giovedì 8 marzo 2012

Tutto ha un prezzo

La catastrofe ecologica del Golfo del Messico del 2010 è costata per ora 7,8 miliardi di dollari, che saranno prelevati dal fondo di compensazione di 20 miliardi creato subito dopo il disastro del Golfo del Messico. Gli utili netti del 2011 sono stati 23,9 miliardi di dollari.
Traduzione: uno dei disastri ecologici maggiori della storia dell’umanità, a leggere e ascoltare giornali e politici degli Stati Uniti, grava sul bilancio di chi l’ha causato come un leggero raffreddore. E quei soldi arriveranno perché Obama e avvocati hanno fatto la voce grossa.
E nel Delta del Niger qualcuno verrà risarcito?
Tutto si può vendere e comprare, e come sempre la vita occidentale costa molto di più della vita africana, in ogni caso sempre briciole di bilancio.
“E’ l’economia, bellezza”, direbbe qualcuno, io dico che è uno schifo, Bartleby direbbe “I would prefer not to” - franz


…La società ha infatti dichiarato di aver chiuso il 2011 con un forte utile, generato da una parte dal rialzo del prezzo del petrolio, e dall’altra dalle dismissioni di alcune attività non fortemente produttive. La compagnia petrolifera ha così potuto spingere i ricavi a quota 96,34 miliardi di dollari rispetto agli 84 miliardi di dollari dei dodici mesi precedenti, contraendo le spese operative e straordinarie, e permettendo così agli utili netti di raggiungere quota 23,9 miliardi di dollari rispetto alla perdita di 4,9 miliardi di dollari dell’anno precedente.

La British Petroleum ha raggiunto un accordo extragiudiziale con le migliaia di persone danneggiate dalla marea nera che nel 2010 si riversò nelle acque del Golfo del Messico dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. In seguito all’intesa tra le parti, è stato rinviato il processo alla compagnia petrolifera, che sarebbe dovuto iniziare proprio oggi, lunedì 5 marzo.
Adesso l’accordo con le parti lese dovrà essere formalmente approvato dalle autorità giudiziarie americane. Secondo quanto comunicato dalla stessa BP, l’azienda ha acconsentito a versare un risarcimento complessivo di circa 7,8 miliardi di dollari, che saranno prelevati dal fondo di compensazione di 20 miliardi creato subito dopo il disastro del Golfo del Messico.
La cifra coprirebbe comunque solo i danni subiti dai privati, ma non le multe e le richieste di risarcimento presentate dal Governo USA e dai diversi Stati costieri che hanno denunciato danni ambientali in seguito all’incidente. Resterebbero inoltre da coprire le domande di risarcimento degli azionisti e delle compagnie concorrenti, che attribuiscono alla Bp le perdite patite per la moratoria sulle trivellazione decisa in seguito al disastro della Deepwater Horizon.
La cifra finale, dunque, potrebbe essere sensibilmente più alta, ma in ogni caso la BP ritiene che l’accordo appena raggiunto con le persone danneggiate non rappresenti «un’ammissione di responsabilità»…

Il Delta del Niger è l'area fluviale più vasta dell'Africa, è il terzo delta al mondo. Ha una superficie complessiva di circa 70.000 kilometri quadrati (per avere un metro di paragone, per noi italiani, il nostro maggior delta, quello del fiume Po, si estende su di una supercie di 786 chilometri quadrati). Era un paradiso ecologico, un ecosistema dove foresta pluviale, paludi alluvionali e anse del fiume si amalgamavano in un perfetto equilibrio tale da far vedere, in modo netto ed inequivocabile, la straordinaria bellezza della natura e da far vivere, attraverso la pesca, la caccia e l'agricoltura oltre 20 milioni di persone…


...Non vi sono ragioni al mondo per non affermare che chi ha prodotto questo disastro debba pagare fino all'ultimo centesimo il ripristino (se mai sarà possibile, comunque quanto più possibile) dell'ambiente naturale. Non è un problema che riguarda solo gli Ogoni (o i nigeriani). E' un tema che riguarda tutti noi, il mondo intero...

…Nel Delta del Niger (una regione di circa 70.000 kmq con 27 milioni di abitanti), si produce la maggior parte del petrolio nigeriano, circa 2,4 milioni di barili al giorno.
L’inquinamento criminale viene causato dalla perdita del greggio che fuoriesce da tubature vecchie ed usurate dal tempo che si estendono nel territorio per centinaia di chilometri, riversando così il petrolio nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde. Le persone che vivono in questo luogo respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato e bevono acqua mista a petrolio.   Sono 36 mila i  km² di mangrovie, corsi d’acqua e lagune invasi dalla melma nera; per rifornirsi di acqua potabile, le popolazioni locali sono costrette a scavare nel sottosuolo fino a 50 metri di profondità, causando instabilità del terreno e ponendo la zona a rischio di frane.
 Il recente rapporto del PNUE, cioè il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, denuncia apertamente questa catastrofe ambientale. Sono stati esaminati più di 4mila campioni estratti dai 780 pozzi della zona. Il risultato è sconcertante: le popolazioni bevono, cucinano e si lavano con acqua proveniente da pozzi contaminati dal benzene, in cui i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quanto consentito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità(OMS).
Anche l’aria viene contaminata dai gas, sottoprodotti delle estrazioni petrolifere, che vengono bruciati a cielo aperto dal 1985, pratica definita “gas flaring” (gas esplosivo) che fa sprecare ogni anno una quantità di gas pari al 30% del fabbisogno europeo.  Questo gas potrebbe essere reinserito nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché  ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione.
Il solo inquinamento ambientale prodotto dal “gas flaring” nel mondo, diventa pari alle emissioni di 77 milioni di auto o di 125 centrali a carbone.  Le fiammate ardono continuamente di giorno ed illuminano la notte, rendendo irrespirabile l’aria, facendo aumentare considerevolmente la temperatura attorno alle trivellazioni e causando problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro.  La legge nigeriana vieta la pratica del “gas flaring” perché viene ritenuta pericolosa per l’ambiente e per la salute umana, ma i governi non sono mai riusciti ad imporre la soluzione del problema. I vertici dello stato nigeriano dovrebbero rafforzare la regolamentazione circa l’estrazione del petrolio, in modo da obbligare le aziende petrolifere a rispondere dell’inquinamento ambientale, prevenendo così ulteriori abusi.
 Oltre ai problemi di salute e quelli ambientali, la popolazione deve anche subire l’ingiustizia sociale: nonostante l’immenso valore economico dei 606 pozzi petroliferi, dopo circa 50 anni di estrazioni che ogni anno creano l’80% del Pil nazionale, la Nigeria resta uno tra i più poveri paesi africani. L’aspettativa di vita dei 27 milioni di persone che abitano il delta del Niger – delle quali il 60% sopravvive grazie alle attività direttamente collegate all’ecosistema – arriva a poco più di 40 anni. La distribuzione delle risorse non è equa. Il tasso di disoccupazione varia tra il 75 e il 95%, perché a lavorare nei pozzi petroliferi è soprattutto manodopera specializzata proveniente dall’estero. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono le multinazionali ed i politici locali corrotti. Negli ultimi decenni però queste disuguaglianze hanno esasperato la popolazione che, attraverso proteste e mobilitazioni, subendo repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata delle multinazionali,  è arrivata a rivendicare la fine del saccheggio indiscriminato del territorio, chiedendo la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni, una più equa distribuzione dei proventi del petrolio, nonché il risarcimento del debito ecologico…

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