giovedì 4 luglio 2013

Lo possiamo pure chiamare “Ugo” – Paola Caridi

Bene, se questo fa piacere, se non rovina la gioia di decine di milioni di egiziani e alcune cancellerie occidentali e pure l’Arabia Saudita – non chiamiamolo golpe. Non chiamiamolo colpo di stato, putsch, coup d’etat. Dov’è il problema? Non chiamiamolo e basta. Parafrasando una delle scene culto di Massimo Troisi, possiamo anche chiamarlo “Ugo”. Però in qualche modo si dovrà pur definire, questo evento. A meno che definirlo, in un modo o in un altro, non ponga serie contraddizioni di ordine politico, politologico, concettuale, morale, storico.
O è un golpe o è una rivoluzione. Non è certo un passaggio democratico. Saltiamo subito l’ipotesi del golpe militare. È talmente evidente che è un golpe – nel percorso attraverso il quale si è avuta la destituzione del presidente Mohammed Morsi – che non è neanche il caso di parlarne. Allora è una rivoluzione, anzi, è la rivoluzione atto secondo, o terzo. Revolution reloaded. Ma se è una rivoluzione, perché preoccuparsi di sottolineare che la democrazia è rimasta intatta? Non è così: la democrazia non resta intatta se a un presidente democraticamente eletto (questa è la differenza con la destituzione di Mubarak) è stato detto, ancora una volta dai vertici militari, di andarsene. Che la democrazia resti intatta, però, non è una preoccupazione così rilevante, in una fase rivoluzionaria che è, di per sé, un tempo sospeso…

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