domenica 14 luglio 2013

Il lavoro di una donna. La realtà distorta di una giornalista freelance in Siria - Francesca Borri

Finalmente si è fatto vivo. Dopo oltre un anno che lavoravo per lui come freelance, periodo in cui mi sono beccata il tifo e un proiettile nel ginocchio, il mio editor avrà visto le ultime notizie e, pensando che fossi tra i quattro giornalisti italiani brevemente rapiti a inizio aprile, mi ha mandato una mail chiedendo: “Riesci a connetterti? Puoi mandare tweet sulla situazione?”   

La sera stessa sono tornata nella base dei ribelli che mi ospita, nel bel mezzo dell’inferno che è Aleppo, e tra la polvere e la fame e la paura, speravo di trovare un amico, una parola gentile, un abbraccio. Invece mi aspettava soltanto l’ennesima mail da Clara, che sta trascorrendo le vacanze a casa mia in Italia. Mi aveva già mandato otto messaggi con il titolo “Urgente!”. Oggi non riesce a trovare la mia tessera per la sauna, così da andarci gratis. Le altre mail erano del tipo: “Ottimo pezzo oggi; brillante come il tuo libro sull’Iraq”. Peccato che il mio non era un libro sull’Iraq, bensì sul Kosovo.  

 La gente coltiva quest’immagine romantica del giornalista freelance che ha barattato la sicurezza dello stipendio fisso per la libertà di seguire quelle storie che l’affascinano di più. Ma noi non siamo affatto liberi; piuttosto, l’esatto contrario. La verità è che l’unico lavoro che oggi mi sia capitato è quello di trovarmi in Siria, dove non vuole andarci nessuno. E non si tratta neppure di Aleppo, per essere precisi; è la linea del fronte. Perché gli editor in Italia non chiedono altro che il sangue, gli scontri a fuoco. Io parlo degli Islamisti e della loro rete di servizi sociali, le radici del loro potere – un articolo decisamente più complesso da costruire di un racconto in prima linea. Mi arrovello per spiegare al meglio, non solo per commuovere, per colpire chi legge, e mi sento rispondere: “Cos’è 'sta roba? Seimila parole e non c’è nessun morto?”  

In realtà avrei dovuto capire come stavano le cose quella volta che il mio editor mi chiese un pezzo su Gaza, perché, come al solito, era lì che piovevano le bombe. Ecco cosa mi ha scritto: “Conosci Gaza a occhi chiusi. Che importa se ora sei ad Aleppo?” Giusto. La verità è che sono finita in Siria dopo aver visto le fotografie di Alessio Romenzi su Time, il quale era riuscito a raggiungere Homs seguendo le condutture dell’acqua, quando nessuno aveva la più pallida idea di dove fosse Homs. Guardavo le sue istantanee al suono dei Radiohead, quegli occhi che mi penetravano, gli occhi delle persone massacrate dall’esercito di Assad, una dopo l’altra, e nessuno aveva mai sentito parlare di un posto chiamato Homs. Una morsa che mi stringeva la coscienza: dovevo andare immediatamente in Siria.   

Ma per gli editor non fa differenza se scrivi da Aleppo o da Gaza o da Roma. Tanto ti pagano la stessa cifra: 70 dollari. Anche in Siria, dove i prezzi triplicano per via della speculazione diffusa. Per esempio, solo dormire in questa base dei ribelli, sotto il fuoco dei mortai, con un materasso sul pavimento e l’acqua infettata da cui mi sono presa il tifo, costa 50 dollari a notte; 250 dollari al giorno per una macchina. Anziché ridurre i rischi si finisce così per massimizzarli. Non soltanto non puoi permetterti alcun tipo di assicurazione – quasi mille dollari al mese – ma neppure un aiutante o un traduttore sul campo. Ti trovi completamente sola nell’ignoto. Gli editor sanno bene che con 70 dollari a pezzo sei costretta a risparmiare su tutto. Sanno pure che se dovesse capitarti di essere ferita gravemente, emerge quella strana speranza di non sopravvivere, perché non puoi permetterti neppure di essere ferita. Però ti comprano lo stesso l’articolo, pur se non si sognerebbero mai di comprare un pallone di calco della Nike fatto a mano da un bambino pakistano...

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