e allora è d"obbligo pubblicarle. Per il resto siamo qua e viene naturale citare Alessandro Hellmann: "di cosa parliamo quando parliamo d'amore?" E quando "non" parliamo d'amore? La forza sono le storie, mi dicono? Non solo. Anche le idee, anche le emozioni, ma più ancora bisognerebbe andare a chiedersi perché si fa una canzone e quale sia il suo scopo. Per cantarla, che domanda! Ma allora, beati miei, fate qualcosa che si possa cantare! Che abbia la gioia del canto dentro! L'esplosione di un acuto, l'intimo di un sussurrato, una melodia che si ricordi e si possa canticchiare! Sì, canticchiare! Perché De Andrè, Dylan, De Gregori, Vecchioni, Jannacci e Fossati si canticchiano anche. Pure sotto la doccia. Dateci ancora pezzi come "Bang bang" o "Io ho in mente te", "Una ragazza in due", "Senza luce", "L'ora dell'amore" o "Il pescatore", tutte canzoni che fa piacere cantare, perché il canto è gioia. "Il mio canto libero", scriveva Battisti, uno che non ne sbagliava una di melodia. È così, invece ora, il canto non è libero. È avvinghiato, avvoltolato, involuto, nascosto e mortificato.

Certo, i grandi sono tutti morti o non stanno tanto bene. L'elenco è lungo, ma per un motivo o per l'altro resta solo De Gregori a rappresentare la grande stagione del cantautorato italiano. Morti Gaber, Jannacci, Endrigo, De André, Lucio Dalla; ritirati Guccini, Fossati e la De Sio; ridotto al silenzio Claudio Lolli; quasi uscito di scena Paolo Conte, resta indomito e ricco di carica e di cose da dire Goran Kuzminac. Un po' poco per reggere tutta la scena. La musica è finita, ma non ce ne dobbiamo preoccupare. Ogni grande genere ha avuto la sua epoca: il melodramma è durato tre o quattro secoli, ma alla fine si è estinto, l’Operetta ha avuto vita brevissima: dal 1870 al 1930: 60 anni, quasi come la canzone d’autore o da cantautore. Il jazz storico è pure durato 60 anni, dall’inizio del Novecento agli anni Sessanta, pur continuando a trasformarsi e a cambiare pelle, dando luogo a ramificazioni ulteriori, ora un po’ disseccate. Se entriamo nell’ambito del rock, il rock and roll in senso stretto non è andato oltre i due decenni (anni ‘40/60), il progressive non ha superato le soglie degli anni ’70, durando meno di 10 anni, come pure il punk, l’hard rock, il metal. Per non parlare di meteore come il grunge, il rock demenziale, lo ska, il reggae. Resistono inviolabili il folk (la musica popolare) e il blues che però hanno cambiato a loro volta forma tante di quelle volte da averne perso il conto. Se si sono estinti tanti illustri progenitori non è forse a rischio di estinzione la canzone stessa? Che poi non vuol dire il canto: la canzone così come percepita, con strofe o stanze, ritornelli o meno, bridge, introduzione e finale. La canzone pop fatta di melodia, armonia, tempo. No, sinceramente non c’è più nessuno che sa fare canzoni che possano durare e resistere al trascorrere degli anni. Poco male. Arriverà qualcosa d’altro. Qualcosa che sappia tenere conto dei differenti metodi di fruizione, dello spezzettarsi dell’attenzione, della gratuita presunta di quello che si ascolta. Chi vuole più pagare una canzone? Nessuno. Quando ero giovane l’unico modo per sentire la musica che mi interessava (i Pentangle, gli Steeleye Span, John Martyn, Richard Thompson, ma anche Johnny Cash e tutta la musica country, J.J.Cale e gli epigoni di Dylan) era comprarsi i dischi. Oppure registrarli (male) da qualcuno che li aveva comprati. Non c’erano radio per questa musica, né televisione. Solo pochi giornali e la carta non canta. Adesso basta accendere un computer, aprire un tablet e si ha tutta la musica del mondo a disposizione, tendenzialmente gratis. Marx spiegava tanti anni fa che i mezzi di produzione sono in ogni memento storico l’espressione del livello tecnico e delle esigenze produttive del momento stesso. Il mezzo fa il messaggio, insomma. E noi questo nuovo messaggio non l’abbiamo trovato e non riusciamo neanche a scorgerlo. Difficilmente la salvezza sarà nelle parole: speriamo nella musica. La musica è finita e forse non riprenderà mai. Ma qualcosa d'altro nascerà. Celebriamo il funerale della canzone d'autore con la massima dignità e restiamo ad aspettare che i tempi riprendano a cambiare e che le risposte siano di nuovo portate dal vento.

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